Archive for Gennaio, 2022

Luca Attanasio, arrestati gli assassini dell’ambasciatore in Congo: «Volevano rapirlo»

mercoledì, Gennaio 19th, 2022

di Francesco Battistini

Il diplomatico è stato ucciso un anno fa assieme a un carabiniere e all’autista

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«Ecco i colpevoli dell’uccisione dell’ambasciatore italiano. Volevano rapirlo. E chiedere un milione di dollari di riscatto». A quasi un anno dall’imboscata assassina in cui morirono Luca Attanasio, il suo carabiniere di scorta Vittorio Iacovacci e l’autista, Mustafa Milambo, la polizia del Congo cattura e mostra al mondo i presunti assassini.

Sono sei giovani, seduti sul prato della caserma di Goma, capoluogo della regione del Nord Kivu al confine col Ruanda. Tutti ammanettati, quattro sono scalzi, alle spalle nove agenti col mitra a tracolla. I sei tacciono. Di fronte hanno un gruppetto di giornalisti e fotografi, invitati per la conferenza stampa: «Signor governatore — proclama con voce solenne il comandante di polizia del Nord Kivu, il generale Aba Van Ang — , vi consegno tre gruppi di criminali che hanno portato il lutto nella città di Goma. Fra di loro, c’è anche il gruppo che ha attaccato il convoglio dell’ambasciatore».

A dire il vero, l’uomo che ha sparato non c’è: è il capo d’una banda nota col nome di «Aspirant», dicono gli investigatori, ed «è ancora in fuga, ma gli stiamo dando la caccia». Di sicuro, spiega un altro militare, il colonnello Constant Ndima Kongba, su quel prato sono in manette i suoi complici: «Gli uomini d’altre due gang criminali, i Bahati e i Balume. Sappiamo dove si trova il capo di ‘Aspirant’. Speriamo di trovarlo».

La banda era ricercata da vari mesi. Dopo l’agguato ad Attanasio il 22 febbraio dello scorso anno, sulla strada fra Goma e Rutshuru, ai confini del parco nazionale dei Virunga, in tutta la regione ci sono stati diversi assalti a convogli: in uno, a novembre, era stato ammazzato anche un uomo d’affari della zona, Simba Ngezayo. E sarebbero stati proprio gli indizi raccolti durante l’inchiesta per quest’ultimo assassinio, sostengono i giornalisti di Goma, a mettere la polizia del Nord Kivu sulle tracce di queste tre bande.

Il generale Van Ang non racconta come si sia arrivati alla cattura. Non fa cenno alle inchieste italiane che nel giugno 2021 hanno portato a indagare un funzionario congolese del World Food Program, sospettato d’avere trascurato le misure di sicurezza previste per il trasporto dei diplomatici. Nemmeno fornisce elementi particolari che spieghino il collegamento con l’uccisione di Attanasio.

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Grillo indagato per la Moby, la ricerca dei magistrati nelle chat e nei messaggi dei collaboratori più stretti: «Una mediazione illecita»

mercoledì, Gennaio 19th, 2022

di Luigi Ferrarella

Da una parte del filo il telefonino della web grafica del blog di Beppe Grillo e figlia del paroliere che per Patty Pravo scrisse «Pazza idea», Nina Monti, e il cellulare di Luca Eleuteri, socio fondatore della Casaleggio Associati al quale nel 2018 Davide Casaleggio affidò il delicato compito di spiegare ai giornali la fine del sodalizio tra il «garante» M5S e l’azienda milanese; dall’altro lato del filo il telefonino dell’amministratore delegato Achille Onorato della compagnia marittima Moby Spa fondata dal padre Vincenzo, e i cellulari di Annamaria Barrile e Giovanni Savarese, che nella società erano responsabile delle relazioni istituzionali e capo ufficio stampa: sono queste 5 persone, tutte non indagate, a essersi viste sequestrare ieri gli apparecchi sui quali la Guardia di Finanza di Milano ha la convinzione di trovare chat e messaggi confermativi di una illecita mediazione di Grillo per spingere i suoi parlamentare a fare gli interessi legislativi dell’armatore che lo stava finanziando.

Balza subito all’occhio che proprio a Grillo, benché al centro dell’indagine per l’ipotesi di reato di «traffico di influenze illecite», non è stato sequestrato il telefonino, su cui pure si ipotizza siano intercorse in entrata le richieste dell’armatore o in uscita gli input ai parlamentari 5 Stelle. Si tratta di una evidente scelta della Procura di Milano, che, così come ieri non si è azzardata a cercare chat su apparecchi di deputati 5 Stelle tutelati dalle garanzie parlamentari, ha rinunciato anche al telefonino del (pur non parlamentare) fondatore ed ex capo politico e poi garante dei 5 Stelle: forse per minimizzare le intrusioni nella privacy e sterilizzare le polemiche che sarebbero nate dall’acquisizione di un cellulare «sensibile», dove è ovvio che sarebbero state presenti (e dunque sarebbero finite depositate poi agli atti come nel caso di Renzi a Firenze nell’inchiesta Open) tutta una serie di chat ad esempio sulle dinamiche interne del Movimento, sui rapporti altalenanti tra Grillo e l’ex premier Conte, sugli attuali posizionamenti dei 5 Stelle in vista del voto per il Quirinale, e anche sulle vicende familiari e scelte difensive legate al processo al figlio di Grillo in Sardegna.

Altrettanto ovvio, però, è che evidentemente gli inquirenti nutrono un ragionevole affidamento di trovare lo stesso sugli apparecchi delle altre cinque persone i messaggi di proprio interesse investigativo. Da quanto traspare infatti dai decreti di perquisizione, la società Beppe Grillo srl, di cui il comico è socio unico e legale rappresentante, ha percepito da Moby spa 120.000 euro all’anno nel 2018 e 2019 «apparentemente per un accordo di partnership» finalizzato alla diffusione sui canali digitali legati al blog Beppegrillo.it di «contenuti redazionali» (almeno uno al mese) promozionali del marchio Moby.

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Quirinale, il vero kingmaker è il caos

martedì, Gennaio 18th, 2022

È chiaro che la domanda è una sola: quale e quando sarà il “piano b”. E se Silvio Berlusconi ripete che “non c’è, c’è solo un piano a”, è anche vero che, per la prima volta, ad Arcore, hanno registrato il dubbio “perché sente che, se cade in Aula, a quel punto gli sfugge di mano”. Forse anche perché le parole di Salvini alludono, neanche tanto implicitamente, proprio al “piano b”. In quel “la Lega farà una proposta convincente la prossima settimana” non è difficile vedere che l’attuale di proposta non è convincente. E a poco valgono le rassicurazioni affidate agli spin e al messaggio di una “lunga e cordiale telefonata” tra i due. Anche le creature sanno che la cordialità vera si pratica, non si ostenta, e si ostenta quando c’è sospetto.

Diciamola tutta: questa storia dei numeri, da verificare in un vertice giovedì, su cui tutti sono a lavoro, è una evidente ammuina. I numeri non ci sono, pallottoliere canta. Ammesso che riuscisse a fare il pieno, il Cavaliere è a quota 460. Ma è il segreto di pulcinella che non saranno mai tali: “Prendi Coraggio Italia – dice uno di loro – Toti, Quagliariello, Lupi sono sicuri, ma basta che ti giri attorno e almeno dieci non lo votano”. E lo stesso vale per gli altri. Né si respira l’aria di chissà quale mobilitazione – ambasciatori, incontri, sherpa, pontieri – attorno alla candidatura di Berlusconi: “È tutto molto casuale – racconta un partecipante all’ultimo vertice – non c’è una regia. Quelli del Pd provano a capire il piano b, e a loro volta hanno il loro, quelli del misto vogliono rassicurazioni sulla durata della legislatura, e così via”.

E qui c’è il primo intoppo, perché il mite Enrico Letta una zeppa l’ha messa. Si è capito che, con Berlusconi al Colle, si va dritti al voto, e dunque è venuta meno un’arma di persuasione sui parlamentari. Proprio quella usata dal Cavaliere per stoppare Draghi. “Se vuoi ti sosteniamo, ma i numeri…” è quel che dirà Salvini al vertice di giovedì, sperando in un passo indietro, come scelta autonoma, che non ha la forza di chiedere apertamente: “A noi arrivano segnali che sta lavorando in tal senso”, dicono ai piani alti del Nazareno. Per fare cosa però, non è dato saperlo, anche se in parecchi, oggi, hanno visto nell’incrocio tra le parole del leader della Lega e quelle di Renzi (“il centrodestra offra una rosa”) un’apertura sul nome di Casini o di Letizia Moratti.

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Otto italiani su 10 sono potenziali evasori fiscali

martedì, Gennaio 18th, 2022

Felice Manti

Otto italiani su 10 sono potenzialmente evasori, perché non ci sono controlli efficaci (anche se non sarebbe questo il motivo principale che spinge all’evasione) e i servizi pubblici erogati non sono all’altezza delle tasse corrisposte all’erario per tre italiani su quattro. È questo il risultato di un sondaggio choc commissionato a Ipsos dal Centro studi Fiscal Focus, nel giorno in cui in Parlamento si torna a parlare dell’ennesima pace fiscale, invocata a gran voce dal centrodestra. Stando ai dati del ministero delle Finanze, nel 2019 l’evasione fiscale in Italia sarebbe stata pari a 80,6 miliardi di euro. Per il direttore del Centro studi Antonio Gigliotti il risultato non deve sorprendere: «Ogni giorno, soprattutto dopo due anni di incertezze provocate dalla pandemia, decine di migliaia di professionisti e piccoli imprenditori si chiedono se sia più opportuno pagare le tasse o i costi fissi dell’azienda, inclusi quelli per l’acquisizione di nuovi clienti che sono necessari per alimentare un flusso di cassa positivo. Ormai c’è un clima culturalmente e politicamente avverso all’impresa e che sta delegittimando anche a livello normativo con adempimenti fiscali a catena ed una vera e propria vessazione fiscale chi oggi ha ancora voglia di fare l’imprenditore nella vita».

D’accordo anche il commercialista Gianluca Timpone, che osserva: «Ad oggi circa il 50% dei richiedenti i benefici del saldo e stralcio e rottamazione ter sono risultati decaduti e sono in attesa di una eventuale ripescaggio». Parliamo di almeno 800mila cartelle, per un controvalore che si aggira sui 4 miliardi. D’altronde, è chiaro che con due anni di pandemia alle spalle e uno stato d’emergenza prolungato al 31 marzo una nuova pace fiscale sembra l’unica opzione possibile. Non parliamo di evasori, chiariscono sia Gigliotti sia Timpone, ma di «lavoratori autonomi che a causa della sensibile contrazione dei propri ricavi anche a cause delle continue e forzate chiusure imposte dallo stato sono stati costretti a saltare le rate arretrate». Con una beffa ulteriore. Per colpa delle azioni esecutive che l’Agenzia delle Entrate può già mettere in campo, come ha già scritto Il Giornale, in tanti si sono visti conti bloccati, stipendi pignorati, immobili ipotecati e fermi amministrativi a pioggia. «L’Erario aggredisce le nuove entrate, necessarie per sopravvivere. Ecco perché sono urgenti misure tampone per evitare il fallimento fiscale di imprese e professionisti», ammonisce Timpone. Anche perché un’impresa che salta è una risorsa in meno per sostenere la spesa pubblica, soprattutto in questa fase in cui l’Europa sembra voler tornare a fare la voce grossa su fiscal compact e debito pubblico, proprio nel giorno in cui lo Stato rende noto che le entrate tributarie e contributive nel primi 11 mesi del 2021 sono aumentate del 9,7% (+58.691 milioni di euro) rispetto all’analogo periodo del 2020.

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La guerra delle schede per nascondere i voti riconoscibili in Aula

martedì, Gennaio 18th, 2022

Paolo Bracalini

Operazione No-Cav, nuova puntata. Stavolta il fronte di battaglia si sposta sulle schede. La missione è impedire che i parlamentari e i grandi elettori del centrodestra segnino le schede, cioè scrivano il nome del leader azzurro in modi diversi («Silvio Berlusconi», «Berlusconi Silvio», «onorevole Berlusconi», etc) per contarsi. Una tecnica spesso utilizzata nelle votazioni segrete, come è appunto quella del Quirinale, per sventare il rischio di franchi tiratori tra le proprie fila. È il consiglio che più di un ex parlamentare navigato ha dato a Berlusconi, perciò si è messa subito in moto la contraerea per impedirlo. A guidarla c’è l’unico che può decidere come verranno letti i voti in aula, il presidente della Camera Roberto Fico. L’idea è che vengano letti solo i cognomi dei candidati votati nel segreto dell’urna (c’è un precedente con la presidenza Violante durante l’elezione che portò Ciampi al Quirinale), impedendo così la distinzione tra i voti per lo stesso candidato. Ma non si escludono altre modalità sempre con lo medesima finalità. L’indiscrezione è stata passata a Repubblica, e poi smentita dallo stesso Fico. Ma non integralmente. «La decisione sulla lettura delle schede sarà adottata dal presidente Fico a garanzia della correttezza e del buon andamento dei lavori per l’elezione del presidente della Repubblica. Questo è l’obiettivo che ha ispirato anche i predecessori. Non ha dunque nulla a che vedere con le singole personalità e qualunque speculazione politica sulle modalità di scrutinio è in totale malafede» ha precisato il portavoce di Fico. Confermando, implicitamente, che la presidenza sta studiando un sistema per la lettura delle schede diverso dalla semplice lettura di quello che i grandi elettori avranno scritto. Appunto, un metodo per mettere in difficoltà Berlusconi. Risulta tra l’altro che Fico scioglierà la riserva all’ultimo, forse lo stesso 24 gennaio mattina, così da impedire al centrodestra di fare affidamento su quel sistema.

Il presidente della Camera ovviamente non può esporsi in prima persona, rischierebbe di sembrare di parte. Ma le reazioni che arrivano dal suo partito, il M5s, confermano che quello sia l’obiettivo dei grillini. «Bene le misure che Montecitorio prenderà per garantire il voto libero dei parlamentari. Dobbiamo evitare che ci siano segni riconoscibili sulle schede: è la stessa dinamica usata dalla criminalità organizzata per controllare il voto (di scambio)» twitta il deputato M5s Francesco Berti.

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Condividere un Presidente e salvare la legislatura, l’unica via d’uscita possibile

martedì, Gennaio 18th, 2022

Federico Geremicca

Un passo avanti ed uno indietro. Una svolta a destra e un’altra a sinistra. Spostamenti verso l’alto e poi verso il basso. E il risultato, a fine giornata, è sempre lo stesso: si è dove si era prima. Sì, l’autocandidatura a Presidente di Silvio Berlusconi sembra incamminarsi verso un imbarazzante tramonto: ma terrà comunque in ostaggio la cittadella politica per ancora qualche giorno. E soprattutto, tolto dal campo questo impiccio, sullo sfondo non si intravede uno straccio di soluzione.

La situazione è così confusa che più ancora che ad un labirinto fa pensare – ormai – al vecchio gioco dello Shanghai, dove se tocchi il bastoncino sbagliato perdi, e magari fai crollare tutto. Sono necessarie prudenza e pazienza. E allora: nel vecchio gioco del Quirinale – cioè nella partita in corso – da dove partire e qual è il bastoncino da non toccare?

Dopo troppe settimane passate a giocare con i nomi dei possibili presidenti, si è finalmente inteso che quella strada – con ognuno a insistere sul “suo” presidente: patriota, europeista, senza tessera del Pd… – non avrebbe portato da nessuna parte. Stavolta, infatti, il nome del Capo dello Stato va necessariamente calato in un contesto ampio, e non semplice da costruire. La novità è che le forze politiche sembrerebbero aver finalmente individuato il punto di partenza, la premessa, il bastoncino – insomma – da non toccare: che è la tenuta della legislatura e quindi del governo. Di questo o – più improbabilmente – di un altro governo.

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Il Cavaliere non è votabile, ora sul Colle vada il premier

martedì, Gennaio 18th, 2022

Massimo Giannini

L’incredibile pochezza dei sedicenti leader e l’insostenibile leggerezza dei presunti moderati trasfigura il Cav Berlusconi in Sir Winston Churchill. Anche nell’era della post-pandemia globale e della post-democrazia digitale, il demiurgo dell’antipolitica pre-sovranista e del tele-populismo analogico continua a essere la sola “figura adatta” della destra italiana. Sopravvissuto alle sue inverosimili disgrazie e ai suoi implausibili delfini, continua a tenere in catene i suoi alleati e in ostaggio il Paese. Diciamolo subito, per essere chiari: è grottesco, o addirittura pazzesco, ma tutto questo è assolutamente legittimo. Nulla osta alla sua ennesima “discesa in campo”.

Berlusconi è perfettamente candidabile. È candidabile sul piano giuridico. Pregiudicato, e condannato a quattro anni di reclusione per un reato assai grave, ha scontato la sua pena. Non in carcere, ma ai servizi sociali presso la struttura di Cesano Boscone. E la sua originaria “incandidabilità”, applicata in base alla legge Severino del novembre 2012 e scattata in seguito alla sentenza definitiva che lo ha riconosciuto colpevole di frode fiscale, è stata cancellata dal Tribunale di Sorveglianza di Milano, che lo ha “riabilitato” nel maggio 2018. Ma è candidabile anche sul piano politico. È e resta il fondatore di un’anomala destra tricolore (a-repubblicana, a-fascista, a-europeista), che nel ’94 mescola il partito-azienda forgiato da Marcello Dell’Utri sulla rete Publitalia, i frammenti della diaspora democristian-socialista, gli ex missini lavati con l’acqua di Fiuggi e i padani di Bossi ripuliti da Miglio. È a sua volta portatore di un’anomalia gigantesca e irrisolta, il conflitto di interessi, incistato nella coalizione e introiettato dal sistema. Resta ancora il padre-padrone di un campo largo persino più anomalo – in cui convivono il governismo di ministri azzurri e cacicchi verdi, il nazionalismo dei leghisti salviniani, l’estremismo dei Fratelli meloniani – e tuttavia probabilmente maggioritario nelle urne. Lo dicono tutti i sondaggi, anche al netto delle potenziali e ulteriori annessioni di rito nazareno con quel che resta del partitino di Renzi.

Dunque, non è uno scandalo che oggi il Cavaliere, alla veneranda età di 85 anni, cerchi ancora una volta di far coincidere la sua biografia politica con quella dell’intera nazione. Di comprare grandi elettori e piccoli peones non più grazie ai bonifici dell’affarista Lavitola (come accadde ai tempi del senatore De Gregorio) ma ai buoni uffici del telefonista Sgarbi (come succede oggi con quella che è stata ribattezzata “operazione scoiattolo”). Di fulminare Draghi sulla via del Colle, minacciando di uscire dalla maggioranza “di unità nazionale” se l’attuale premier lascia il governo. Il vero scandalo è che glielo consentono i suoi alleati. Salvini e Meloni, figli irresoluti, non vogliono o non possono affrancarsi dall’abbraccio mortale dell’anziano genitore, e così ne assecondano i capricci senili. È grave se ci credono davvero, a dispetto delle chiacchiere vuote sullo “spirito Sassoli” che dovrebbe caratterizzare l’elezione no-partisan della figura chiamata a rappresentare tutti gli italiani e a perseguire il bene comune. Ma è grave anche se non ci credono, a dispetto dell’endorsement ufficiale, e magari si illudono di risolvere il problema lasciando che l’Autocandidato fallisca la compravendita nello squallido outlet del gruppo misto o vada a sbattere contro il muro nelle prime tre votazioni. In tutti i casi, sottovalutano le rovinose macerie che l’urto finirà per produrre. Sulla solidità delle istituzioni e sulla credibilità degli stessi partiti, sulla tenuta del governo e sulla vita quotidiana dei cittadini.

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La tela di Di Maio nel Movimento spaccato

martedì, Gennaio 18th, 2022

Annalisa Cuzzocrea

L’ex leader M5S adesso guarda al centrodestra: «È necessario rafforzare un asse politico trasversale». Da Confalonieri alla Casellati ecco chi sono gli interlocutori del ministro nell’altro schieramento

Quando nacque il governo giallorosso tra Movimento 5 stelle e Partito democratico, deciso in un conclave con Beppe Grillo davanti al mare di Bibbona – che a ripensarci adesso sembra preistoria – Luigi Di Maio aveva il volto buio di chi pensa: stiamo sbagliando tutto. Sulla porta, il garante M5S gli mise una mano sulla spalla e gli disse: «Lo so, non ti convincerai mai, ma bisogna fare così». E lui accettò, riprendendo però molto presto i contatti con chi nella Lega non lo aveva tradito: e cioè con Giancarlo Giorgetti, che lo andò a trovare alla Farnesina più di una volta anche quando il partito guidato da Matteo Salvini era all’opposizione.

In realtà poi al governo con i dem il ministro degli Esteri si è trovato bene. Meglio di quanto credesse, ha raccontato più di una volta. Resta però, senza che si sia mai preoccupato di smentirlo, l’esponente più a destra del Movimento. Convinto che la forza politica rinata dalle ceneri con Giuseppe Conte debba essere «moderata e liberale», che le posizioni conservatrici sull’immigrazione non debbano mai essere abbandonate. E ora, che per eleggere il nuovo presidente della Repubblica i 5 stelle debbano abbandonare l’asse privilegiato con Massimo D’Alema e Goffredo Bettini e guardare – piuttosto – a destra. O meglio, come ha detto a un ministro proprio nelle ultime ore, «bisogna rafforzare un asse trasversale che va da destra a sinistra». Tradotto: bisogna convincere il centrodestra ad abbandonare l’ossessione berlusconiana e convergere su un altro nome, con due scenari privilegiati: il primo è il Mattarella bis, che farebbe felici i parlamentari e avrebbe il vantaggio di congelare il quadro, senza lasciare perdenti sul terreno. Il secondo e più probabile, però, è l’arrivo al Quirinale del presidente del Consiglio Mario Draghi, con cui ieri il capo della Farnesina è tornato in volo da Strasburgo a Roma dopo la commemorazione al Parlamento europeo di David Sassoli.

La rassicurazione che Di Maio sta dando a tutti i parlamentari con cui parla, e sono molti, anche tra gli ex M5S confluiti nel gruppo misto, è questa: «Bisogna mantenere la calma, essere lucidi, guardare al metodo prima ancora che al nome. Alla fine sul Colle il Movimento farà la scelta più saggia e soprattutto, comunque vada, la legislatura andrà avanti». Nessun pericolo di elezioni anticipate quindi, ci sarà – assicura il ministro degli Esteri – un nuovo governo e per questo è fondamentale parlare con il centrodestra che, perché ci siano i numeri, di questo patto deve far parte a pieno titolo.

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Il rimpasto secondo Matteo

martedì, Gennaio 18th, 2022

Ilario Lombardo

Mario Draghi non sta facendo l’unica cosa che gli chiedono i partiti, che rassicurerebbe i parlamentari, e lusingherebbe i leader. Parlare di quale governo potrebbe nascere dalle ceneri della sua esperienza a Palazzo Chigi, se e quando dovesse trasferirsi al Quirinale.

Nelle stanze della presidenza del Consiglio sono molto accorti a scegliere le parole, per commentare l’ennesima mossa di Matteo Salvini. Non lo chiamano «ricatto», ma girano intorno a questo che è l’unico termine che sottintende ogni commento. Non possono farlo per diplomazia, convinti che vada tenuto in piedi un equilibrio che ogni giorno appare più instabile. Ma ai collaboratori di Draghi è evidente il messaggio che ieri ha mandato Salvini quando si è presentato davanti alle telecamere per ribadire il suo piano: lasciare perdere il prima possibile Silvio Berlusconi, puntare su un candidato di centrodestra alternativo e credibile, poi su questa proposta intavolare una trattativa con il premier sul governo del dopo. L’idea dell’esecutivo dei leader, sostenuta da Matteo Renzi, è la prima mossa di una strategia che punta a costruire la campagna elettorale perfetta per il 2023. Salvini vuole per sé il ministero dell’Interno. Questo non significa che per forza dovrà essere lui a guidarlo, ma il Viminale deve tornare a essere il perno della sua narrazione, il palcoscenico che, come avvenuto nel 2019, gli permetterà di risalire i sondaggi e sfidare l’amica-nemica di sovranismo Giorgia Meloni.

Salvini esige questo da Draghi quando, chiedendo apertamente il rimpasto, elenca tutti i problemi sul tavolo della ministra Luciana Lamorgese che, a suo dire, sono rimasti irrisolti. È evidente che Pd e M5S si opporrebbero in tutti i modi, di fatto lasciando naufragare sul nascere questa possibilità. Ma agli occhi di Salvini, Draghi, se ha davvero intenzione di andare al Colle, deve farsi garante dell’esigenza della Lega, perché sarebbe lui, una volta eletto Capo dello Stato, ad avere la responsabilità di indicare i ministri e dare una forma al governo, accettando o respingendo i veti dei partiti. Lo schema di gioco prevede però un passaggio precedente. Come confermano dal M5S e dal Pd, non passa giorno che Salvini non ripeta loro di credere davvero di riuscire a strappare un nome di centrodestra per il Quirinale. Nelle ultime ore è tornato a sondare Giuseppe Conte su Letizia Moratti, ma non esclude né Marcello Pera, né Pierferdinando Casini. Sa benissimo che una qualsiasi soluzione di questo genere, troppo divisiva, potrebbe avere un contraccolpo fatale sul governo di unità nazionale. Draghi potrebbe dimettersi e lasciare la legislatura in mare aperto, spalancando uno scenario da incubo per i parlamentari. Le elezioni anticipate sono un rischio che, però, il leghista è pronto a correre e sul quale, come detto, intende negoziare con il premier sulla base di precise condizioni politiche.

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Quirinale, la «lezione» di D’Alema ai forzisti: se insistete su Berlusconi arriva Draghi

martedì, Gennaio 18th, 2022

di Francesco Verderami

Per i centristi il leader di FI è diventato il maggior alleato del premier

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Venerdì scorso, terminati i funerali di Stato per Sassoli, D’Alema aveva incrociato sul sagrato della chiesa un gruppo di dirigenti del centrodestra, tra i quali c’era anche Tajani. E li aveva intrattenuti con una delle sue lezioni di politica, che si era conclusa così: «Se voi continuerete a insistere su Berlusconi, alla fine arriverà Draghi». Sul volto di D’Alema era apparso un moto di fastidio, tanto che il leader udc Cesa era ricorso a una battuta per svelenire il clima: «Massimo, a questo punto mandaci la parcella». E lui d’istinto: «Io faccio il consulente per le grandi banche d’affari, diciamo». Il «consulente» sembra averci visto giusto, se è vero che ieri — dopo una riunione con il ministro Guerini — un autorevole esponente dem di Base riformista ha spiegato come «da giorni ormai stanno trattando con il premier sul governo che verrà, dopo la sua ascesa al Colle».

Nelle stesse ore Berlusconi si trovava ad Arcore insieme allo stato maggiore forzista, riunito per lavorare alla lista dei «fatidici cento» grandi elettori necessari a tenere in vita le speranze quirinalizie del leader. Il Cavaliere sarebbe dovuto andare a Strasburgo, alla commemorazione del presidente del Parlamento europeo, per incontrare una serie di personalità in funzione della sua candidatura. Ma la situazione a Roma è precipitata e non c’è più lo stesso clima delle scorse settimane. «Senza l’appoggio politico di un gruppo esterno al centrodestra — commentava uno degli alleati più fedeli a Berlusconi — sarebbe difficile raggiungere l’obiettivo».

Come non bastasse, a complicare la partita del Cavaliere — oltre le performance di una serie di personaggi folkloristici — si sono aggiunte chiare manovre di disturbo. A partire dallo scritto che Verdini ha fatto pervenire a Confalonieri e Dell’Utri. Perché una lettera riservata, costruita ad arte per essere pubblicata, è tutto fuorché un gesto di sostegno al «sogno di Silvio». Tra gli amici di una vita di Berlusconi c’è chi è rammaricato, e non da oggi, per il troppo colore e il troppo clamore che hanno accompagnato nell’ultima fase l’«Operazione scoiattolo». Che a suo giudizio avrebbe dovuto essere invece un’«Operazione U-boot», capace cioè di muoversi sotto traccia per arrivare all’obiettivo cogliendo tutti di sorpresa. Niente di tutto questo è successo. In più, racconta uno degli sherpa del Cavaliere, «gli alleati adesso stanno provando a non far arrivare Berlusconi in Aula».

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