di Sabino Cassese
I giudici hanno deciso che i
partiti, essendo associazioni regolate dal diritto civile, debbono
rispettare, nell’interesse dei propri iscritti, le norme che essi stessi
si sono date e che sono scritte nei loro statuti. I casi di M5S e Pd
In
un magistrale saggio del 1956, uno dei maestri del diritto civile
italiano, Pietro Rescigno, osservava che i partiti, «pur vivendo ai
confini del diritto privato, non vogliono lasciare gli schemi del
diritto privato» e perciò la richiesta dei partiti «si traduce in
un’esaltazione del diritto privato come ultima garanzia di libertà». A più di sessant’anni, la
persistente forza del diritto privato dei partiti è dimostrata dalle
vicende giudiziarie che coinvolgono il Movimento Cinque Stelle e il
Partito democratico, il primo dinanzi al Tribunale di Napoli, VII
sezione civile, il secondo dinanzi alla Procura della Repubblica di
Firenze e alla Corte di Cassazione, VI sezione penale.
I giudici napoletani hanno
stabilito che una modifica statutaria dell’associazione chiamata M5S,
che escludeva dal voto gli iscritti degli ultimi sei mesi, poteva essere
introdotta solo con regolamento adottato dal comitato di garanzia, su
proposta del comitato direttivo. Hanno quindi accolto, a norma del
codice civile, la richiesta di alcuni iscritti, sospendendo in via
cautelare una deliberazione dell’agosto scorso, perché violava la norma
statutaria allora vigente, e di conseguenza hanno sospeso la nomina del
presidente. Insomma, i giudici hanno
deciso che i partiti, essendo associazioni regolate dal diritto civile,
debbono rispettare, nell’interesse dei propri iscritti, le norme che
essi stessi si sono date e che sono scritte nei loro statuti.
Pare che, dopo la decisione del
Tribunale di Napoli del 3 febbraio scorso, si sia scoperta l’esistenza
di un regolamento del 2018 che avrebbe consentito l’esclusione dei nuovi
iscritti dal voto. Ma la scoperta è un’ulteriore prova della anomia del
M5S.
La vicenda fiorentina ha
caratteristiche diverse, perché riguarda i presupposti civilistici su
cui si innesta una norma penalistica. La
Procura della Repubblica di Firenze ha ritenuto che il divieto di
finanziamento ai partiti o a loro articolazioni politico-organizzative,
regolato da leggi del 1974, 1981, 2013 e 2019, si possa applicare anche a
fondazioni non previste dallo statuto dei partiti, né istituite o
controllate dai partiti (su questa base, l’1 febbraio scorso ha chiesto
il rinvio a giudizio, tra gli altri, di persone allora esponenti del
Partito democratico e della fondazione Open). La Corte di Cassazione,
invece, in particolare con la sentenza del 15 settembre 2020 della VI
sezione penale, ha stabilito che bisogna partire dall’esame dello
statuto del partito e dei suoi regolamenti, per decidere se la
fondazione è uno strumento nelle mani di un partito e accertare se ha
una propria individualità e operatività o è un mero tramite di
finanziamento del partito.