Archive for Febbraio, 2022

Mario Draghi, Vittorio Feltri: “Le dimissioni non stupirebbero”, voci dalle sacre stanze

domenica, Febbraio 20th, 2022

Vittorio Feltri

È noto a chiunque che la rielezione di Sergio Mattarella al Quirinale è avvenuta pressoché all’unanimità per un solo motivo: evitare con cura lo scioglimento del Parlamento, che avrebbe significato il siluramento di numerosi deputati e senatori, senza contare che ciascuno di costoro sarebbe stato costretto a rinunciare in anticipo alla indennità di carica nonché alla pensioncina prevista per i rappresentanti del popolo solo alla scadenza naturale del mandato, non prima.

A meno di un mese dal ritorno sul Colle del vecchio presidente, appunto riconfermato, ai politici adesso ballano i cerchioni perché Draghi si è rotto le scatole di prendere decisioni in Consiglio dei ministri e di vedersele poi contestate da vari partiti inconsapevoli che un esecutivo serio abbisogna di essere sostenuto collegialmente e non sgambettato. Il premier comincia ad essere indispettito dalla indisciplina di gente che si ribella ad ogni provvedimento assunto a Palazzo Chigi. Cosicché il banchiere giustamente dà segni di insofferenza e minaccia di andarsene qualora non si plachino le polemiche. Nei panni di Draghi agiremmo come lui che non si diverte a dirigere una baracca scalcinata quanto quella affidatagli. A questo punto, dato che la maggioranza si è trasformata in un serraglio di litiganti, non stupirebbero le dimissioni dell’ex capo della Bce, della cui pazienza mi pare si stia abusando. 

Nel qual caso sarebbe indispensabile ricorrere in primavera alle urne affinché siano gli italiani a decidere chi debba guidare il paese, proprio ciò che i nostri politici hanno fatto di tutto per evitare fino a qualche settimana fa. Sarebbe una conclusione politica paradossale, ma dato il clima del Palazzo essa appare molto probabile, anche se non certa. A noi, che non incassiamo un euro dallo Stato per fare quattro chiacchiere a Montecitorio e all’altra Camera, quella senatoriale, non darebbe alcun fastidio se venissero riaperti i seggi onde rieleggere il plotone dei parlamentari, anzi, ne saremmo lieti per una semplice ragione: siamo persuasi che il momento più alto della democrazia sia quello del voto.

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L’interrogatorio-show dell’imputato Davigo: “Notizie dal Quirinale sulla loggia Ungheria”

domenica, Febbraio 20th, 2022

GIUSEPPE SALVAGGIULO, MONICA SERRA

Lo show di Piercamillo Davigo non ha tradito le attese ma non gli ha impedito il rinvio a giudizio per rivelazione di segreto d’ufficio sui verbali sulla loggia Ungheria, ricevuti dal pm milanese Paolo Storari e veicolati irritualmente nel Csm nella prima metà del 2020 per «screditare il ruolo istituzionale e l’immagina personale e professionale del collega Sebastiano Ardita». Vanificando i tentativi della giudice Federica Brugnara di frenarne la facondia («Non capisco la pertinenza, aspetti un attimo, risponda alla mia domanda…»), il 7 febbraio l’imputato Davigo tiene banco per tre ore nel tribunale di Brescia.

In una ricostruzione non priva di lacune e contraddizioni, per difendersi alza il tiro sui vertici del Csm. In primis il vicepresidente David Ermini. «Ho riflettuto a lungo se potevo fidarmi di lui, perché la sua provenienza politica era la stessa di Lotti. Però avevo un buon rapporto. Un giorno mi abbracciò perché in tv avevo detto, come per il presidente Usa, che lui era anche il mio vicepresidente, anche se la sua elezione promanava da Magistratura Indipendente e Unicost, la sentina di Palamara. Riteneva che in qualche modo lo avessi legittimato. E poi aveva preso le distanze da quel gruppo di potere, perché in un’intercettazione Lotti diceva “Ermini è morto”, facendogli fare un figurone».

Ermini viene informato dei dirompenti verbali milanesi all’inizio di maggio 2020, di ritorno a Roma dopo il lockdown. «Gli dissi per telefono: ti devo parlare di una cosa urgente e importante. Contrariamente a quanto dice lui, non gli consegnai in prima battuta i verbali. Gli feci una sintesi della vicenda dicendo “ci sono nomi da paura, data la delicatezza è indispensabile informare il presidente della Repubblica”. Cosa che Ermini fece immediatamente. Chiamò il presidente, lo raggiunse e tornò».

I nomi
Ermini, sentito dai pm come testimone, fornisce una ricostruzione diversa e dice di aver cestinato i verbali senza leggerli. «Ma non è vero – obietta Davigo – perché me li ha chiesti lui. I verbali vengono in un secondo momento. Siccome era impressionato dai nomi, continuava a chiedermi “Ma c’è anche quello?” e io non me li ricordavo perché sono tanti. A un certo punto ho detto “Senti David, se vuoi te li do questi file stampati così non mi chiedi più i nomi”. Poteva rispondermi: “Non li voglio”. Invece li ha portati in uno stanzino che aveva dietro il suo ufficio e non ne abbiamo più parlato. Due mesi dopo siamo andati in vacanza insieme all’hotel Terme di Merano, quindi non era poi così turbato evidentemente… Comunque se li ha distrutti, essendo la prova del mio reato, dovete incriminarlo per favoreggiamento. Non mi consta che sia avvenuto. Sarebbe un illecito disciplinare (dei pm di Brescia, ndr), ma comunque…».

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Draghi e il fantasma del Mes

domenica, Febbraio 20th, 2022

Ilario Lombardo

ROMA. Sta per tornare in scena il Mes. E sarà un altro fronte parlamentare bollente, un altro test di tenuta per la maggioranza di governo, un’altra sfida ai nervi di Mario Draghi. Qualche giorno fa, al Tesoro, Daniele Franco si lamentava delle difficoltà che l’esecutivo incontrerà alle Camere sul Fondo creato per soccorrere i Paesi europei in crisi. Sono mesi che il ministro dell’Economia sostiene che va ratificato al più presto. L’Unione europea si attendeva il via libera parlamentare alle modifiche del trattato che regola il Meccanismo europeo di stabilità entro il 2021. Era stato il governo italiano, prima con Giuseppe Conte, poi con Draghi, a impegnarsi in tal senso. E invece: in Parlamento sembra facciano gli scongiuri per rimandare ancora la firma che tribalizzerà nuovamente i gruppi.

Ma il tempo sta scadendo. E Draghi ha un motivo in più per spingere sulla rapida approvazione. Il Patto di Stabilità. Il piano per riformarlo prima del gennaio 2023, proposto assieme a Emmanuel Macron con un articolo co-firmato sul Financial Times, sarà al centro del vertice europeo di Parigi l’11 e 12 marzo. L’ideale, per Draghi, sarebbe arrivare a quell’appuntamento almeno con una votazione positiva in commissione Esteri, un traguardo che aiuterebbe il presidente francese a incardinare – come spera – una prima revisione dei vincoli su deficit e debito entro il semestre europeo a sua guida. L’ok del Parlamento italiano sarà utile in fase di trattativa, secondo il premier. Primo, perché alleggerirebbe gli sguardi sospettosi dei falchi tedeschi e del nord Europa, poco propensi a fare concessioni all’Italia. Secondo, nel nuovo Patto, immaginato in un paper pubblicato da Francesco Giavazzi e Charles-Henri Weymuller, consiglieri economici di Draghi e Macron, il Mes tornerebbe a nuova vita come «agenzia europea per la gestione del debito», e in particolare avrebbe il compito di smaltire quello accumulato lungo tutta la pandemia.

Il prossimo fine settimana il ministro Franco ritroverà a Parigi i colleghi europei all’Ecofin e qualcuno di loro è prevedibile tornerà a chiedergli dove l’Italia abbia smarrito il Fondo salva-Stati. Come è avvenuto un mese fa, durante l’ultimo vertice, quando il presidente dell’Eurogruppo, Paschal Donohoe, e il direttore del Fondo salva Stati, Klaus Regling, gli hanno domandato lumi sui ritardi. Erano i giorni subito precedenti alla settimana del rodeo quirinalizio. A Roma e a Bruxelles tutti sanno cosa è successo. Il Mes, detonatore di infinite liti in questa legislatura, non è arrivato in Parlamento prima che Draghi si giocasse le sue chance per il Colle. Come altri dossier delicati e politicamente esplosivi è stato rinviato a dopo le elezioni.

Per questo, ora, Franco ha necessità di accelerare, e pure Draghi chiede di chiudere presto con la ratifica. È parte del pacchetto di impegni presi con l’Ue che il premier intende rispettare. La Germania attende per marzo la sentenza sul Mes della Corte costituzionale: una volta che i giudici di Karlshruhe si saranno pronunciati, l’Italia sarà il solo Paese membro a non aver votato per confermare le modifiche. Passata la partita sul Quirinale, però, non ci sono più scuse agli occhi di Bruxelles. Non ha nemmeno senso che si attenda la Consulta tedesca. Non sarà una passeggiata, ovviamente. Ed è il grande timore di Franco e di Draghi: nel lungo elenco di norme, riforme e testi del governo che i parlamentari a vario grado contrastano o puntano a stravolgere, il Mes rappresenta una delle fonti di preoccupazione più grandi, perché potrebbe risvegliare gli istinti sovranisti più radicali della Lega e, in parte, del M5S. Matteo Salvini potrebbe ritrovarsi con Giorgia Meloni nella battaglia anti-europea, contro l’odiatissimo Fondo.

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Conseguenze economiche di una guerra senza vincitori

domenica, Febbraio 20th, 2022

MASSIMO GIANNINI

Assuefatti a ogni orrore, immersi nell’irrealtà virtuale, osserviamo la guerra che avanza come fosse l’ennesima serie di Netflix. Non ci scuotono le granate Ags e Spg che piovono nei cieli del Donbass. Non ci inquietano i colpi di mortaio che fischiano più a Nord, verso il confine bielorusso. Non ci sconvolge l’immagine forse più agghiacciante di questa “ora più buia”: lo Zar Putin, insieme ai suoi generali, che dagli schermi della “situation room” al Cremlino osserva orgoglioso l’esercitazione dei missili nucleari ipersonici Kinjal e Zircon, che lui stesso definisce “invincibili”. L’Orso russo gonfia i muscoli e li mostra al pianeta. Lo fa ogni anno, ma stavolta la prova di forza atomica è anticipata a febbraio, com’era accaduto solo nel 2014. Sarà stato un caso, ma di lì a poco i tank marciarono sulla Crimea.

Ora tocca all’Ucraina. Dopo giorni di strappi militari e ricuciture diplomatiche, siamo arrivati davvero a un passo dal baratro. Mettiamo pure da parte l’essenza del problema, e cioè il rifiuto etico della guerra. In termini di puro buon senso politico ed economico, una guerra contro l’ex repubblica sovietica guidata da Zelensky non “conviene” a nessuno. Eppure, l’inerzia dei fatti dimostra invece che una guerra è possibile, e a questo punto addirittura probabile. I potenti della terra, riuniti a Monaco per la conferenza sulla sicurezza, sembrano propensi a non ripetere oggi lo stesso errore che commisero nel settembre del ’38, quando in quella stessa città lasciarono che il Fuhrer, annessi i Sudeti, depositasse le sue uova avvelenate nel cuore d’Europa.

Per fortuna Putin non è Hitler, la Russia non è il Terzo Reich, l’Ucraina non è la Cecoslovacchia, il mondo di oggi non è quello di 84 anni fa. Nonostante questo, al contrario di quanto fecero allora Chamberlain e Daladier di fronte all’invasione tedesca, i leader occidentali non cedono alla provocazione russa. Lo dice Ursula von der Leyen, per conto della Ue: se la Russia attaccherà “imporremo costi elevati e gravi conseguenze a Mosca”. Lo ribadisce Kamala Harris, per conto dell’America: la nostra risposta sarà “massiccia, rapida” e soprattutto “condivisa da tutti”.

È la cosa giusta da dire. Quanto al fare, tutto si complica, se Vlad il Matto prevale su Putin il Razionale. Finora la “guerra ibrida”, fatta di escalation militari, hackeraggi informatici e “disinformatsija” politica, aveva strapagato: portandogli in dote una chiara legittimazione a sedersi al tavolo in cui si discute di sicurezza globale e di armamenti e, se non la ricostruzione lungo le sue frontiere della sfera di influenza strategica dell’era sovietica, almeno il rinvio dell’ingresso ucraino nella Nato. Bottino tutt’altro che magro, che si accompagna a una politica estera più aggressiva che assertiva nel Mediterraneo e in zone di interesse cruciali come la Siria e la Libia, il Mali e il Centro-Africa. Perché l’Autocrate di Mosca debba passare adesso alla “guerra calda” è incomprensibile. Un’offensiva su Kiev è un ricostituente per i suoi nemici: rianima Biden in crisi di consensi a pochi mesi dal voto di MidTerm, ridà fiato a una Nato a corto di strategie e di risorse, ricompatta un’Europa che finora ha vissuto di missioni impossibili e improbabili dei suoi singoli, da Macron a Scholz, e domani o dopodomani sarà anche la volta di Draghi.

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Medici di base in crisi dopo la pandemia, sanità senza assistenza

domenica, Febbraio 20th, 2022

Paolo Russo

ROMA. Nell’agosto del 2019 il numero 2 della Lega, Giancarlo Giorgetti, la Caporetto dell’assistenza domiciliare dell’annus horribilis 2020 l’aveva a modo suo preannunciata, quando scatenando le ire dei diretti interessati disse: «Nei prossimi cinque anni mancheranno 45 mila medici di base, è vero. Ma chi va più da loro? Oggi nel mio paese vanno a farsi fare la ricetta, ma chi ha meno di 50 anni va su internet a cercarsi lo specialista. Il mondo in cui ci si fidava del medico di famiglia, quella roba lì, è finita». Parole coerenti con quello che proprio il Carroccio ha perseguito nei sui numerosi anni di governo della Lombardia, dove si è puntato forte sui super ospedali e poco sul territorio. Finendo per far travolgere il sistema sanitario lombardo dall’urto della prima ondata di Covid. Ma «quella roba lì», la prima trincea sanitaria dell’assistenza territoriale, alla lunga ha finito per essere spazzata via anche altrove. A dirlo sono i morti. In base all’andamento dei cinque anni precedenti, nel 2020 in Italia si sarebbero dovuti contare 645 mila decessi, ai quali sommare i 74 mila accertati per Covid dalla Protezione civile, per un totale di 719 mila. Alla fine ne risultarono 22 mila in più. Morti di altro? Difficile, visto che la mortalità per incidenti crollò con il lockdown, così come quella per malattie infettive varie. Secondo gli epidemiologi quelle morti occulte sono invece da attribuire al Covid. Persone decedute a casa senza assistenza e quindi nemmeno una diagnosi. Perché i medici di famiglia, senza protezioni e senza un minimo di coordinamento con chi ne sapeva più di loro negli ospedali, se ne rimasero asserragliati nei loro studi deserti. E chi invece andò ad affrontare il virus a mani nude pagò con la vita il proprio coraggio.

Ma anche in seguito, nell’era dei vaccini, il loro ruolo è rimasto sempre marginale. Basti ricordare quando nel 2021 si tentò di coinvolgerli a dare una mano con i tamponi. «Non abbiamo gli studi attrezzati per farli», fu il muro di gomma alzato dal potente sindacato di categoria, la Fimmg. Eppure per l’assistenza territoriale le Regioni schierano un esercito che non è da meno di quello in forza negli ospedali: 42 mila medici di famiglia, 7.400 pediatri di libera scelta, oltre 17 mila medici di continuità assistenziale (le ex guardie mediche), 2.900 medici di assistenza territoriale, altri 1.600 nella medicina dei servizi. In totale 72 mila camici bianchi, con la sicurezza dello stipendio fisso ma senza i vincoli dei dipendenti perché liberi professionisti in convenzione. Quella che ai medici di famiglia con 1.500 pazienti a carico consente di tenere aperti gli studi per 15 ore settimanali, quando la maggioranza dei loro colleghi ospedalieri, oberati di lavoro, ne fa 48.

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Giustizia ma anche libertà

domenica, Febbraio 20th, 2022

di Angelo Panebianco

Nel campagna per il voto sulla separazione delle funzioni fra pm e giudici si confronteranno due visioni antitetiche del ruolo dello Stato

Le due seguenti citazioni, tratte da Montesquieu, potrebbero ispirare le scelte di una parte dei cittadini italiani nella prossima campagna referendaria. Scrive Montesquieu: «È però un’esperienza eterna che ogni uomo il quale ha in mano il potere, è portato ad abusarne, procedendo fino a quando non trova dei limiti». Ne consegue che «bisogna che, per la disposizione delle cose, il potere freni il potere». Frasi che risalgono al Settecento ma che oggi possono aiutarci a capire perché il referendum sulla giustizia simbolicamente più importante — anche se gli effetti pratici si manifesterebbero solo nel lungo periodo — sia quello sulla separazione delle funzioni fra giudici e pubblici ministeri. Separazione delle funzioni, non (ancora) delle carriere. Ma sarebbe comunque un primo, significativo passo in quella direzione.

Proviamo a sollevarci al di sopra delle polemiche contingenti. In trent’anni di conflitti fra magistratura e politica gli argomenti usati da una parte e dall’altra sono sempre gli stessi. Molti di noi li conoscono tutti a memoria. Consideriamo piuttosto le «filosofie» che si scontreranno sulla separazione delle funzioni, proviamo a rendere esplicito ciò che altrimenti resterebbe implicito, inespresso. In quella campagna referendaria si confronteranno due visioni antitetiche del ruolo dello Stato in una democrazia. Possiamo chiamarle la concezione paternalista e la concezione liberale.

Sgombriamo il campo da un falso problema. Ci saranno, come è inevitabile, molte esagerazioni polemiche da una parte e dall’altra. C’è chi dirà che se passasse la separazione, per la giustizia italiana sarebbe una catastrofe e c’è chi dirà che finalmente avremo, di colpo, un ottimo sistema di giustizia rispettoso delle libertà dei singoli. Niente di tutto questo. All’inizio, e probabilmente per un lungo periodo, non cambierebbe nulla. Né nei comportamenti dei pm né in quelli dei giudici. Proprio perché separare le funzioni non è ancora separare le carriere. Pm e giudici continuerebbero ad essere governati dallo stesso Consiglio superiore della magistratura, a fare parte delle stesse correnti, ad essere rappresentati dallo stesso sindacato, eccetera. Nel lungo periodo, però, qualche cambiamento ci sarebbe.

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Ucraina-Russia, le ultime notizie in diretta: secondo Johnson, Mosca prepara «la più grande guerra in Europa dal 1945»

domenica, Febbraio 20th, 2022

di Chiara Severgnini

La situazione in Donbass, le mosse di Kiev e quelle di Mosca: cosa sta succedendo in Ucraina? Tutti gli ultimi aggiornamenti

«Siamo lo scudo d’Europa, aiutateci»: è l’appello lanciato dal presidente ucraino Volodymyr Zelensky nella serata del 19 febbraio (qui tutte le notizie di ieri). Mentre i ministri degli Esteri del G7 invitano la Russia di Putin a «ritirare le truppe», gli Stati Uniti avvertono: «Mosca può lanciare un attacco contro l’Ucraina in qualunque momento». Nel Donbass — territorio separatista dell’Ucraina — la situazione è degenerata: mentre i civili vengono fatti evacuare, tanto i ribelli filorussi quanto le forze ucraine schierate sul posto segnalano violazioni continue di un cessate il fuoco che ormai sembra più teorico che reale. Secondo Kiev, due soldati ucraini sono stati uccisi, quattro sono rimasti feriti e un altro ha riportato ferite da combattimento. Ieri, mentre in Ucraina la tensione saliva alle stelle, Mosca ha portato a termine una serie di esercitazioni missilistiche: uno sfoggio di potenza che sembra legato alla strategia negoziale di Putin. Qui la nostra analisi delle motivazioni profonde della crisi; di seguito la diretta con le notizie di oggi.
Ore 08.29 – Secondo gli 007 britannici, Putin ha già dato l’ok a un eventuale assalto all’Ucraina
Secondo quanto riferisce il Sunday Times, il piano del presidente russo Vladimir Putin per prendere il controllo dell’Ucraina è già stato avviato: sarebbe l’analisi dei servizi segreti britannici. «Le nostre notizie di intelligence sono in linea con quelle degli americani. Putin ha un piano ed è in corso», ha riferito una fonte alla testata britannica. L’analisi sarebbe in linea con quella fatta nella notte dagli esperti del team per la sicurezza nazionale Usa presenti in territorio ucraino: secondo loro, la Russia sarebbe pronta a lanciare un attacco «in qualunque momento». degli Michael McFaul, ex ambasciatore Usa a Mosca ed ex consigliere per la sicurezza nazionale alla Casa Bianca, ha spiegato in un’intervista alla nostra Viviana Mazza che Mosca «può tenere le truppe per un po’, ritirarle e rimandarle… Il punto è tenere alta la pressione sull’Ucraina». L’obiettivo? «Putin vuole veder fallire la democrazia ucraina, in modo da poter dire al suo popolo e al mondo: le democrazie non funzionano, i regimi come il mio sì». Qui l’intervista completa.

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Crisi in Ucraina, Draghi e la difficile missione a Mosca

domenica, Febbraio 20th, 2022

di Marco Galluzzo

Il Cremlino, che ha chiesto l’incontro, fa leva sulla nostra dipendenza dal gas russo. Ma il premier: noi con gli alleati

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L’ufficio diplomatico di Palazzo Chigi sta aspettando una risposta dal Cremlino. È stato Vladimir Putin a chiedere un incontro a Mario Draghi, ma i suoi uffici non hanno ancora comunicato uno spazio utile nell’agenda del presidente russo. Il presidente del Consiglio potrebbe volare a Mosca già questa settimana, forse giovedì o venerdì prossimi, ma non c’è ancora alcuna certezza.

Quella che al momento appare una missione delicatissima, e ad alto rischio di fallimento, è comunque appesa agli eventi delle prossime ore e dei prossimi giorni.

Il senso della missione di Draghi al Cremlino si muove sulla falsa riga di quelle compiute nei giorni scorsi sia dal cancelliere tedesco sia dal presidente francese. Missioni che hanno mantenuto uno spiraglio aperto sul piano diplomatico, ma che non hanno prodotto frutti capaci di arrestare l’escalation in atto. Anche il presidente ucraino Zelensky ha chiesto a Draghi di perorare la causa di un suo faccia a faccia con Putin, una richiesta che finora il presidente russo ha sempre rifiutato. Se il capo del governo italiano riuscisse a fare sedere attorno allo stesso tavolo i due rivali la sua missione sarebbe solo per questo un successo.

In ogni caso il nostro presidente del Consiglio affronterà nella missione alcune specificità italiane, che indubbiamente la rendono ancora più delicata rispetto ad altre. La nostra dipendenza dal gas russo, molto maggiore che per altri Paesi della Ue, è un dato su cui lo stesso Putin ha fatto leva a telefono con il nostro premier, mentre il ministro degli Esteri Sergej Lavrov ha esplicitamente corteggiato l’Italia, affermando che basterebbe un Paese del fronte Nato che si opponesse per vanificare le sanzioni. Draghi è già intervenuto su entrambi i temi: sul primo punto ha detto in modo chiaro che gli interessi italiani sulle sanzioni possono divergere da quelli degli alleati, e che le sanzioni non dovrebbero includere il tema dell’energia, mentre sul secondo punto ha respinto qualsiasi lusinga proveniente da Mosca: «L’unità del fronte occidentale non è in discussione e nessuno se l’aspettava», ha rimarcato.

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La nuova fase “d.C.”: SuperMario sul filo

sabato, Febbraio 19th, 2022

Adalberto Signore

Mario Draghi ha deciso di cambiare passo. Segnando una decisa cesura tra la fase «a.C.» e quella «d.C.» (dove la locuzione sta, ovviamente, per «avanti Colle» e «dopo Colle»). Alla pazienza degli scorsi mesi – a volte ostentata, altre esasperata – l’ex Bce ha infatti lasciato spazio a una certa insofferenza verso quei partiti della maggioranza che continuano a giocare sul doppio binario, dando il via libera a provvedimenti specifici in Consiglio dei ministri per poi bersagliarli di emendamenti in Parlamento.

Nel merito il premier ha ragione da vendere. Come pure è logico che, venuto meno il sedativo dell’elezione del nuovo capo dello Stato, tensioni e incomprensioni si muovano ora senza alcuna sordina. Eppure, l’altolà che Draghi ha voluto lanciare giovedì è stato sì fragorso, ma anche piuttosto borderline rispetto al principio della separazione dei poteri, uno dei cardini di qualsiasi Stato di diritto. Che il premier lamenti una mancanza di coerenza da parte di partiti che prima (in sede di governo) approvano dei provvedimenti e poi (in sede legislativa) ci vogliono rimettere mano è sacrosanto. Come lo è, però, l’autonomia delle Camere nell’affrontare il processo di formazione delle leggi. Quell’indipendenza, peraltro, a cui ha fatto appello neanche un mese fa Sergio Mattarella durante il suo discorso d’insediamento davanti al Parlamento in seduta comune. Insomma, che nelle commissioni di Montecitorio e Palazzo Madama si incrocino i guantoni fino a notte a colpi di emendamenti fa parte delle regole del gioco democratico e non può certo essere oggetto di censura. Soprattutto se il premier decide di esprime le sue lamentele prima al capo dello Stato e poi ai capidelegazione che, come sa bene l’ex Bce, hanno in molti casi un’autonomia limitata rispetto alle leadership dei partiti. E che, restando fedeli alla forma, altro non sono che ministri, esponenti anche loro – dunque – del potere esecutivo.

Insomma, il format scelto da Draghi per veicolare la sua legittima irritazione lascia qualche perplessità. Perché il premier ha ragione di lamentare il doppio gioco di partiti che si muovono come fossero in campagna elettorale permanente. Ma dovrebbe farlo confrontandosi con quei leader con cui fatica – non poco e da sempre – a sedersi al tavolo e trovare un punto d’incontro.

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Decreto Bollette, Draghi: “Avete visto che bravi ministri che ho? È un bellissimo Governo”

sabato, Febbraio 19th, 2022

“Avete visto che bravi ministri che ho? È un bellissimo Governo”, così il presidente del Consiglio Mario Draghi in conferenza stampa. “Il Governo e io abbiamo sempre offerto la massima disponibilità. Possiamo rivedere le modalità di confronto, ma teniamo dritta la barra del timone. Nella maggioranza – ha aggiunto – ci sono normali divergenze, ma raggiungeremo i risultati”.
A cura di Luca Pellegrini

L’HUFFPOST

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