Archive for Gennaio 15th, 2022

Quirinale, il regista che manca nel gioco del Colle

sabato, Gennaio 15th, 2022

di Stefano Folli

Tutto secondo le previsioni nel campo del centrodestra. Nessuno si aspettava colpi di scena dalla villa di Berlusconi e non ci sono stati. Era interesse comune – del vecchio fondatore come della nuova generazione che lo incalza – dare via libera alla candidatura e stare a vedere cosa succederà in Parlamento. Anche le riserve sul fatto che “non ci si candida al Quirinale ma si viene candidati” lasciano il tempo che trovano.

Sembrano guardare al passato, quando la Repubblica era in buona salute e il sistema istituzionale rispondeva a una logica. Oggi lo scenario è confuso e non è strano che un personaggio come Berlusconi giochi una partita improbabile ma esplicita. Anzi, secondo un democristiano come Rotondi, osservatore attento, questa potrebbe essere l’ultima volta che il presidente viene eletto per via parlamentare. La prossima potrebbe essere un’elezione diretta, sulla scorta di una riforma costituzionale di cui molti sentono ormai la necessità. Vedremo.

Intanto la vera domanda è come il centrodestra userà i suoi voti qualora – intorno alla quarta votazione – fosse evidente che Berlusconi non è in grado di essere eletto. Perché un punto è certo: l’alleanza ci tiene a non disperdere la sua forza parlamentare (intorno ai 420-450 voti). Per la prima volta la destra può essere determinante nell’elezione del capo dello Stato, purché non commetta errori irreparabili. Come dice Gianni Letta, bisogna pensare al Paese e non alla fazione.

Peraltro restare uniti non sarà semplice. È facile oggi, quando siamo appena ai preliminari. Ma come reagirà Berlusconi all’insuccesso? Se fosse dimostrato che si sono palesati parecchi franchi tiratori tra i leghisti e FdI, oltre che in Forza Italia, è inverosimile pensare che se ne starà tranquillo a guardare Salvini e Giorgia Meloni mentre trattano anche a nome suo e magari si dispongono a sostenere Draghi (ipotesi tutta da verificare).

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Covid, la lezione di Israele (che registra un record di casi): ripartire dai bambini per fermare i contagi

sabato, Gennaio 15th, 2022

di Luca Ricolfi

Siamo stati abituati, in questo primo anno di campagna vaccinale planetaria, a considerare Israele il primo della classe. Si è assicurato il vaccino giusto (Pfizer), e lo ha fatto nel modo più tempestivo, senza i problemi di approvvigionamento che hanno messo in difficoltà i Paesi dell’Unione europea. Si è accorto prima di tutti gli altri Paesi che la protezione dura poco, e che è necessaria una terza dose (o booster). Ha iniziato a somministrare la terza dose prima degli altri, e ora si sta preparando a somministrare la quarta. Ha iniziato tempestivamente le vaccinazioni dei bambini, preceduto soltanto dagli Stati Uniti.

Con tutte queste medaglie all’onor vaccinale, ci aspetteremmo che le cose, in Israele, andassero a gonfie vele. E in effetti per certi versi è proprio così: in questo momento nessun Paese occidentale avanzato ha una mortalità per abitante bassa come Israele. Questa, tuttavia, è solo una delle due facce della medaglia. L’altra faccia è che, da circa 2 settimane, i contagi stanno esplodendo: il valore di Rt è vicino a 3 (un valore catastrofico, il peggiore dell’occidente), le ammissioni quotidiane in terapia intensiva triplicano ogni settimana e oramai sono il doppio che in Italia, gli ospedali sono costretti ad aprire nuovi reparti pediatrici per accogliere i bambini che contraggono il Covid. Che succede? È la prova che il vaccino non funziona?


Difficile rispondere con sicurezza, ma forse una spiegazione c’è. Ed è sorprendentemente semplice: a dispetto di quel che si crede, Israele è uno degli ultimi Paesi dell’occidente quanto a copertura vaccinale. Fra le società avanzate di tipo occidentale, solo gli Stati Uniti hanno una copertura vaccinale più bassa.


Vediamo qualche numero. Il Paese star è il Portogallo, con il 90% della popolazione vaccinata, la Spagna è all’82%, l’Italia al 75%, Israele non arriva al 65%, gli Stati Uniti sono al 62%. Per trovare Paesi relativamente avanzati meno vaccinati degli Stati Uniti occorre avventurarsi fra i paesi europei dell’Est, notoriamente ostili alla vaccinazione.


Come è possibile che il Paese più virtuoso abbia più di un terzo della popolazione non vaccinata? La risposta è che la demografia esiste, e la religione pure. La demografia fa sì che Israele sia la società avanzata più giovane del mondo, con un numero di minorenni doppio di quello dell’Italia. E una parte considerevole dei minorenni o non si possono vaccinare (sotto i 5 anni), o si possono vaccinare ma solo da pochissime settimane a questa parte (dai 5 agli 11 anni). Il tutto aggravato dall’apertura delle scuole, che forniscono ai non vaccinati il luogo ideale per propagare l’infezione (su questo, se non si leggono i risultati con gli occhi dell’ideologia, le evidenze scientifiche sono piuttosto chiare).

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Il Pnrr potrebbe cambiare. E Bruxelles aspetta al varco il governo italiano

sabato, Gennaio 15th, 2022

di Claudio Tito

C’è una parola che da qualche settimana sta iniziando a circolare nei palazzi di Bruxelles: “Redeployment”, redistribuzione. Ed è riferita all’Italia. Anzi, al Pnrr del nostro Paese. Ossia al Piano con il quale si impegnano le risorse del Recovery Fund. A cosa si riferisce? Alla possibilità, prevista formalmente, di rivedere i piani già presentati e approvati dalla Commissione e dal Consiglio europeo.

Negli uffici tecnici di Bruxelles che sono chiamati a valutare semestre per semestre il raggiungimento degli obiettivi, è infatti scattata una certa preoccupazione. L’agenda del 2022, infatti, è piuttosto corposa: ben 102 target. Ma l’attenzione si concentra su una quota specifica di questi traguardi: quella che ricade sotto la responsabilità di enti locali, Regioni e aree metropolitane. E in quella sede potrebbero emergere difficoltà consistenti a impegnare le risorse e a realizzare le opere. Bisogna tenere presente che il 36 per cento dei fondi assegnati dal Recovery è affidato proprio alle autorità locali. Il governo nazionale ovviamente vigila e può attivare una sorta di potere sostitutivo, ma la messa a terra spetta comunque a Comuni e Regioni. Si tratta di 66 miliardi da impiegare per asili nido, rigenerazione urbana, edilizia scolastica e ospedaliera, economia circolare, interventi per il sociale. Sono misure presenti in particolare nelle Missioni 2 e 5 del Piano Nazionale di Riforme e Resilienza. L’obiettivo principale è soprattutto non perdere le risorse. Perché se un solo obiettivo non viene raggiunto, si bloccano gli stanziamenti semestrali. Si bloccano e si perdono per sempre. Non è un caso che in queste ore anche il presidente del Consiglio, Mario Draghi, insiste nel sostenere che l’aspetto più importante di questo semestre è rispettare le scadenze del Pnrr e che qualunque cosa accada nella scelta del Quirinale ci dovrà essere un governo in grado di garantire continuità nell’attuazione del Piano. Niente elezioni, dunque. Anche perché al di là di una eventuale rinuncia alla seconda tranche, l’effetto sarebbe devastante sul giudizio che i mercati finanziari daranno di noi.
L’Italia ha superato a dicembre il primo esame e riceverà entro un paio di mesi la prima quota di fondi. Ma il nostro Paese è appunto atteso dall'”esame” della prossima estate e del prossimo inverno che valgono rispettivamente 19 e 21 miliardi di euro. Allora la parola “redeployment” è iniziata a circolare nelle stanze “tecniche” della Commissione e del Parlamento proprio in riferimento all’ipotesi di cambiare in corsa il Pnrr per redistribuire i fondi: rimpolpare gli “obiettivi” con maggiori garanzie di realizzazione e asciugare quelli più a rischio. Una procedura dal punto di vista normativo assolutamente legittima. L’articolo 21 del Regolamento 2021/241 infatti stabilisce: “Se il piano per la ripresa e la resilienza, compresi i pertinenti traguardi e obiettivi, non può più essere realizzato, in tutto o in parte, dallo Stato membro interessato a causa di circostanze oggettive, lo Stato membro interessato può presentare alla Commissione una richiesta motivata affinché presenti una proposta intesa a modificare o sostituire le decisioni di esecuzione del Consiglio”. In quel caso la Commissione ha due mesi di tempo per valutare le modifiche e quindi proporre al Consiglio il parere.

È evidente che il riferimento alle “circostanze oggettive” significa che la richiesta si deve basare su difficoltà che prescindono dalla capacità di raggiungere le “milestones”. Il caso più citato dalla “tecnostruttura” di Bruxelles sono le calamità naturali. Nello stesso tempo, però, quella formula apre uno spazio di “discrezionalità politica”. In due Paesi, ad esempio, si è introdotto questo argomento nel dibattitto pubblico: in Romania e nella Repubblica Ceca. Il tutto motivato – guarda caso – dal cambio di governo. Un nuovo esecutivo, però, che effettuasse come primo atto il cambio in corsa del Pnrr si presenterebbe con un buon biglietto da visita davanti agli alleati? Come si è visto in questi mesi, i Trattati e i Regolamenti sono stati spesso tarati sull’autorevolezza dei singoli Paesi e dei singoli capi di Stato e di Governo. La scelta, cioè, di attivare questo articolo 21 sarebbe praticabile se accompagnata dalla garanzia della credibilità di chi la esercita.

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Caso Epstein, Andrea solo nella sua villa: i Windsor lo ripudiano

sabato, Gennaio 15th, 2022

dal nostro corrispondente Antonello Guerrera

LONDRA – Ogni giorno, dalle finestre della sua gabbia dorata, il principe Andrea guarda il mondo esterno, anzi il giardino privato della tenuta di Windsor, rinchiuso nella mansione georgiana Royal Lodge di 30 stanze, di cui sette da letto, a dieci minuti dal Castello di Windsor dove soggiorna la madre, la regina Elisabetta. Che l’altroieri l’ha ripudiato per lo scandalo sessuale legato a Jeffrey Epstein e Ghislaine Maxwell. Da giovane, il terzo figlio prediletto della sovrana era un mezzo eroe nazionale, che quella stessa madre costrinse a rimanere sotto il fuoco della guerra delle Falklands. Ora, invece, il duca di York si flagella per essere diventato una vergogna nazionale, anche agli occhi della famiglia. Che, con l’erede Carlo e il distaccato nipote William in prima linea, l’altro giorno lo ha defenestrato per non macchiare il Giubileo di Platino della sovrana (70 anni sul trono) dopo l’ok al processo per le accuse di violenza sessuale nel 2001 contro Virginia Roberts Giuffre, allora 17enne.

Una mattina di qualche settimana fa, come ha scritto il Daily Mail, un ospite di Sarah Ferguson, da cui Andrea ha divorziato nel 1996 ma che bizzarramente ancora convive con lui, è entrato nel Royal Lodge e ha visto il principe di spalle nel suo studio al primo piano. Guardava la tv, sul divano. Dopo oltre un’ora, l’ospite è ripassato per andare via: Andrea era sempre lì, con la televisione accesa.
Oggi, la vita e la testa del 61enne duca di York sono un profondo bunker.

Per molti mesi, Andrea, ex “Playboy Prince”, ha cercato di fuggire dalle accuse di Giuffre: addirittura, prima che il caso esplodesse, si rifugiava in altre case della madre per schivare ingiunzioni o pericolose comunicazioni giudiziarie. Oggi invece, se non è davanti alla tv, Andrea rimane spesso fino a notte fonda a studiare ogni documento processuale, ogni feritoia legale di questo soffocante labirinto. Tanto che ha vietato al suo team di avvocati da 2mila dollari l’ora di prendersi una pausa a Natale. “Alla fine ha dovuto affrontare anche lui la realtà, nonostante la sua arroganza”, ci dice Nigel Cawthorne, autore della biografia “Prince Andrew”, “ma solo perché non aveva altra scelta”. Andrea con i suoi collaboratori, “perché di amici non se ne vedono più al Royal Lodge”, ripete che è convinto di vincere la causa civile scatenata da Roberts: “Non è uno sprint, è una maratona”.

L’unico vero svago di Andrea è rimasto andare a cavallo, attività preferita anche di sua madre, che va ancora a visitare quasi ogni giorno. Anche perché la regina non può farne a meno. Pare che Elisabetta gli stia pagando buona parte delle spese processuali. Ma la sovrana non contribuirà affatto alle spese di risarcimento del figlio alla 38enne accusatrice, che potrebbero arrivare anche a 10 milioni di euro. E nel progetto della “monarchia ristretta” di Carlo, potrebbe essergli tagliata pure la sicurezza.

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Edoardo Artaldi, il manager italiano che Djokovic accusa per l’errore nel modulo di ingresso in Australia

sabato, Gennaio 15th, 2022

di Stefano Montefiori

Edoardo Artaldi conosce Novak Djokovic dal 2009 ed è con lui da quando è sbarcato in Australia. «Viviamo assieme 24 ore su 24». Il n.1 di tennis sembra attribuire a lui l’errore nella compilazione del modulo con gli spostamenti in cui mancava il viaggio in Spagna

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Novak Djokovic con il fisioterapista Badio e Edoardo Artaldi,manager del tennista (Instagram)

DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
PARIGI — Tra le persone che hanno condiviso i momenti complicati di Novak Djokovic in Australia c’è l’agente italiano Edoardo «Dodo» Artaldi con la sua partner Elena Cappellaro, gli unici a essere rimasti nell’équipe del campione serbo anche dopo la rivoluzione da lui decisa nel 2017.

Artaldi ha conosciuto Djokovic nel 2009, quando lui lavorava per la Sergio Tacchini e il tennista era quarto nella classifica Atp. Artaldi concluse un contratto di sponsorizzazione con Djokovic, «sapevamo che aveva le potenzialità per diventare numero uno», cosa che accadde appena due anni dopo.

Quando poi Djokovic ha lasciato il brand Sergio Tacchini per un altro sponsor, Artaldi lo ha seguito
diventando il suo manager e uomo di fiducia: una relazione professionale che ormai è anche personale. «Praticamente viviamo assieme 24 ore su 24 e sette giorni su sette – ha detto tempo fa Artaldi al canale italiano della radio australiana Sbs —. Cerchiamo di essere il più professionali possibile ma il rapporto ormai è piuttosto personale. Elena e io cerchiamo di creare l’atmosfera di cui ha bisogno, visto il tanto tempo che passa in giro per il mondo e lontano dalla famiglia».

L’amicizia tra Djokovic e Artaldi ha avuto un ruolo anche nella donazione che il campione ha fatto nel 2020
, quando le immagini dei morti per l’epidemia a Bergamo facevano il giro del mondo e Djokovic decise di fare una donazione agli ospedali bergamaschi. Il cugino di Artaldi è Massimo Borelli, primario del reparto di anestesia e rianimazione dell’Ospedale di Treviglio. «Novak l’ha fatto col cuore, come gesto di solidarietà nei confronti dell’Italia intera – disse allora Artaldi —. Non avrebbe voluto rendere pubblica la donazione ma dall’ospedale ci hanno chiesto di poterne dare notizia, per ringraziare lui e per spingere altri a fare lo stesso». DJOKOVIC AGLI AUSTRALIAN OPEN E IL VISTO RITIRATO: LE ULTIME NOTIZIE

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La mossa che rivela l’impotenza dei partiti

sabato, Gennaio 15th, 2022

di Massimo Franco

Bisogna ammettere che Silvio Berlusconi ha almeno un merito: avere svelato l’indecisione, se non l’impotenza dei partiti. Si è potuto infilare nell’immobilismo degli altri, imponendosi come possibile candidato. La benedizione ricevuta ieri dal centrodestra, con la richiesta di «sciogliere la riserva fin qui mantenuta», è un passaggio atteso, benché irrituale. Parlare di «riserva» rispetto a una candidatura si può fare quando si parla di un premier. E lascia interdetti l’immagine di un Berlusconi riluttante, mentre da giorni suoi emissari e lui stesso cercano di conquistare parlamentari nelle file avversarie.
Ma questo serve a mettere a fuoco una seconda sfida. Il fondatore del centrodestra è l’incarnazione di quanto può avvenire in una fase di incertezza. La sua operazione scardina l’idea di un capo dello Stato deciso da una maggioranza che va oltre gli schieramenti: almeno come aspirazione. E la sostituisce con un’opzione dichiaratamente di parte; in questo caso, espressione di un centrodestra convinto di avere «il diritto e il dovere» di proporre una propria candidatura in quanto coalizione di maggioranza relativa.

Sembrano secondarie le contraddizioni emerse anche nelle ultime ore tra i suoi alleati, Lega e Fratelli d’Italia; o i suggerimenti ecumenici del suo consigliere Gianni Letta. La sensazione è che l’indicazione di Berlusconi sia un radicale cambio di metodo. C’è un capo politico che chiede il Quirinale, e lo chiede in quanto tale. Incolpare di questa situazione il leader di Forza Italia, tuttavia, sa di alibi. Il Cavaliere è il sintomo dello stallo, non la sua causa: sebbene per ora contribuisca a impedire che venga superato.

A guardare bene, il modo in cui Matteo Salvini e Giorgia Meloni assecondano le sue ambizioni è figlio della stessa impotenza. Evoca una finzione di unità e di strategia comune del centrodestra, entrambe destinate a mostrare la corda molto presto. Ma il gioco degli specchi non risparmia nemmeno le altre forze politiche, inclini a utilizzare la «campagna acquisti» da parte di Berlusconi come giustificazione della propria indecisione. Stanno assistendo a una manovra che giudicano destinata al fallimento; ma che nello stesso tempo va avanti, li condiziona e mette in mora i loro progetti.

Eppure, in questi tatticismi contrapposti alcuni punti fermi si stanno delineando. Il primo è che tutti debbono fare i conti con i propri limiti, numerici e politici. Il secondo è che chi insiste sulla ricandidatura di Mattarella pesta l’acqua nel mortaio per altri scopi. Il capo dello Stato uscente non ritiene che esistano le condizioni per un bis. Di più: se anche esistessero, non sarebbe disponibile, per questioni istituzionali e di opportunità.

Il terzo aspetto che si va chiarendo è la volontà del Parlamento di arrivare alla fine della legislatura, chiunque approdi al Quirinale. Non a caso, uno dei pretesti utilizzati per bloccare preventivamente una candidatura di Mario Draghi è che si precipiterebbe verso le urne: tesi tutta da dimostrare ma funzionale a chi ha altri candidati o candidate da suggerire. L’ultimo punto fermo tradisce la volontà dei partiti di maggioranza, ma non solo, di non accettare l’ipotesi di un «commissariamento» a tempo indeterminato: benché sia stato una necessità, non un’imposizione.

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La quarta dose di vaccino può essere utile? Come e quando va somministrata?

sabato, Gennaio 15th, 2022

di Adriana Bazzi

Paesi come Israele e Cile hanno cominciato a iniettarla. Ma ci sono ancora dubbi sull’opportunità (e fattibilità), come spiega l’immunologo Clerici

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Quarta dose di vaccino anti-Sars-Cov2: sì o no? Perché sì e perché no? E perché i preparati, fabbricati per combattere questo virus, si comportano diversamente, rispetto alle decine dei loro cugini-vaccini, che da decenni combattono, con successo, gravi malattie infettive, e perdono rapidamente la loro efficacia?

Giriamo queste domande a Mario Clerici, immunologo, professore all’Università di Milano e alla Fondazione Don Gnocchi.

Professore, alcuni Paesi, come Israele e Cile, stanno proponendo la quarta dose, soprattutto ai pazienti fragili. È utile?
«La quarta dose non ha molto senso, al momento. Le tre dosi sono sufficienti per contrastare la malattia grave. E anche nei casi di infezione da variante Omicron nei tri-vaccinati, la carica virale (cioè la presenza del virus nella persona infetta, ndr) è molto ridotta, come pure la capacità di trasmettere la malattia ( qui il caso dell’Ungheria che disubbidisce all’Ema) ».

A parte l’utilità in termini di prevenzione, ci sarebbero anche problemi organizzativi nel distribuire la quarta dose?
«Certo, come ha fatto notare sia l’Oms, l’Organizzazione Mondiale della Sanità, sia l’Ema, l’Agenzia Europea del farmaco: non si può pensare di vaccinare la popolazione ogni quattro o cinque mesi».

C’è anche un problema clinico. La ripetuta somministrazione di richiami vaccinali potrebbe indebolire le difese immunitarie? Alcuni esperti la chiamano «exhaustion», lo sfinimento del sistema immunitario, che diventa, alla fine, incapace di rispondere al virus.
«È un fenomeno che si è osservato fin dagli anni Settanta negli animali da esperimento. Se si espone un organismo ad alte dosi di un antigene virale (presente in un vaccino, ndr) in successione, si crea uno stato di «tolleranza». In altre parole: certe cellule immunitarie (chiamate beta) non producono più anticorpi: quelli che si misurano nel sangue e che sono una prima barriera al virus. Rimane, però, efficace la cosiddetta risposta cellulare (più sofisticata: quella dei linfociti T, un’altra categoria di cellule del sistema di difesa che, comunque, protegge dall’infezione, ndr)».

Di fronte alle trasformazioni del virus ha più senso inseguirlo con nuovi vaccini che si adattano alle varianti, o pensare a un preparato universale, come auspica l’esperto americano, consulente del governo Usa, Anthony Fauci?
«Inseguire il virus nelle sue trasformazioni appare una strada piuttosto difficile, anche se i preparati a Rna sono molto versatili e possono adattarsi ai suoi cambiamenti. Teoricamente sarebbe più interessante un vaccino universale, ma occorre capire che cosa metterci dentro per stimolare una risposta efficace dell’organismo contro il virus e i suoi mutanti. Cioè capire contro che cosa indirizzare le difese dell’organismo. È interessante osservare che chi è guarito da un’infezione da Coronavirus ha una protezione più ampia nei confronti di una reinfezione, perché ha «riconosciuto» il virus nella sua totalità e non solo in certe sue parti, come quelle presenti nel vaccino».

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Berlusconi lancia la sfida del Colle

sabato, Gennaio 15th, 2022

ALESSANDRO DI MATTEO e FRANCESCO OLIVO

ROMA. Lo candidano ma vogliono vederci chiaro: «Dove sono questi voti?». È un clima sospeso quello che si respira nel centrodestra. La coalizione chiede formalmente a Silvio Berlusconi di candidarsi al Quirinale, ma basta ascoltare le parole dei leader e dirigenti del centrodestra per capire quanto nessuno si fidi ormai di nessuno. Il vertice dei leader a villa Grande si conclude con un comunicato congiunto in cui si chiede appunto al Cavaliere di «sciogliere la riserva». Ma i dubbi sulle reali possibilità del Cavaliere sono sempre più forti e un po’ tutti gli alleati vorrebbero evitare di arrivare alla quarta votazione per tirare le somme. Il timore è che il centrodestra perda la possibilità di decidere, per la prima volta, il presidente della Repubblica. Come dice uno dei leader della coalizione: «Il problema è che se ci facciamo menare per il naso fino alla quarta votazione poi non c’è un “piano B” del centrodestra, ma il piano A della sinistra…».

Il fatto è che la quarta votazione è quella sulla quale Berlusconi punta tutte le sue carte, almeno a sentire chi gli è vicino. Il leader di Fi sa bene quanto i suoi alleati credano poco alla sua elezione e ieri, raccontano, li ha sostanzialmente sfidati aprendo l’incontro: «Se mi sostenete prendo in considerazione la candidatura, sennò no…». E a Matteo Salvini e Giorgia Meloni che più volte in questi giorni hanno posto il tema dei numeri, il Cavaliere avrebbe detto: «Come posso andare avanti se ogni giorno sui giornali c’è scritto che “gli alleati mollano”! Così non attiriamo nessuno dei voti che ci servono, se non ci crediamo neanche noi».

Ma, appunto, il clima non era buono, come ammettono diverse fonti. Salvini a tavola cita i precedenti, da Scalfaro a Mattarella, per sottolineare quanto sia difficile la corsa. Meloni è preoccupata che la trattativa sul Quirinale si leghi anche ad una partita più complessiva su governo e legge elettorale proporzionale che finirebbe per disarticolare il centrodestra. Tanto che su questo c’è stata tensione con Luigi Brugnaro (Coraggio Italia) che non ha accettato di inserire un impegno per il maggioritario nella dichiarazione finale, costringendo gli altri a fare un secondo comunicato senza la sua firma. Sia Lega che Fi, poi, «hanno paura che Berlusconi all’ultimo momento si sfili e cerchi di fare lui il kingmaker», dice un esponente di Fi. Per questo nel comunicato finale si ribadisce intanto la volontà di mantenere «un percorso comune e coerente, che va dalla scelta del nuovo Capo dello Stato alle prossime elezioni politiche». Un coordinamento permanente che serve a monitorare gli eventuali nuovi acquisti.

Un attento osservatore, benché interessato, come Matteo Renzi, nota che «la candidatura del Cavaliere ha fatto un passo indietro», tanto da arrivare alla previsione che entro la prossima settimana «il centrodestra esprimerà un altro nome». In ogni caso, a Berlusconi gli alleati concedono un riconoscimento importante, offrendogli la candidatura per il Quirinale. Questo, dice uno dei principali esponenti di Fi «è un capolavoro di Berlusconi». Ma Salvini, Meloni e gli altri non si fidano dei numeri e pensano che le somme vadano tirate presto. Parlando a Isoradio Salvini ha chiarito: «Ovviamente nei prossimi giorni si vedrà se c’è o non c’è una maggioranza».

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I leader si parlano, ma non si fidano l’uno dell’altro. Il centrosinistra spera nel grande bluff

sabato, Gennaio 15th, 2022

Annalisa Cuzzocrea

«Non si è mai vista una candidatura alla presidenza della Repubblica fatta prima di essere certi di avere i numeri», dice Giuseppe Conte con davanti il dispaccio di agenzia con la nota del centrodestra – unito – a sostegno di Silvio Berlusconi. Il presidente del Movimento 5 stelle non nasconde la meraviglia. «Ma non escludo che stiano giocando una partita tattica – spiega collegato con i suoi collaboratori – perché i numeri non ci sono e questo potrebbe essere solo il modo per poi rendere digeribile un altro nome di centrodestra». Pensano a Franco Frattini, appena diventato presidente del Consiglio di Stato, ex ministro degli Esteri di Berlusconi, ma autore della legge sul conflitto di interessi.

È il sospetto a muovere tutti gli attori in gioco. I leader si parlano, ma non si fidano l’uno dell’altro. I 5 stelle – ad esempio – temono che il segretario Pd, che ufficialmente cerca con loro altri nomi, stia in fondo lavorando per il presidente del Consiglio Mario Draghi. I dem hanno paura che il Movimento non sia in grado di tenere una posizione univoca, una volta decisa la strategia, balcanizzato com’è e diviso tra contiani e dimaiani. Quanto al segretario leghista, Letta e Conte ci parlano, ma nessuno dei due ha capito dove voglia davvero andare a parare.

Quel che è certo, rimarca il presidente M5S, «è che se vanno fino in fondo su Berlusconi, sia Salvini che Meloni si assumono una grandissima responsabilità davanti al Paese. Perché c’è il rischio di spaccarlo e di far precipitare tutto».

Al Nazareno sono altrettanto preoccupati, benché regni – di fondo – una sorta di incredulità. «Ho l’impressione che stiamo vedendo il teaser e che il film non sia ancora cominciato», dice Enrico Letta. Che darà la sua risposta ufficiale alla candidatura di Berlusconi stamattina alle 10 alla direzione Pd, allargata in questo caso ai gruppi parlamentari. Sarà in streaming per tutto il tempo, interventi successivi compresi. Una prova di trasparenza necessaria alla compattezza che dovrà seguire.

Confesserà la sua delusione, il segretario dem, perché la mossa del centrodestra «impedisce di fare un passo avanti su un nome condiviso». E quindi, per quanto si possa non crederci fino in fondo, ha l’effetto di fermare il gioco. Oltre che di compattare il campo avversario rendendo più difficili le operazioni tentate finora. Sarebbe insomma un’occasione di dialogo sprecata. Che prelude, comunque vada, a una prova di forza. Ben lontana dallo spirito di collaborazione repubblicano evocato nelle ultime ore.

La decisione di tutti è comunque quella di non rispondere alzando i toni: Pd e 5 stelle cercano di tenere i nervi saldi. Con i secondi attenti a far passare un messaggio, anche in chiave interna: come sta dicendo ovunque il responsabile economico Stefano Buffagni, Silvio Berlusconi che sale al Quirinale equivarrebbe a elezioni anticipate subito. In un battito di ciglia.

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E Gianni Letta va a Palazzo Chigi. L’ira del Cavaliere: “Non sapevo nulla”

sabato, Gennaio 15th, 2022

Ilario Lombardo

ROMA. Qualcosa comincia a muoversi davvero anche a Palazzo Chigi. Quando le agenzie battono la notizia che Gianni Letta è stato ricevuto da Antonio Funiciello, capo di gabinetto del premier Mario Draghi, il vertice di centrodestra è finito da più di un’ora. Nel giardino, a favore dei fotografi, i leader hanno improvvisato pose e gesti di intesa con Silvio Berlusconi, prima di salutarlo. Pochi minuti dopo, non sono ancora le sei, Villa Grande è semivuota. Il leader di Forza Italia è attorniato dallo staff. La notizia lascia tutti stupiti. «Che vuol dire che è andato a Palazzo Chigi questa mattina? Prima del vertice?», chiede Berlusconi. La ricostruzione è confermata da fonti a lui vicine: il fondatore di Mediaset, assicurano, non ne sapeva nulla. Né tantomeno, aggiungono, è stato inviato a far visita a Draghi come emissario del presidente di Forza Italia, come qualcuno potrebbe immaginare. Ma soprattutto: avrebbe taciuto dell’incontro per tutta la durata del summit con i leader di Lega e Fratelli d’Italia, Matteo Salvini e Giorgia Meloni. È una precisazione importante, che dà l’idea di come la partita del Quirinale stia slabbrando ogni certezza e di quanto i sospetti, anche tra amici o alleati, siano diventati la matrice comune delle diverse interpretazioni dei fatti.

Il colloquio tra Funiciello e Letta, durato un’ora, avviene su richiesta di quest’ultimo. Le bocche, però, alla domanda su cosa si siano detti, restano cucite. Verrebbe naturale pensare che Letta abbia incontrato pure Draghi, ma lo staff del premier si affretta a smentire. Dalle stanze attigue a quella dell’ex banchiere filtra che si è «verosimilmente parlato anche di Quirinale». E non potrebbe essere altrimenti. Come è stato in precedenza per la Rai, Funiciello è delegato a trattare con i partiti, per sondarne la volontà, i desideri e le intenzioni. Per Draghi è fondamentale capire cosa farà Berlusconi. «Tutto dipende da lui», è la riflessione che fanno a Palazzo Chigi. E Letta, in questo senso, rappresenta il suo migliore alleato. I due hanno un canale aperto da sempre, si sentono spesso, e hanno incrementato i contatti nelle ultime settimane, proprio per capire fino a dove voglia spingersi Berlusconi. Quella che inizialmente sembrava una fantasticheria, e poi un capriccio, si è trasformata in una vera e propria campagna elettorale. E per quanto irrituale come autocandidatura, è una manifestazione di orgoglio che ha avuto l’effetto di far impantanare i piani di Draghi e di rendere molto più complicato il suo trasloco al Colle.

Berlusconi si è impuntato. Letta lo ha intuito prima di tanti altri e lo ha già spiegato al premier in altre occasioni. «Bisogna capire se fa sul serio, se vuole rimanere candidato fino alla fine». Fino cioè alle prime quattro votazioni. L’ex sottosegretario, che ha aiutato il tycoon di Arcore a districarsi nella palude romana negli anni del potere e della gloria a Palazzo Chigi, è tra i più scettici che possa riuscirci. A sentire l’entourage di Berlusconi, durante il vertice Letta non avrebbe detto nulla dell’incontro avvenuto in mattinata. Ma ha spinto a prendere tempo, con una frase che è, insieme, un invito al realismo e un tentativo di congelare la candidatura: «È giusto verificare i numeri, prima di andare avanti».

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