Archive for Febbraio, 2022

“Se Mario lo vorrà, io sarò al suo fianco anche questo è un dovere della medicina”

domenica, Febbraio 13th, 2022

Grazia Longo

È un dato assodato: è corretto l’uso del barbiturico Tiopentone per il suicidio medicalmente assistito chiesto da Mario, il 44 enne tetraplegico marchigiano che ha ingaggiato una battaglia legale con l’Azienda sanitaria unica regionale (Asur) per l’applicazione della sentenza della Consulta Cappato-Dj Fabo. Ma mentre l’associazione Luca Coscioni, che assiste legalmente Mario, assicura che è questione di tempo, «dipende solo dalla sua decisione», l’Asur, che ha espresso parere favorevole al Tiopentone, non ha certezze su quello che accadrà e quando.

C’è tuttavia un importante esponente dell’Associazione Coscioni convinto che oramai ci siamo. Si tratta di Mario Riccio, il medico che, un unicum per l’Italia, aiutò Piergiorgio Welby a morire e per questo fu processato e prosciolto. È responsabile del reparto Anestesia e Rianimazione dell’ospedale di Casalmaggiore, in provincia di Cremona.

Dottore, lei ha seguito la vicenda di Mario sin dall’inizio, che cosa accadrà ora?

«Per adesso Mario non vuole parlare, siamo alla vigilia di una settimana importante perché la Corte Costituzionale si dovrà esprimere in merito al quesito del referendum sull’eutanasia. Dopo penso che Mario prenderà una decisione su quando morire. E se lo vorrà io sarò al suo fianco».

Nel senso che lo aiuterà nel cosiddetto sudicio assistito?

«Sì, se lui sceglierà me come medico di fiducia io sono disponile. Finora, mi sono occupato direttamente del caso perché sono stato nominato dai legale dell’associazione Coscioni per verificare le quattro condizioni per ottenere il suicido assistito, ovvero la presenza di un malattia irreversibile, sofferenza fisica o psicologica intollerabile, trattamento di sostegno vitale e consenso consapevole e lucido. Mario, uomo di straordinaria ricchezza interiore e ironia, si trova in questo stato e quindi ha diritto di voler morire».

In assenza di una legge, questo diritto è sancito dalla sentenza 242 del 2019 della Corte Costituzionale. Perché lei, come medico, lo ritiene così indispensabile?

«Secondo la mia deontologia personale, che è diversa da quella generale, è un nuovo dovere morale portare alla morte un paziente che lo chiede perché le sue condizioni di malato di fatto sono state create dalla moderna medicina. Nel senso che con le cure attuali è possibile non solo curare di più ma anche tenere in vita più a lungo un malato, che però di fatto non guarirà e anzi soffrirà molto. Un tempo non esistevano cure e macchinari che potessero prolungare così a lungo la vita di un paziente. È quindi è un dovere morale della medicina porre termine alla sua vita se lui lo chiede con autonomia».

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Eutanasia, perché il mio è un sì convinto

domenica, Febbraio 13th, 2022

Maurizio Costanzo

Non si può che esser contenti che si sia detto “Sì” a un farmaco fine vita per Mario che ha 43 anni e vive una lunga malattia e cerca la morte. Ha detto: «Ce l’ho fatta, sono felice, mi do ancora del tempo, ma potrò decidere io». Pensiamo a Piergiorgio Welby che da ragazzo fu colpito da una distrofia che lo immobilizzò. Sollecitò il diritto all’eutanasia e poi morì dopo che il suo medico lo sedò staccandogli la spina.

Così Giovanni Nuvoli, malato di sclerosi laterale amiotrofica. Chiese, da paralizzato, il distacco del respiratore e morì dopo uno sciopero della fame e della sete. E ancora il dj Fabo che è rimasto cieco e tetraplegico dopo un incidente e morì in Svizzera. La Cassazione sentenziò sul suo caso e aprì il diritto al suicidio anche in Italia.

Sì, io penso proprio che si debba promulgare il diritto alla eutanasia. Sono stato la prima firma al Referendum sulla eutanasia proposto da Marco Cappato per l’Associazione Coscioni.

Ma voglio raccontare una cosa personalissima che risale a quando avevo 17 anni, cioè a molti anni fa. Convinto già allora di quanto fosse necessaria l’eutanasia, scrissi un’improbabile commedia che un editore pubblicò. Si chiamava: “Ho ucciso la morte” e la scrissi sul tavolo di cucina della casa dei miei genitori. Non so perché ero così determinato, ma ho sempre pensato che, in caso di perdurante e non regredente sofferenza, si abbia il diritto di mettere fine alle proprie sofferenze.

In televisione mi occupai a lungo di Eluana Englaro, che dopo un incidente stradale, è rimasta per 17 anni in stato vegetativo. Morì a 39 anni quando la famiglia, dopo una interminabile battaglia che facemmo in televisione, ottenne l’interruzione della nutrizione artificiale.

Adesso aspettiamo gli esiti del Referendum e poi forse, finalmente, l’eutanasia ci sarà.

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Gas, ecco perché oggi costa così caro e qual è il piano del governo per abbassare il prezzo

domenica, Febbraio 13th, 2022

Alessandro Barbera

Esterno giorno numero uno, Casalborsetti, Ravenna, ieri. Legambiente e altri gruppi ambientalisti manifestano per il no alle energie fossili. Esterno giorno numero due, Kiev, Ucraina. Migliaia di persone scendono in piazza contro i carri armati russi ammassati ai confini del Paese. In mezzo a queste due scene solo apparentemente lontane c’è la risposta alla più drammatica emergenza energetica dagli anni Settanta.

Se il gas oggi costa fino a quattro volte quel che costava due anni fa, lo si deve a molte ragioni: il calo della produzione di vento nei mari del Nord, l’aumento della domanda trainata dalla ripresa mondiale, la riduzione dell’offerta alimentata dalla crisi con Mosca, che vende all’Europa il quaranta per cento di tutto il metano consumato. Nessun Paese europeo dipende dalle importazioni quanto l’Italia: su settanta miliardi di metri cubi, l’anno scorso ne abbiamo prodotti nei nostri confini 3,6 miliardi. Non è sempre andata così: fino al 1995 dai mari italiani ne arrivavano venti miliardi. Allora nessuno dava credito a ciò che nel frattempo è accaduto: il gas, la meno inquinante delle fonti tradizionali di energia, è diventato il combustibile più utile alla transizione energetica.

Fronteggiare gli aumenti dei prezzi sui mercati è impossibile per chiunque. Di più: la crisi con Mosca costringe l’Unione a darsi la zappa sui piedi, minacciando lo stop al nuovo gasdotto Nord Stream 2 che unisce la Russia all’Europa senza passare dai confini ucraini. E così il governo Draghi, fra i molti palliativi all’aumento dei costi, ora vuole tornare all’antico, raddoppiando la produzione nazionale di gas ad almeno otto miliardi di metri cubi l’anno. A farsi carico dell’inevitabile è Roberto Cingolani, il ministro voluto e disconosciuto dal mondo Cinque Stelle. Fra i malumori ambientalisti, lo scorso settembre ha imposto ai suoi tecnici l’aggiornamento di un piano sconosciuto ai più: si chiama Piano per la transizione energetica sostenibile delle aree idonee (Pitesai). Dietro l’orribile acronimo e fra 213 pagine di tecnicismi c’è la fotografia di ciò che si può fare o non fare nei mari italiani. L’operazione non è semplice né rapida, ma se avviata può contribuire a far scendere in maniera stabile i prezzi.

Oggi i giacimenti di gas sono concentrati lungo i mari territoriali fra il Veneto e l’Abruzzo. Qualche trivella si scorge al largo di Gela, ma sotto i fondali dell’Alto Adriatico e nel canale di Sicilia ci sono molti giacimenti abbandonati negli ultimi vent’anni. I contatti fra il governo e l’Eni per raggiungere un accordo vanno avanti da Natale. Per raddoppiare la produzione occorrono almeno due anni, un tempo lunghissimo rispetto all’emergenza di questi giorni. Ma il piano di Draghi e Cingolani ha una possibile e rapida conseguenza: la contropartita chiesta a Eni per concedere più estrazioni è quella di calmierare il prezzo del gas nazionale. Più o meno quel che hanno fatto i governi di Parigi e Berlino con i rispettivi produttori interni.

Quando c’è di mezzo l’equilibrio fra domanda di energia e ambiente la politica è sempre timida. Il piano per la transizione energetica non veniva aggiornato dal 2019, quando il Paese era governato da Giuseppe Conte e dall’alleanza gialloverde. I Cinque Stelle sono sempre stati contrari alle trivellazioni, salvo scoprire ex post quel che sarebbe costato alle tasche degli italiani.

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L’Occidente e il gran ballo con l’orso post-sovietico

domenica, Febbraio 13th, 2022

MASSIMO GIANNINI

Pensare la guerra è disumano. Pensarla qui ed ora, in un mondo piagato da un microscopico virus che ha sbriciolato il grande sogno d’immortalità del Superuomo Tecnologico, è addirittura impossibile. E invece siamo a questo. Nel cuore ferito della modernità, proprio quando avevamo creduto che la pandemia ci avrebbe costretto a ricostruire su basi radicalmente nuove il nostro modo di stare al mondo, accade l’impensabile: tacciono i virologi, muovono gli eserciti. Secondo la Casa Bianca, c’è già scritta una data: la guerra in Ucraina scoppierà mercoledì prossimo. Secondo il Cremlino, sono solo provocazioni americane: in agenda, almeno per quel giorno, i russi non hanno segnato alcun impegno. Sembra un film dei fratelli Cohen, purtroppo non lo è.

Le schermaglie tattiche tra Washington e Mosca vanno avanti da settimane. E da settimane ci siamo quasi auto-consolati, ripetendoci che Biden e Putin sono al solito wrestling, fatto solo di esibizioni muscolari. Utili per entrambi a dissimulare le difficoltà politiche interne con le velleità egemoniche esterne. Tutto questo rimane. Ma stavolta non siamo mai arrivati così vicini alla vera guerra. I tentativi diplomatici sembrano fallire, uno dopo l’altro. La missione russa di Macron è servita a poco, se non a confermare un protagonismo francese degno di miglior sorte. La missione americana di Scholz è servita ancora meno, se non a ribadire l’indecisionismo tedesco sul fronte orientale. E la telefonata finale tra Sleepy Joe e lo Zar Vladi, a quanto pare, si è esaurita in un drammatico scambio di accuse e improperi: “Se invadete la pagherete cara”, “Siete solo isterici”. Questo è il tenore.

Più uno scontro che un confronto. Su queste basi, tutto può succedere. Anche l’irreparabile.

Perché, oggi, Russia e Occidente dovrebbero “morire per Kiev”? Che Putin sia la minaccia è chiaro. È lui che in due mesi ha spostato 130 mila soldati lungo la frontiera ucraina. È lui che da Kalingrad sul Baltico al Mar Nero ha schierato contro le forze dell’Alleanza Atlantica gli armamenti più sofisticati, dai missili ipersonici Avangard agli Iskander, dagli S-400 ai P-800. È lui che ha consentito ripetuti cyber-attacchi ai sistemi informatici e di sicurezza dei Paesi europei. Lo ha fatto quasi alla luce del sole. Perché non accetta più l’Ordine Mondiale scaturito dalla fine della Guerra Fredda. Perché coltiva il miraggio irreale e inattuale di ripristinare la “Russia Storica”. Perché non si vede riconosciuta la sua pretesa “sfera d’influenza” nello spazio post-sovietico. Perché si sente sempre più assediato ai confini, e dunque rifiuta il diritto dell’Ucraina di entrare nella Nato, come già avevano fatto Ungheria, Polonia e Repubblica Ceca nel 1999, Bulgaria, Lettonia, Lituania, Romania, Slovacchia, Slovenia ed Estonia nel 2004, Albania e Croazia nel 2009, Montenegro nel 2017 e Macedonia del Nord nel 2017. La Madre Russia attrae assai poco i suoi ex figli. Per questo soffre, strilla, fa la faccia feroce.

Ma oggi un blitz militare in Ucraina non conviene né a lui né a noi. Non parliamo di morti e feriti: è persino scontato, tanto quanto il fatto che la tragica certezza dei cosiddetti “danni collaterali” purtroppo non basta mai a dissuadere i popoli in armi. Parliamo anche solo di ricadute economiche: quella che è già stata ribattezzata “guerra del gas” porterebbe solo più guai. Gazprom controlla la quasi totalità del mercato: vende gas per 1000 miliardi di dollari alla Ue, per un quantitativo pari al 50 per cento del suo approvvigionamento totale. Nell’ultimo mese il gigante russo ha ridotto le forniture del 40 per cento, e nell’intero anno aumenterà il prezzo del 58 per cento. Per quanto squilibrato a favore del monopolista, bloccare questo interscambio avrebbe effetti devastanti. Sicuramente per l’Europa, che resterebbe al buio. Ma anche per Mosca, visto che Gazprom vedrebbe sfumare l’assegno da 7 miliardi che l’Unione gli versa ogni mese, e sarebbe costretta a intaccare le riserve da 600 miliardi di dollari detenute dalla Banca centrale russa. E parliamo anche solo di implicazioni geo-strategiche. Per l’Europa salterebbero tutti gli obiettivi del cosiddetto “triangolo di Weimer” (riunito la settimana scorsa da Macron con il cancelliere Scholz e il primo ministro polacco Duda) e del “quartetto Normandia” (ipotizzato sempre da Macron e Scholz, sul “Formato” che portò agli accordi di pace di Minsk del 2015 insieme a Putin e al presidente ucraino Zelenski). Per la Russia salterebbe qualunque possibilità di allontanare Kiev dall’Alleanza Atlantica e di costringerla, insieme alle altre repubbliche separatiste, a varare una riforma costituzionale e uno statuto autonomo. Paradossalmente, un’offensiva militare russa in Ucraina aiuterebbe la Nato e la Ue a uscire dallo stallo, ridando un senso alla prima e una missione alla seconda. La speranza è che l’Autocrate del Cremlino se ne convinca, e si fermi alla pur rovinosa strategia “ibrida” che ha adottato finora: truppe massicce ai confini, uso politico dei rubinetti del gas, attacchi informatici diffusi.

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Le nostre ipocrisie e illusioni nazionali

domenica, Febbraio 13th, 2022

di Ferruccio de Bortoli

Il Paese deve credere nell’inclusione. Non far finta, per esempio, che non esista già una classe media di immigrati. C’è ed è fortissima

A parlarne si perdono voti. E forse anche qualche amicizia. C’è un argomento che continua a costituire un inossidabile malinteso e a decretare il trionfo dell’ipocrisia nazionale: l’immigrazione. Un Paese che ha coscienza del proprio inesorabile declino demografico dovrebbe fare di tutto per attrarre immigrati, persino sceglierseli, e disciplinarne il flusso. E, soprattutto, essere una meta ambita (e lo sarebbe di conseguenza anche per gli italiani) non una terra di passaggio. Invece si rimuove il problema. O lo si solleva, in termini inutilmente difensivi per non dire peggio, solo quando compare all’orizzonte una nave carica di disperazione. Davanti al grido di un’umanità sofferente, noi quasi tutti figli di immigrati, ci dividiamo. Spesso voltiamo lo sguardo dall’altra parte. Ma l’Italia non è invasa, si sta semplicemente svuotando. Questa è l’amara verità. Sono diminuiti anche gli immigrati. Secondo l’ultimo rapporto della fondazione Ismu, gli stranieri presenti in Italia sono calati nell’ultimo anno del 2,8 per cento (5 milioni 756 mila). Stabili gli irregolari (518 mila).

In questi giorni famiglie e imprese affrontano, con crescente preoccupazione, i forti rincari dell’energia e delle materie prime. Un ostacolo alla ripresa economica, proprio ora che il virus arretra. Una minaccia al benessere familiare e alla vita di tante aziende. Ma c’è un’altra scarsità, più grave: quella di manodopera, qualificata e non. Mai stata così ampia. La differenza tra i due fenomeni è che il primo è destinato a rientrare, salvo maggiori e non indifferenti costi; il secondo assolutamente no. Almeno nel breve periodo. Anche se tornassimo d’incanto ad avere i tassi di natalità del Dopoguerra, occorrerebbero decenni. E nemmeno se alzassimo di colpo, quasi per miracolo, la qualità del nostro capitale umano che ci vede quanto a laureati agli ultimi posti in Europa. Ci vuole tempo e non ne abbiamo. La tragedia è che ci illudiamo di averlo.

Una lettura istruttiva ci viene dai dati Istat. In un Paese che invecchia, dal febbraio del 2020 ad oggi, abbiamo perduto 175 mila giovani tra i 15 e i 34 anni. Le persone occupate al di sotto dei 35 anni erano quasi 7 milioni nel 2008, allo scoppio della crisi finanziaria, nel dicembre 2021 sono poco più di 5 milioni. Abbiamo più anziani. E meno giovani, molti dei quali non trovano lavoro o hanno occupazioni precarie, pagate scandalosamente poco, mentre i più qualificati, quando non vanno all’estero, sono sommersi dalle offerte. Scelgono, non vengono scelti. Non era mai accaduto. Poi ci sono tanti lavori che gli italiani non vogliono assolutamente fare, quelli di molti loro padri o nonni migranti. Il presidente di Confindustria, Carlo Bonomi, intervistato ieri sul Corriere da Federico Fubini, ricordava che lavora soltanto il 37 per cento dei nostri connazionali. Aggiungiamo noi, il 59 per cento tra i 15 e i 64 anni. Il lavoro non manca, volendolo, manca qualche volta la voglia di farlo.

Nell’ultimo bollettino di Unioncamere e Anpal le assunzioni a gennaio sono state 458 mila e si stima arriveranno a 1,2 milioni nel primo trimestre dell’anno. Molti (troppi) di questi contratti sono a tempo determinato. Ma le aziende non riescono a trovare il 38 per cento dei profili di cui hanno bisogno, soprattutto nelle costruzioni (58 per cento). Non ci sono tecnici informatici, attrezzisti, operai, artigiani, specie del legno, fonditori, saldatori. La richiesta di lavoratori immigrati è cresciuta del 59 per cento, largamente oltre gli ingressi programmati e quindi non trova soddisfazione. Ma ogni decreto flussi, che disciplina l’arrivo di lavoratori da altri Paesi, è visto come un cedimento controvoglia alla realtà, deciso nottetempo, di cui meglio non parlare. Quasi ci si vergogna.

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Ucraina-Russia, le ultime notizie in diretta

domenica, Febbraio 13th, 2022

La crisi tra Russia e Ucraina si intensifica. Le mosse di Putin e Zelenski, la diplomazia di Biden e dell’Ue. Le ultime notizie in aggiornamento

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Gli Stati Uniti non vedono un cambio fondamentale di scenario in Ucraina dopo la telefonata tra Joe Biden e Vladimir Putin di ieri. Gli Usa «restano impegnati alla diplomazia ma sono pronti, con alleati e partner, anche ad altri scenari», fa sapere la Casa Bianca. Il ministro degli Affari Esteri Lavrov ha «negato che la Russia abbia intenzione di procedere a un’invasione imminente», riferisce la Cnn. Dopo il colloquio tra i due leader, il consigliere per la politica estera del Cremlino, Yury Ushakov, ha parlato di «picco di isteria» americana.

8.48 – Russia, visita di Bolsonaro in piena crisi: «Spero pace per tutti»
Nella settimana in cui l’Occidente ritiene che Mosca possa aggredire l’Ucraina, è prevista la visita in Russia del presidente brasiliano Jair Bolsonaro per discutere i legami economici tra i due Paesi. «Il Brasile dipende in modo significativo dai fertilizzanti di Russia e Bielorussia», ha spiegato Bolsonaro in un video pubblicato sui social. Bolsonaro sarà a Mosca «con un gruppo di ministri» dal 15 al 17 febbraio «per discutere anche di altre questioni», ha spiegato il presidente brasiliano. «Il nostro Paese è interessato alla cooperazione nell’energia, nella difesa e nell’agricoltura», ha aggiunto il presidente brasiliano, esprimendo l’auspicio che «nel mondo venga stabilita la pace per tutti». Bolsonaro, riporta il quotidiano brasiliano O Globo, avrà un incontro bilaterale con il presidente russo Vladimir Putin il 16 febbraio e dovrebbe avere inoltre un colloquio con il presidente della Duma, Vyacheslav Volodin. Il presidente brasiliano sarà accompagnato, tra gli altri, dai ministri di Esteri e Difesa, che incontreranno i loro omologhi russi in un formato «due più due», ha spiegato la portavoce del ministero degli Esteri russo Maria Zakharova.

8.34 – Ministro della Difesa britannico: invasione russa è «altamente probabile»
Un’invasione russa ai danni dell’Ucraina è «altamente probabile» e Mosca «potrebbe lanciare un’offensiva in qualsiasi momento». Lo ha dichiarato il ministro della Difesa britannico, Ben Wallace, in un’intervista al Sunday Times. Parlando della crisi ucraina, Wallace ha fatto un apparente riferimento alla Conferenza di Monaco del 1938, che consentì alla Germania nazista di annettere i territori dei sudeti in Repubblica Ceca ma non riuscì a impedire la guerra. «Potrebbe accadere che il presidente russo Vladimir Putin semplicemente spenga i suoi carri armati e si vada tutti a casa ma c’è una ventata di Monaco nell’aria da parte di qualcuno in Occidente», ha dichiarato Wallace. Il ministro non ha specificato cosa intenda ma la dichiarazione sembrerebbe alludere all’approccio meno intransigente mostrato da alcuni Paesi dell’Unione Europea nei confronti di Mosca rispetto alla linea più dura di Washington e Londra.

8.14 – Blinken: Un nucleo dell’ambasciata rimarrà in Ucraina
Un nucleo del personale dell’ambasciata Usa resterà in Ucraina nonostante l’evacuazione della maggior parte degli addetti. Lo ha chiarito il segretario di Stato Usa, Antony Blinken, in conferenza stampa a Honolulu dopo un vertice trilaterale con i colleghi di Giappone e Corea del Sud, secondo quanto riporta l’agenzia Tass. «Ieri abbiamo ordinato la partenza della maggior parte degli americani ancora presenti all’ambasciata di Kiev», ha affermato Blinken, «il rischio di un’azione militare russa è abbastanza alto e la minaccia è abbastanza imminente da rendere prudente agire così». «Un nucleo del personale rimarrà in Ucraina con i nostri colleghi ucraini mentre continuiamo a lavorare senza fermarci per risolvere questa crisi attraverso la dissuasione e la diplomazia», ha aggiunto Blinken.

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Boss e pusher, chi ha frodato più di 4 miliardi del Superbonus

domenica, Febbraio 13th, 2022

di Fiorenza Sarzanini

Boss e pusher, chi ha frodato più di 4 miliardi del Superbonus

Il caso più eclatante è quello di G. C. M., 37 anni, ospite di una comunità per tossicodipendenti. Non ha un lavoro, non ha alcun bene intestato, non ha mai presentato la dichiarazione dei redditi. Eppure nel 2021 «ha aperto una partita Iva come procacciatore d’affari e ha tentato di cedere a un intermediario finanziario oltre 400 mila euro di crediti fittizi, poi venduti a una società di costruzioni». I soldi sono stati incassati e trasferiti su un conto corrente sloveno. «Cessione del credito», è questa la formula magica che ha consentito alle organizzazioni criminali e ai loro boss, ma anche a delinquenti comuni, colletti bianchi, commercialisti e avvocati, di far sparire finora dalle casse dello Stato quattro miliardi e 400 milioni di euro. E potrebbe non essere finita perché al 31 dicembre — come confermato dal direttore dell’Agenzia delle Entrate Ernesto Maria Ruffini — «le cessioni comunicate attraverso la piattaforma telematica sono state pari a 4,8 milioni per un controvalore di 38,4 miliardi».

Il depliant di Poste con le istruzioni

Il sistema ha sfruttato la norma del decreto rilancio che nel 2020 non ha posto alcun limite alla possibilità di cedere i bonus edilizi. E così è bastato falsificare le pratiche, oppure sfruttare «prestanome» — come è appunto il pusher individuato dall’Agenzia delle Entrate — per ottenere le somme rivolgendosi a Poste italiane e a svariati istituti di credito. La procedura era sin troppo semplice, come conferma il depliant di Poste Italiane citato due giorni fa dal presidente del Consiglio Mario Draghi che nelle istruzioni sottolinea: «La procedura è semplice e immediata, non è necessario fornire alcuna documentazione a supporto della richiesta. Effettuata la richiesta di cessione del credito a Poste Italiane, affinché questa vada a buon fine è necessario comunicarlo ad Agenzia delle Entrate. In caso di esito positivo, il prezzo della cessione verrà accreditato direttamente sul tuo Conto Corrente BancoPosta». Detto fatto, nessun controllo preventivo è stato effettuato e migliaia di persone hanno ottenuto l’accredito.

«Ho le credenziali, possiamo divertirci»

Il 31 gennaio scorso la guardia di Finanza arresta i componenti di un’organizzazione che partendo da Rimini si è mossa in tutta Italia e grazie alla falsificazione dei vari bonus edilizi ha frodato quasi 300 milioni di euro. Creavano false società, fingevano di effettuare lavori e invece si limitavano a passare all’incasso sulla piattaforma dell’Agenzia delle Entrate accedendo ai cassetti fiscali. Hanno acquistato lingotti d’oro e criptovalute, hanno spostato soldi a Cipro, Malta e Madeira. Le conversazioni intercettate per ordine dei magistrati hanno svelato il sistema utilizzato. I «cash dog» hanno consentito di trovare contanti e gioielli occultati in botole e intercapedini. Casa e ristrutturazioni

«Lo Stato Italiano è pazzesco», esultano gli indagati mentre si accordano sui bonus da prendere. E poi l’imprenditore chiarisce ai complici: «Ne ho già 16 sui due cassetti. Nostri, non dipendono da nessuno, sono i miei, non devo chiedere il favore a nessuno di venderli, di accreditare, di fare. Li ho generati, poi ti spiego come ho fatto… come abbiamo fatto con il commercialista, sono stato quattro mesi dietro e ce l’ho fatta». E ancora: «Bisogna stare attenti, bisogna avere persone fidate, persone anziane…». Prestanome che in pochi mesi hanno consentito alla banda di comprare ristoranti, appartamenti, quote di altre società.

L’annuncio su Facebook del finto consorzio

Un consorzio di 21 imprese che ha un solo dipendente: parte da qui l’inchiesta della procura di Napoli su una truffa da 100 milioni di euro. Il resto lo fanno le denunce dei cittadini che raccontano di aver risposto a un annuncio pubblicato su Facebook di una ditta che offriva prezzi vantaggiosi e procedure semplificate per ristrutturare palazzi e villini.

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Giorgetti: «Stiamo drogando l’edilizia. Invece dobbiamo sostenere le nostre filiere industriali»

domenica, Febbraio 13th, 2022

di Federico Fubini

Giorgetti: «Stiamo drogando l'edilizia. Invece dobbiamo sostenere le nostre filiere industriali»

Il ministro dello Sviluppo economico Giancarlo Giorgetti

«Restiamo oggettivi», dice Giancarlo Giorgetti dalla quarantena dove aspetta di tornare negativo. Bisogna esserlo anche rispetto a una situazione che sfugge allo sguardo della politica: la trasformazione energetica, tecnologica e industriale rischia di aprire ferite sociali («milioni di disoccupati», dice lui) e generare contraccolpi nelle urne. Anche per questo — dice il ministro dello Sviluppo — della cronaca «è meglio non parlare, perché non cambierebbe molto: c’è stato un clima di sospensione durato fino al voto per il Quirinale, quindi i partiti saranno proiettati sempre di più verso il traguardo delle elezioni. Il governo deve lavorare nel modo più efficace possibile in questo quadro».

Ministro, Mario Draghi è duro sulle frodi attorno ai bonus edilizi. Concorda?
«Sì, del Superbonus bisogna parlare perché da più parti si chiede che torni la politica industriale in Italia».

Che c’entra con il Superbonus?
«C’entra, perché in legge di Bilancio il governo aveva cercato di limitarlo, poi il Parlamento ha deciso di allargare le maglie, anche troppo. Ora costerà moltissimo. Stiamo mettendo un sacco di soldi sull’edilizia che, per carità, può aver avuto senso sostenere nella fase più dura della pandemia e di certo contribuisce chiaramente alla crescita. Ma ora droghiamo un settore in cui l’offerta di imprese e manodopera è limitata. Stiamo facendo salire i prezzi e contribuiamo all’inflazione».

Sussidiare l’edilizia non spinge molto la produttività. Non era meglio pensare all’industria?
«Chiediamoci cosa può fare lo Stato di fronte alla rivoluzione digitale e energetica o allo choc che investe l’automotive, che deve uscire dai modelli endotermici tradizionali. Invece diamo soldi ai miliardari per ristrutturare le loro quinte case delle vacanze. Ride tutto il mondo. Intanto rischiamo che dilaghi la disoccupazione nell’industria spiazzata dall’imposizione del passaggio all’auto elettrica entro il 2035. Se ci sono decine di miliardi per ridisegnare le filiere industriali, bene. Ma in caso contrario, che stiamo facendo? Droghiamo certi settori e ne lasciamo a languire altri, quelli strategici per l’Italia».

Carlos Tavares di Stellantis dice che il passaggio all’elettrico è una scelta politica e avrà costi sociali. Volkswagen ci investe 86 miliardi. Lei con chi sta?
«La penso come Tavares. Va abbattuta la Co2, sì. Ma manca una valutazione industriale, sulla sovranità tecnologica e l’autonomia strategica dell’Europa. In tutta questa febbre per l’auto elettrica, chi fornisce le materie prime è la Cina. È lì il controllo di gran parte del litio, cobalto, silicio. Significa mettere il primo settore manifatturiero d’Europa in mano ad altri, lontano da noi. Possibile che nessuno ci pensi?».

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La rivoluzione di Grillo è finita in un condom

sabato, Febbraio 12th, 2022

di Pietro Salvatori

“Va tutto bene, mi usano un po’ come condom per la protezione del Movimento, capisci?”, dice oggi Beppe Grillo, l’uomo che ha spaccato in due la politica italiana senza bene sapersene che fare e oggi per sua stessa ammissione costretto a fare da scudo di protezione in lattice alle esimie teste che hanno spappolato il Movimento 5 stelle.

Dall’opera di distruzione della casta all’operetta è un attimo che dura una decina di anni, il visionario fondatore mestamente passato dall’immaginare il futuro con piste da sci sopra i termovalorizzatori per coniugare ecologia (transizione ecologica all’epoca non si portava) al curatore fallimentare di una guerra di carte bollate che servirebbe un manuale di diritto amministrativo o di autodistruzione-in-5-semplici-mosse per raccapezzarci qualcosa.

Il senso della fine d’altronde Beppe lo ha avuto fin dalle origini, a insistere più e più volte sul Movimento biodegradabile, sul scusateci, rivoluzioniamo tutto e poi ce ne andiamo. Ma una cosa l’ha avuta sempre chiara: “Non siamo un partito, se non cambiamo meglio scordarci le politiche”. Era il marzo di dieci anni fa, le politiche quelle che cambiarono il panorama politico italiano, quasi duecento grillini a imperversare in Parlamento. Nel mondo alla rovescia di oggi le politiche il M5s se le scorda se non riuscirà a trasformarsi effettivamente nella sua nemesi, quel partito con statuti e organismi a prova di tribunali, che riesca a raggranellare fondi dal 2×1000, che si acconci sulla prospettiva di una legge elettorale decente che con qualcuno bisognerà pur arrivare a governare.

Il fondatore non è mai stato tipo da seguire il day-by-day della sua creatura, ma la visione quella sì, il disegno grande pure, le parole d’ordine anche. Insomma, senza il discutibilissimo armamentario che l’ha reso attrattivo per milioni di cittadini, senza la speranza e la promessa di cambiare tutto, di rovesciare il tavolo, i 5 stelle non sarebbero mai usciti dal meetup. C’era Casaleggio, dicono, il padre, Gianroberto, lui sì che era un visionario, non come il figlio , archivista dell’eredità e poco più, sbattuto fuori dalla porta appena ha pensato che magari poteva far politica. Ed è vero, ma da solo non sarebbe bastato, senza quel megafono dal carattere irascibile e incostante ma dal carisma magnetico e dall’indubbia capacità comunicativa.

C’era “Gaia”, lo spernacchiatissimo video made in Casaleggio che prediceva un futuro distopico, c’era l’afflato di mettere in piedi una cosa mai vista, l’idea pian piano maturata di entrare a Palazzo magari per non distruggerlo, ma almeno per riverniciare la facciata sì. Eccolo qui a un mese dall’ingresso in Parlamento, primavera 2013: “Abbiamo solo affrettato i tempi. La rete non dà spazio alle intermediazioni, via i politici che sono intermediari, via i giornali, si bypassano le televisioni. Siamo una realtà di internet ed internet è il mondo. Io voglio che l’Italia diventi una comunità”. Una comunità non lo è diventato nemmeno il suo partito, che dopo anni di faide di lotte e di principi draconiani spazzati via nel nome del potere si vede smunto nei consensi e del tutto privo di una visione del futuro.

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“Lo escludo”: la fase tre di Draghi fatta di disincanto e distacco

sabato, Febbraio 12th, 2022

di Alessandro De Angelis

“Lo escludo”, ripetuto due volte, e peccato che la scrittura non renda il tono della voce. Proviamo con gli aggettivi: fermo, un po’ più alto, forse ruvido, sia pur nell’eleganza dell’eloquio. Ed è chiaro, prevedibile, quasi scontato che Mario Draghi “escluda” discese in campo, finito il suo mandato, col centro, con la destra, con la sinistra, a capo di geometrie variabili del “Draghi dopo Draghi” o altre amenità di cui si nutre il chiacchiericcio politico nostrano. Però c’è qualcosa di più, nel rifiuto, plasticamente rivelato nella frase successiva, particolarmente dura e felice: “Vedo che tanti politici mi candidano in tanti posti in giro per il mondo, con sollecitudine, vorrei rassicurarli che, se volessi lavorare dopo questa esperienza, il lavoro me lo trovo da solo”.

Il modo, direbbe il poeta, ancor l’offende. È la rappresentazione plastica di un trauma, il Quirinale, non del tutto assorbito, e di una sua faticosa metabolizzazione, fatta di fastidio e di distanza da rivendicare, per quel che è stato ed è: la politica, anzi i “politici”, con i loro conti, il problema del consenso e del piacere, e un’ostilità manifestatasi oltre ogni livello di prevedibilità. E, al tempo stesso, dello sforzo di riprendere l’approccio precedente, con ritrovato distacco ma anche rigetto verso un mondo da cui si è sentito rigettato. Il ruolo della migliore riserva della Repubblica, chiamata a guidare l’Italia per portarla fuori dalla pandemia, ieri, e a riscostruirla oggi, in un contesto di cui elenca le “sfide” da far tremare le vene ai polsi, elencate con realismo, consapevolezza e chiarezza di vedute: l’energia, l’inflazione “che sta aggredendo il potere di acquisto dei salari”, il Pnrr da completare di cui cita un eccellete stato di avanzamento, cui si aggiunge il “rischio” di tensioni internazionali in Ucraina, col Mediterraneo come convitato di pietra.

“Il dovere del governo è proseguire su questa strada chiedendosi cosa è importante per gli italiani”, punto, dice il premier alla sua prima conferenza stampa dopo il Colle. E dopo che, nell’ultima, antecedente ad essa, aveva evitato di pronunciarsi sulla durata e sul destino del governo. È la fotografia di una “terza fase” di Draghi, animato dalla volontà di tornare a “fare Draghi”, in un contesto però segnato dalla fine dell’incanto oggettivo e dal disincanto personale che sconfina nella delusione. La terza, dopo quella dell’uomo della necessità vissuto dall’opinione pubblica quasi come uomo della provvidenza, subìto da un sistema politico collassato, ma in quanto collassato, strutturalmente impossibilitato a contrastarlo di fronte un’emergenza oggettiva. E dopo quella del Quirinale, la seconda, segnata dal dominio della mediazione politica sul governo, come conseguenza di un’autocandidatura che a quel sistema collassato ha ridato potere negoziale e protagonismo.

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