Archive for Gennaio, 2022

Quirinale, Draghi resiste al pressing di chi lo invita a «trattare»

lunedì, Gennaio 24th, 2022

di Monica Guerzoni

Oggi, giorno della prima votazione per l’elezione del presidente della Repubblica, Mario Draghi rientra a Palazzo Chigi. Serpeggiano timori per le fibrillazioni politiche. La delusione per i toni di alcuni esponenti della maggioranza

desc img
ANSA

ROMA — Mario Draghi arriva al gran ballo del Quirinale come l’ospite più atteso e, per molti, il più indesiderato. Il metaforico cartoncino d’invito lo ha in tasca da un anno, da quando Mattarella gli chiese di assumersi l’onere e l’onore di guidare un governo di responsabilità nazionale. Da allora l’ex banchiere centrale è in cima a ogni carnet, eppure, da quando i leader dei partiti hanno aperto le danze al buio, il gradimento del presidente del Consiglio sale e scende a tempo di valzer. «Draghi è tranquillo», assicurano i collaboratori e non si attardano a raccontare con quanta ansia il premier assista allo scontro tra alleati e al gioco, durissimo, delle trappole e dei veti incrociati. Non tanto e non solo perché in mezzo c’è il suo nome, quanto perché a rischiare è l’Italia.

Di rientro dal fine settimana in Umbria oggi Draghi sarà a Palazzo Chigi, dove si avverte forte il timore che le forze politiche, mai così frastornate, stiano perdendo quella «saggezza collettiva» che nel febbraio del 2021 consentì la nascita del governo. Il Paese è ancora in emergenza, la pandemia non è finita e la ripresa economica è solo all’inizio. In cima ai pensieri del presidente ci sono i contagi, i morti di Covid, i vaccini, i fondi del Pnrr. E c’è la preoccupazione, confidata a chi ieri lo ha chiamato, che la partita del Quirinale giocata da alleati—avversari metta a rischio il lavoro fatto dal governo. «Ovunque sarò, non consentirò che si distrugga tutto quello che abbiamo costruito», è la promessa che Draghi ha fatto ad alcuni ministri. La sequenza imbarazzante di promozioni e bocciature lo ha colpito, lo ha deluso il fuoco di sbarramento della sua maggioranza e lo ha sorpreso l’agitarsi confuso dei partiti. Né si aspettava la veemenza di alcune dichiarazioni del centrodestra per sbarrargli la strada verso il Quirinale. È vero che è molto irritato con Forza Italia e che ha sentito Berlusconi? Non è così, assicurano i suoi, Draghi sa che l’ex premier non sta bene e non lo ha cercato, «ma non ha alcun problema a parlarci». Ed è vero che il premier potrebbe lasciare se al Colle dovesse essere eletto Pier Ferdinando Casini? Dicono che non sia vero neanche questo, Draghi non si permetterà di questionare sullo standing dell’eletto. Resterà alla guida del governo e andrà avanti «con la determinazione di sempre». Purché la scelta del capo dello Stato «sia condivisa dall’intera maggioranza».

(Il Corriere ha una newsletter dedicata all’elezione del nuovo presidente della Repubblica. Si chiama Diario Politico, è gratis, e per iscriversi basta andare qui)

La vigilia dei veti e dei sospetti è stata anche il giorno della rivalsa della politica, che ha paura di finire commissariata. «La candidatura di Draghi sta in piedi solo a condizione che non sia contro i partiti», ha ammonito Matteo Renzi, che pure riconosce come l’Italia «non può permettersi di perderlo». La diffidenza verso Draghi serpeggia forte anche in Parlamento. Tanti grandi elettori, desiderosi di maturare la pensione il 15 settembre prossimo, dicono ai cronisti che «se il premier non fa capire di avere pronto un altro governo, qui non lo vota nessuno».

Rating 3.00 out of 5

Colle, ora la matassa è più ingarbugliata

domenica, Gennaio 23rd, 2022

di Stefano Folli

L’illusione di Berlusconi è finita come doveva finire: con l’addio a un progetto tanto ambizioso quanto irrealistico; anzi, surreale. Non si poteva immaginare un uomo meno adatto dell’ex presidente del Consiglio a occupare il vertice istituzionale del Paese. Da settimane quasi tutti ne erano convinti, tranne lui. Ma negli ultimi giorni l’epilogo della vicenda era nell’aria. Ora, ritirandosi nel segno della “responsabilità nazionale”, Berlusconi ha tenuto insieme i vari spezzoni del centrodestra: se avesse preteso di essere votato al quarto scrutinio, l’unità dello schieramento, che vale circa 450 voti, sarebbe andata in pezzi.

Questo non vuol dire che Salvini, Giorgia Meloni e il cerchio ristretto berlusconiano siano davvero compatti sulle prospettive, a cominciare da come porsi di fronte a una legislatura che sembra molto vicina alla sua conclusione. Tuttavia ieri sera la coesione si è affermata sull’altro punto, il più significativo in termini politici: il “no” all’ipotesi di eleggere Draghi al Quirinale. Questa è la vera novità della giornata, persino più del ritiro dell’uomo di Arcore. Molti si aspettavano infatti che la rinuncia berlusconiana andasse di pari passo con l’investitura del presidente del Consiglio: una mossa attesa con particolare ansia dal centrosinistra, o almeno da una parte di esso, perché avrebbe confermato un senso di inevitabilità intorno all’ex presidente della Bce, sollevando tutti dal peso di una decisione difficile.

Viceversa, come abbiamo visto, le cose sono andate diversamente. La spiegazione ufficiale è che Draghi deve restare a Palazzo Chigi a completare il lavoro. E l’argomento, non c’è dubbio, è solido, ma forse la verità non è tutta qui. Esistono fattori caratteriali e psicologici non meno decisivi. L’uomo che per un quarto di secolo ha condizionato il dibattito pubblico non ha voluto sgombrare la strada davanti a un’altra forte personalità destinata a prendere il suo posto al centro di quel che resta della scena politica. Forse, se i due si fossero parlati, avrebbero risolto l’equivoco.

Ma è evidente che Draghi non ha mai avuto intenzione di esporsi chiedendo il voto di Berlusconi. Per cui ora la matassa si è aggrovigliata ed è arduo immaginare che possa essere sbrogliata nei prossimi giorni. Il nome del premier finisce quindi sullo sfondo, in attesa che il centrodestra avanzi subito, come è stato promesso, una candidatura in grado di unire e non dividere. Vedremo. La soluzione Draghi potrebbe ripresentarsi alla fine di uno scontro senza vincitori e vinti, ossia dopo numerosi scrutini falliti: in quel caso saremmo di fronte alle macerie del sistema politico, con l’esigenza di affidarsi a un salvatore. È uno scenario che nessuno si augura.

Rating 3.00 out of 5

Lost in translation (e un po’ di mercato)

domenica, Gennaio 23rd, 2022

di Concita De Gregorio

Seconda e ultima parte del glossario utile a decifrare lo spettacolo che sta per cominciare, aggiornato agli sviluppi. Breve memento del postulato iniziale: otterrà più voti chi avrà meno veti. Vince, cioè, chi dispiace di meno: chi si mostra più utile ad ottenere il risultato che ciascun gruppo di votanti pretende per sé. (Esempi: una legge elettorale proporzionale, un posto al Viminale, andare al voto subito, non andare al voto affatto, una nomina a senatore a vita, un paracadute per quando in Parlamento i posti saranno la metà, altro).

LO SPECIALE Il tredicesimo Colle

Lost in translation. “Una volta rimossi i veti” significa: in quinta votazione. La quarta (prima a maggioranza semplice) servirà a sistemare gli ultimi do ut des dopo aver pesato il valore dei voti che mancano. È il piccolo mercato dell’ultim’ora in cui colossale diventa “l’utilità marginale”: saranno anche due, i voti che ti servono, ma senza non vai da nessuna parte. “Un passo indietro” vuol dire decidete voi. “Un passo di lato” è: decido io, gli altri nomi ve li impallino tutti. “Blitz a Gemonio” sta per vai a controllare che il fondatore non abbia da ridire, chiedigli di Giorgetti. “Patto di legislatura”, detto da Enrico Letta: il governo deve restare questo o fotocopia di questo. Detto da Matteo Renzi: sì, ma solo se fa la riforma proporzionale.

Rating 3.00 out of 5

Le cure domiciliari del professor Remuzzi allo studio dell’Aifa: “Preveniamo l’iper-infiammazione che causa la morte”

domenica, Gennaio 23rd, 2022

Favorevole o contrario al bollettino quotidiano del Covid? A rispondere è Giuseppe Remuzzi, direttore dell’istituto Mario Negri, ospite della puntata del 22 gennaio di In Onda, talk show di La7 che vede la coppia formata da Concita De Gregorio e David Parenzo alla conduzione: “Non c’è una grande differenza tra il sapere i numeri giorno per giorno od ogni settimana. L’importante è la tendenza e i grandi studi internazionali che ci fanno vedere che i casi di infezioni cominceranno a scendere da noi tra la fine di gennaio e primi di febbraio. Pubblicare tutti i giorni i dati aiuta a capire che la malattia sta passando”. La De Gregorio introduce poi il tema delle cure domiciliari, citando il lavoro che sta facendo l’istituto di Remuzzi, che ha ricevuto la disponibilità dell’Aifa ad uno studio approfondito sul protocollo per le cure domiciliari studiato dal suo staff: “Sulle cure domiciliari c’è stata tanta emotività e anche un po’ di confusione. Il virus è già presente in noi prima che arrivino i sintomi. In chi si ammala in forma grave c’è un’eccessiva risposta del nostro sistema immunitario a cui segue un’eccessiva infiammazione. Ci può quindi essere l’esito drammatico o la guarigione, come accade nella maggior parte dei casi. Noi – sottolinea il professore – ci siamo chiesti come potevamo agire nei primi giorni in cui normalmente le persone non fanno nulla. Abbiamo pensato di fare cose molto semplici per prevenire questa iper-infiammazione, da cui dipendono la severità della malattia e della morte. Abbiamo trattato i pazienti subito dall’inizio dei primi sintomi con anti-infiammatori, cosa che si fa con tutte le malattie delle vie alte respiratorie di natura virale. Questo ha dato risultati importanti e poi abbiamo fatto uno studio dando anti-infiammatori al primo sintomo, che ha dato il risultato di una riduzione del 90% della necessità di ospedalizzazione, ma non era uno studio perfetto, fatto nella seconda e nella terza ondata”. Ma quali sono gli anti-infiammatori impiegati nelle cure domiciliari secondo il protocollo di Remuzzi? Il professore risponde al quesito di Parenzo: “La tachipirina non è un anti-infiammatorio, può essere usata per ridurre la febbre se uno ce l’ha. Gli anti-infiammatori sono l’aspirina, l’indometacina, l’ibuprofen, l’aulin, che è il nimesulide. Noi abbiamo visto che non è una questione di un anti-infiammatorio piuttosto che un altro, il nostro protocollo prevedeva di cominciare prima con nimesulide e poi di proseguire con aspirina e poi ibuprofen se uno era intollerante ai primi due. Ma l’importante era iniziare subito la terapia con un anti-infiammatorio. Abbiamo fatto poi un secondo studio per prevenire l’ospedalizzazione. Su 108 pazienti si è ridotta del 90% la necessità di ricorrere all’ospedale. Anche questo studio non è perfetto.

Rating 3.00 out of 5

Più Casini per Draghi. Con il ritiro di Berlusconi per il Quirinale è ballottaggio a due

domenica, Gennaio 23rd, 2022

Franco Bechis

La candidatura di Silvio Berlusconi non c’è più. Il Cavaliere ieri è apparso qualche secondo nella riunione in Zoom con ministri e sottosegretarimdi Forza Italia, coordinata da Antonio Tajani e Licia Ronzulli, poi si è eclissato con la scusa di una telefonata importante appena ricevuta, e ha ascoltato a distanza il dibattito fra i suoi senza che loro se ne accorgessero. Alla fine ha fatto leggere il comunicato ufficiale del ritiro dalla corsa al Quirinale, dove pur sostenendo di avere trovato i numeri per la sua elezione, ha scelto il passo indietro per favorire l’unità nazionale sulla scelta del presidente della Repubblica. Nel comunicato Berlusconi però ha escluso l’appoggio alla candidatura di Mario Draghi al Colle: «Sono stato il primo», ha rivendicato, «a volere un governo di Unità Nazionale che raccogliesse le migliori energie del Paese, e che – con il concorso costruttivo anche dell’opposizione – è servito ad avviare un percorso virtuoso che oggi più che mai, alla luce della situazione sanitaria ed economica, deve andare avanti. Per questo considero necessario che il governo Draghi completi la sua opera fino alla fine della legislatura per dare attuazione al PNRR, proseguendo il processo riformatore indispensabile che riguarda il fisco, la giustizia, la burocrazia». È una frase che ha complicato un po’ il vertice successivo del centrodestra avvenuto sempre a distanza con delegazioni ampie guidate da Matteo Salvini e Giorgia Meloni oltre ai leader delle altre forze politiche.

A sollevare il problema di quelle parole finali di Berlusconi che sembrano inchiodare Draghi a palazzo Chigi e assicurare il sostegno della maggioranza fino all’ultimo giorno della legislatura è stato Ignazio La Russa: «Noi siamo fuori dal governo e vogliamo elezioni prima possibile, ovviamente non possiamo dare sostegno a questa linea». Gli alleati hanno replicato che nessuno di loro aveva il potere di modificare le parole di un comunicato di Forza Italia a firma Berlusconi, e il caso si è spento sul nascere salvo poi riaccendersi leggendo alcuni lanci di agenzie con varie ricostruzioni di cui ognuno dei partecipanti accusava l’altro. Nulla di nuovo: i maldipancia nei vertici di coalizione sono da sempre questi, e non si è riusciti ad evitarli manco ieri. Alla fine però tutti d’accordo nell’affidare a Salvini il compito di sentire gli altri leader del centrosinistra cercando alla vigilia della prima votazione ufficiale qualche nome comune (in ogni caso da spendere per le sedute da giovedì in poi quando basteranno 505 voti), da discutere poi in vertici di centrodestra da fare in presenza. Nessuno ammette che siano circolate candidature nei colloqui di ieri, ma c’è chi fa notare che a questo punto avanzarne una interna sarebbe uno sgarbo allo stesso Berlusconi, che anche dopo il ritiro dalla corsa deve restare il candidato di centrodestra con più chances di farcela. Chi allora? Certo anche appoggiare un candidato di chiaro schieramento di centrosinistra è da escludere. Così almeno al momento la corsa sembra essere un ballottaggio su due soli nomi: l’ex presidente della Camera, Pier Ferdinando Casini e lo stesso Draghi che non è affatto uscito dall’orizzonte.

Rating 3.00 out of 5

La sinistra fa solo propaganda, il centrodestra continua ad eleggere donne

domenica, Gennaio 23rd, 2022

Francesco Boezi

L’elezione di Roberta Metsola, esponente del Partito popolare europeo, a presidente del Parlamento europeo contribuisce a squarciare un velo d’ipocrisia che risultava già di per sé compromesso. Il centrodestra, tanto quello italiano quanto quello continentale, continua, su base meritocratica, a proporre donne per i vertici politico-istituzionali, mentre il centrosinistra ha fatto della “questione femminile” un aspetto puramente propagandistico.

La tendenza diviene evidente, per il Belpaese, con il dibattito attorno alla successione del presidente Sergio Mattarella: il centrosinistra ventila da mesi la necessità di proporre una donna per il Colle ma non fa nomi. Il dibattito verte sul genere ma non su una personalità specifica. E questo contribuisce a rivelare la natura strumentale dell’impostazione del “campo largo” guidato da Enrico Letta, Giuseppe Conte, Roberto Speranza e così via.“Donna al Colle? Irritante senza nomi”. Rivolta rosa nei giallorossi

In merito a tutto questo, si è pronunciato anche il direttore del Tg La7 Enrico Mentana quando, attraverso un post apparso sui social, un ragionamento successivo all’elezione della Metsola, ha posto il tema senza troppi fronzoli. Mentana ha ricordato i casi della Metsola, di Ursula Von der Leyen e di Christine Lagarde. Tre donne molto diverse tra loro per provenienza politica e competenze settoriali ma accomunate dall’essere associabili al centrodestra. La Lagarde è una tecnica, certo, ma è anche stata capo di Dicastero in due governi repubblicani in Francia. Le altre due esponenti politiche, ad oggi, ricoprono due diversi ruoli apicali a Strasburgo e Bruxelles, essendo espressione del Ppe.

Poi c’è lo schema partitico italiano che prevede un solo leader femminile di grande rilievo: Giorgia Meloni che guida Fratelli d’Italia sin dalla sua fondazione e che è arrivata, in specie negli ultimi mesi, a poter contendere il primato elettorale nella coalizione di centrodestra (ma pure rispetto al quadro partitico nel suo insieme). Fatti che lo storytelling progressista non può smentire.

Il dibattito propagandistico per il Colle

Sin da quando si è iniziato a ragionare di chi avrebbe potuto prendere il posto del presidente Sergio Mattarella, il centrosinistra tutto, con consueti toni moralistici, ha decantato la necessità di eleggere una donna. Ipotesi che, in questo momento preciso, appare del tutto archiviata. Giuseppe Conte, il “capo grillino”, ha proposto una donna per il Quirinale ma non ha fatto nomi. Massimo D’Alema, attraverso un’intervista al Manifesto, ha detto che i partiti sarebbero dovuti entrare nell’ordine d’idee di avanzare candidature femminili. Ma pure in questo caso non sono emersi nominativi e figure precise. Siamo, insomma, alla pura propaganda fine a se stessa.“Dire ‘una donna al Quirinale’ è offensivo. Serve il merito”

Rating 3.00 out of 5

Finti guariti, test scambiati. I Nas visitano farmacie e hub a caccia di furbetti del Pass

domenica, Gennaio 23rd, 2022

Paola Fucilieri

Milano Tra i furbetti – categoria tipicamente italica mai in recessione – al momento chi poteva eccellere se non quelli del Green pass? Contro i loro pericolosi escamotage sono impegnati infatti in questi giorni i carabinieri per la tutela della Salute, in testa i Nas (Nucleo carabinieri antisofisticazione) del Comando di Milano. Sono stati loro, in accordo con il Comando per la tutela della salute di Roma, a lanciare da sabato scorso in Lombardia una campagna di controlli a campione per la verifica dell’identità collegata all’esibizione della tessera sanitaria da parte di chi si sottopone al tampone e al vaccino. Dopo la Lombardia Piemonte e Lazio per prime hanno raccolto immediatamente l’intuizione dei carabinieri lombardi e sono corse ai ripari con circolari che obbligano all’obbligo di venire identificato per chi si sottopone a tamponi o riceve il Green pass per guarigione. E mentre anche le altre regioni si stanno adeguando, tutte le direzioni sanitarie hanno convenuto che l’orientamento indicato dalla campagna di controlli dei Nas è innanzitutto necessario oltre che vincente.

I controlli sono stati decisi infatti proprio dopo l’aumento di casi di positivi tra le persone che si sono presentate per sottoporsi ai tamponi in farmacia con il codice fiscale di amici e conoscenti No Vax in modo da far risultare anche loro positivi e successivamente guariti.

«Ci sono stati gruppi No Vax che hanno realizzato veri e propri tam tam mediatici e appositi gruppi whatsapp per suggerire il percorso da seguire a chi, pur non vaccinato e non intenzionato a farsi vaccinare, voleva continuare a condurre una vita normale, naturalmente ovviando ostacoli di ogni genere, ma soprattutto denunce e sanzioni – ci spiegano al Comando carabinieri per la tutela della salute di Milano -. Un esempio su tutti: io, positivo, voglio a ogni costo andare in settimana bianca? Mando mio fratello, che è negativo, in farmacia a sottoporsi al tampone e poi parto tranquillo con l’esito del suo controllo, quindi formalmente a posto».

«Ancora più interesse c’è, sempre per chi non si è mai vaccinato, a ottenere il Green pass per una positività che in realtà non c’è stata, cioè per una finta guarigione: è incredibile come ci siano persone disposte un po’ a tutto, e completamente incuranti se non della propria salute almeno di quella altrui, pur di avere il certificato verde senza sottoporsi alla vaccinazione».

Rating 3.00 out of 5

Quirinale e scelta del Presidente: non è solo politica

domenica, Gennaio 23rd, 2022

di   Sabino Cassese

Una volta l’opinione pubblica si appassionava alla contesa tra Coppi e Bartali. Ora alla gara per assumere la più alta carica della Repubblica. Intanto, il Paese è in pausa e nell’opinione pubblica si affaccia l’idea sbagliata che la politica consista in quella che Tocqueville chiamava la «passion des places», cioè nell’attribuzione di cariche, invece che nel guidare il Paese.

Perché questa volta tanta maggiore attenzione per la scelta del prossimo presidente? I motivi sono due. Molte forze politiche pensano che si possa prendere una decisione a pacchetto: eleggere il presidente, decidere chi governerà, stabilire le sorti del Parlamento. Insomma, una decisione che coinvolga tutti i palazzi del potere, Quirinale, Chigi, Montecitorio, Madama.

Più importante il secondo motivo. Quello attuale è un Parlamento di minoranze, e le minoranze sono al loro interno frammentate. È cruciale, quindi, il ruolo di chi dovrà metter domani insieme tutti i frammenti, di chi — come il regista di un film — farà il montaggio. Basti pensare alla esperienza di questi quattro anni di legislatura, nei quali abbiamo sperimentato tre diverse combinazioni politiche.

I presidenti italiani — i registi delle crisi — hanno dovuto sempre correre ai ripari e sedare conflitti: Leone e Pertini hanno dovuto gestire 8 crisi di governo ciascuno; Segni 3, nei soli due anni della sua presidenza; Einaudi, Gronchi, Cossiga 7; Scalfaro, Ciampi e Napolitano 5. Questo vuol dire che nel settennato presidenziale ciascun capo dello Stato ha dovuto dedicarsi ogni anno a questo compito.

Mai, però, la frammentazione è stata tanto alta come oggi. Il continuo dissenso finisce per prestare al presidente un compito aggiuntivo, una ulteriore forza. Per rendersi conto di questo, basta guardare quel che succede in Germania. Lì hanno una Costituzione che ha la stessa età di quella italiana e un regime parlamentare come quello italiano. Hanno un presidente con una dote di poteri paragonabili a quelli del presidente italiano. Ma hanno anche una norma costituzionale secondo la quale il «Bundestag» può esprimere la sfiducia al Cancelliere federale soltanto nel caso in cui, a maggioranza dei suoi membri, elegga un successore e chieda al Presidente federale di revocare il Cancelliere federale. Il Presidente federale è tenuto ad accogliere la richiesta e a nominare l’eletto. In altre parole, la sfiducia costruttiva, che era stata proposta (e scartata) in Italia prima ancora che in Germania.

Rating 3.00 out of 5

Draghi a Città della Pieve: la vigilia «serena» lontano dai palazzi romani

domenica, Gennaio 23rd, 2022

di Monica Guerzoni

ROMA Sulle colline della Val di Chiana gli strepiti delle forze politiche arrivano attutiti e si stempera un poco anche l’ansia della vigilia. Mario Draghi si è chiuso per un fine settimana di pausa nel casale di famiglia a Città della Pieve, rendendo plastica la distanza dai «palazzi» e dalle mosse dei leader di partito dopo il ritiro di Silvio Berlusconi. Il messaggio indiretto di Draghi, nelle ore in cui aumentano gli ostacoli sulla strada verso il Quirinale, è che la sua bussola è la Costituzione. Non tocca a lui stringere quel patto di legislatura che dovrebbe consentirgli il «trasloco» nel Palazzo dei Papi, non spetta al premier scegliersi il successore a Palazzo Chigi: Cartabia, Colao, o Franco?

Quella che appare una lontananza olimpica, è in realtà una disposizione d’animo attenta agli eventi e anche operosa. Al telefono con leader e ministri Draghi si mostra «sereno» e si augura che maturi un «orientamento solido» in grado di scongiurare il caos: il collasso della maggioranza di unità nazionale e dell’esecutivo e il baratro del voto anticipato. Se la conduzione delle votazioni per il capo dello Stato sarà ordinata e senza scossoni il governo potrà continuare il viaggio, chiunque salirà sul Colle più alto.

Ovviamente il favorito ha ben chiari i problemi innescati dal suo nome e avverte lo scarso entusiasmo che la sua disponibilità, mai ufficialmente dichiarata, solleva dentro la maggioranza. Enrico Letta è «sparato» sull’ex presidente della Bce, eppure persino dentro al Pd si avvertono mugugni e paure. «Senza Draghi la maggioranza non può reggere – prevede un dem al governo – Sarebbe più saggio andare al voto che tenere in vita un governo destinato a fallire».

Lontano dal «buen retiro» umbro del premier il nervosismo cresce, aumenta nelle segreterie dei partiti il disagio per la freddezza ostentata da Chigi rispetto alle trattative con i leader. Voci critiche alle quali il premier, nelle conversazioni riservate, risponde smentendo la sua presunta indisponibilità a dialogare con i partiti e ad accettare compromessi. Prova ne sia il «metodo Draghi» con cui ritiene di aver aumentato e non diminuito il peso della politica al governo: cabina di regia con i capi delegazione, incontri con i leader e con i capigruppo. Una «dialettica costante» che il premier intende portare avanti, comunque vada a finire. Purché, e qui il tono dei ragionamenti di Draghi si fa più severo, la maggioranza di unità nazionale non si spacchi con un voto di parte, che farebbe precipitare il Paese alle urne e metterebbe a rischio i fondi europei.

Rating 3.00 out of 5

Il “creator spiritus” che manca alla politica

domenica, Gennaio 23rd, 2022

MASSIMO GIANNINI

Dunque, l’impossibile non è accaduto. Con un sussulto di “responsabilità nazionale”, Silvio Berlusconi ha infine gettato la spugna. Difficile dire se si sia arreso all’anagrafe o all’aritmetica. Se il suo sia stato davvero il primo capriccio senile o l’ultimo sogno di gloria. Quel suo “avevo i numeri ma mi ritiro”, scritto nero su bianco in un comunicato ufficiale che suona come testamento morale, è assai poco credibile. E addirittura incredibile è lo psicodramma che si è scatenato intorno a quel comunicato, tra i soliti dubbi sullo stato di salute del Capo-non-più-figura-adatta e i soliti sospetti sulle trame oscure di rito Forza-Leghista. Sta di fatto che il suo “Gran Rifiuto” nella corsa al Colle chiude la patetica fase uno della pseudo trattativa Stato-partiti sull’elezione del prossimo Presidente della Repubblica, e apre una fase due che si preannuncia drammatica. Il centrodestra a brandelli ha concesso al Cavaliere un inutile giro di giostra, per deferenza o per insipienza. Il centrosinistra a pezzi si è perso nel gorgo degli incontri triangolari e bilaterali a Casa Conte e Casa Renzi che, come i trenini di Casa Jep Gambardella, “non portano da nessuna parte”.
Infatti, dopo una settimana di falso movimento e ad appena ventiquattrore dalla fatidica “prima chiama” delle Camere riunite, ora siamo esattamente qui: da nessuna parte. Nel non-luogo di una politica che ha avuto mesi e mesi a disposizione per litigare sul profilo, ragionare sull’identikit e infine convergere sul nome del nuovo Capo dello Stato. E che invece adesso si ritrova a vagare senza meta e ad affrontare l’appuntamento cruciale come un salto nel buio.

Con un presidente galantuomo ma uscente come Sergio Mattarella, che si ritira a Palermo per non assistere alle meste liturgie romane, non prima di aver fissato da settimane la sua priorità irrinunciabile: non forzatemi la mano, perché la nostra è una Repubblica parlamentare e non una monarchia costituzionale, e dunque tocca a voi assumervi l’onore e l’onere di scegliere il mio successore. Con un premier autorevole ma insofferente come Mario Draghi, che richiama da un mese l’attenzione sulla sua necessità inderogabile: la maggioranza che elegge il prossimo inquilino del Colle non può essere diversa da quella che sostiene l’attuale governo di (sedicente) “unità nazionale”, pena la caduta del medesimo. E con un Italia ancora sospesa, tra i colpi di coda di un’Omicron che uccide e contagia e purtroppo non è ancora Omega, e i colpi di frusta di un’inflazione che dissangua famiglie e imprese non solo con il caro-bolletta, ma ormai anche con il caro-pane, il caro-pasta, il caro-caffè.

Non era questo il “Quirinal Game” che il Paese si aspettava, e meno che mai quello che si merita. Non era il solito, penoso teatrino degli incontri segreti e i veti incrociati. Il solito gioco dei candidati contrapposti, buttati in campo e abbattuti uno dopo l’altro come avviene nel truce reality sudcoreano. Qui non siamo su Netflix, non c’è in ballo un Calamaro.

Siamo nel Parlamento della quinta democrazia del Pianeta, e la posta in gioco è la carica più importante della nazione. Con le emergenze irrisolte che incombono, con più di 300 vittime prevalentemente No Vax mietute dalla pandemia e un sovraccosto energetico di 37 miliardi che rischia di compromettere la ripresa dell’economia, era lecito sperare in un solido patto no-partisan, che permettesse ai Grandi Elettori di votare il meglio che l’Italia può esprimere. Magari al primo colpo, come successe non tanto per Francesco Cossiga, ma per Carlo Azeglio Ciampi nel 1999, stagione di un’altra emergenza e di un’altra sfida, quella dell’euro, che il Paese seppe affrontare e vincere. Stavolta, in un tornante della Storia ancora più critico, non sta andando così. Le prime tre votazioni che iniziano domani, a maggioranza dei due terzi, si trasformano in uno stress test senza senso. E dalla quarta in poi, a maggioranza assoluta, trasfigurano in roulette russa. L’ennesimo sintomo di un Paese che non guarisce. Come scrive la Suddeutsche Zeitung: “Se l’elezione dovesse andare per le lunghe, l’Italia rischierebbe di perdere la credibilità internazionale appena riconquistata, e tornare ai tempi dei vecchi luoghi comuni, quando si diceva «è sempre la solita Italia»… Un triste spettacolo”.

Rating 3.00 out of 5
Marquee Powered By Know How Media.