Archive for Giugno, 2022

G7, spiragli sul tetto ai prezzi (ma solamente per il petrolio). “Stop alla dipendenza russa”

lunedì, Giugno 27th, 2022

Francesco Giubilei

La risposta alla Russia in campo energetico continua a dividere i grandi del pianeta e, dopo il nulla di fatto sul tetto al prezzo del gas la scorsa settimana al Consiglio europeo, il tema arriva sul tavolo del G7 al castello di Elmau in Germania.

Sebbene la guerra in Ucraina sia l’argomento principale del vertice e l’Unità tra i paesi del G7 contro le azioni del Cremlino non sia in discussione, quando si affronta la questione del gas e del petrolio, lo scenario cambia nonostante gli sforzi di giungere a una soluzione condivisa. Sia il presidente americano Joe Biden sia il padrone di casa, il cancelliere tedesco Scholz, hanno espresso un messaggio di unità: «Noi dobbiamo restare insieme, nel G7 e nella Nato. Putin spera che qualcuno nel G7 e nella Nato si divida, ma non è affatto accaduto e non accadrà».

L’amministrazione americana, a quanto si apprende da fonti qualificate, avrebbe interesse a un tetto sul prezzo del petrolio che difficilmente potrà però essere scisso da una misura analoga sul gas. Nella giornata di domenica, l’argomento sembra essere stato trattato solo in modo marginale proprio per non acuire le divisioni mentre le rispettive delegazioni sono al lavoro per trovare un punto di incontro.

La posizione italiana, espressa dal premier Mario Draghi, è chiara: «Mettere un tetto al prezzo dei combustibili fossili importati dalla Russia ha un obiettivo geopolitico oltre che economico e sociale. Dobbiamo ridurre i nostri finanziamenti alla Russia. E dobbiamo eliminare una delle principali cause dell’inflazione».

Draghi, a margine del G7, ha anche sintetizzato la linea da seguire in ambito energetico per l’Italia: «Mitigare l’impatto dell’aumento dei prezzi dell’energia, compensare le famiglie e le imprese in difficoltà, tassare le aziende che fanno profitti straordinari». Per poi aggiungere la necessità di investimenti sull’idrogeno e le infrastrutture per il gas, precisando: «Anche quando i prezzi dell’energia scenderanno, non è pensabile tornare ad avere la stessa dipendenza della Russia che avevamo. Dobbiamo eliminare per sempre la nostra dipendenza della Russia. E la crisi energetica non deve produrre un ritorno del populismo».

Simile la posizione francese sul price cap del petrolio con Parigi favorevole a un «prezzo massimo» a livello di «Paesi produttori». La novità che emerge dal summit di Elmau è invece l’apertura tedesca all’idea di un price cap al petrolio russo, Berlino vuole però rassicurazioni su come attuarlo e su come funzionerebbe. Le modalità le ha sintetizzate il presidente del Consiglio europeo Charles Michel spiegando che si potrebbero usare come leva «i servizi relativi al petrolio, come trasporto e assicurazioni», settori in cui l’Ue, il Regno Unito e gli Stati Uniti hanno una posizione preminente. Se venisse intrapresa questa strada, potrebbe essere particolarmente insidiosa per la Russia poiché le compagnie occidentali non sono facili da sostituire con le controparti cinesi o indiane. In parole povere si tratterebbe di concedere servizi assicurativi alle petroliere che trasportano il petrolio russo solo a patto che sia applicato un tetto al prezzo dello stesso.

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Camera, sgambetto di Di Maio a Conte: l’ufficio di presidenza è in mano a Luigi

lunedì, Giugno 27th, 2022

Pasquale Napolitano

Luigi di Maio si porta nel nuovo gruppo (Insieme per il Futuro) tutto l’ufficio di presidenza in quota 5stelle alla Camera dei Deputati. I contiani ne escono praticamente decimati, mantenendo solo due poltrone su sei. Con Di Maio passano il questore Francesco D’Uva e tre segretari d’Aula: Luigi Iovino, Alessandro Amitrano e Tiziana Daga. Con l’avvocato di Volturara Appula restano in due: la vicepresidente Maria Edera Spadoni e Azzurra Cancelleri. La conquista dei dimaiani dell’ufficio di presidenza è un punto importante in favore degli scissionisti. Con le caselle nell’organo di vertice della Camera il gruppo Ipf controlla maggior fondi e poltrone per staff e comunicazione. Nel frattempo il Movimento avrebbe intimato ai «traditori» dimaiani di mollare gli uffici assegnati al M5S a Montecitorio. La guerra tra Conte e Di Maio è ormai senza esclusione di colpi. Ieri sera, a sorpresa, Conte ha convocato un Consiglio nazionale al quale si è collegato (via zoom) anche Beppe Grillo. Ed è stato proprio il comico genovese a offrire, da uomo di spettacolo, un colpo di scena. Dopo una battuta delle sue («Ho aderito a una religione nuova: l’altrovismo») ha mostrato una inedita apertura verso la deroga per il limite del doppio mandato. Conte, invece, ha annunciato la creazione di organi e gruppi territoriali, ovvero la trasformazione del movimento in un vero e proprio partito.

Dall’altra parte, invece, al momento si punta sulla campagna acquisti per incrementare il numero dei rappresentanti. In Campania, ad esempio, sono tre i consiglieri regionali che nelle prossime ore annunceranno l’adesione al movimento Insieme per il Futuro: Valeria Ciarambino, capogruppo M5s in Regione Campania, Salvatore Aversano e Luigi Cirillo. In tre restano con Conte: Gennaro Saiello, Vincenzo Ciampi e Michele Cammarano. Di Maio puntava al quarto consigliere: Gennaro Saiello è stato in bilico fino alla fine. Poi ha scelto Conte. Via libera al gruppo Ipf nel consiglio comunale di Napoli: Gennaro Demetrio Paipais, Fiorella Saggese e Flavia Sorrentino hanno ufficializzato la loro scelta costituendo un nuovo gruppo consiliare a Napoli. Una decisione già nell’aria da qualche giorno.

Nel progetto dimaiano il sogno è quello di arruolare il sindaco Gaetano Manfredi. Colpo grosso per il ministro degli Esteri in Abruzzo con l’adesione (l’annuncio è atteso nelle prossime ore) del capogruppo in Regione Sara Marcozzi. Inutile il pressing di Conte e Casalino.

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Salgono i contagi Covid e i ricoveri, mascherine sul posto di lavoro: ecco fino a quando e le nuove regole

lunedì, Giugno 27th, 2022

Paolo Russo

ROMA. La crescita dei contagi non vuol saperne di rallentare e ora anche i ricoveri sembrano aver imboccato una salita più ripida. Così con questo quadro epidemiologico difficilmente il 1° luglio nei luoghi di lavoro privati vedremo i lavoratori riporre in tasca l’amata-odiata mascherina. Anzi, quasi sicuramente non saranno nemmeno più liberi di scegliere se indossare le meno ostiche chirurgiche, perché l’obbligo dovrebbe restare e riguardare le più protettive Ffp2, che con il caldo diventano però più dure da indossare per un intero turno di lavoro. Anche se a doverle tenere davanti a naso e bocca non saranno indistintamente tutti i lavoratori e gli esercenti di negozi, bar e ristoranti, ma soltanto coloro che nello svolgere la loro attività non riescano a mantenere la distanza di sicurezza. Oggi fissata a un metro, ma che con il ritorno di sempre più lavoratori all’attività in presenza potrebbe essere portata a due metri. Questo perché Omicron contagia non solo con il droplet, le goccioline che emettiamo da naso e bocca tossendo, starnutendo o magari solo parlando, ma anche attraverso l’aerosol, ossia le minuscole particelle che restano per molto tempo nell’aria con il semplice respirare. L’obbligo resterebbe anche per coloro che lavorano a diretto contatto con il pubblico, come baristi, camerieri, sportellisti senza protezione in vetro o plexiglas, ma anche i cuochi o chi comunque maneggi cibo e quant’altro entri poi a diretto contatto con clienti e utenti.

La decisione dovrebbe essere presa già oggi, quando i rappresentanti di imprese, sindacati e governo torneranno a riunirsi per decidere come aggiornare i protocolli di sicurezza nei luoghi di lavoro privati, in scadenza il prossimo 30 giugno. Mentre nel settore pubblico fa sempre fede la circolare Brunetta di due mesi fa, che per i travet ha già trasformato l’obbligo in raccomandazione. Anche se da quel che risulta in molti ministeri, enti locali e aziende pubbliche i capi ufficio hanno continuato a chiedere agli impiegati di indossare gli strumenti di protezione. Un modo anche per proteggersi da sgradite ed esose richieste di risarcimento, visto che l’Inail già da tempo ha equiparato il contagio da Covid a infortunio sul lavoro. E lo stesso spauracchio induce alla prudenza i datori di lavoro privati, mentre i sindacati all’ultimo incontro della scorsa settimana sono apparsi divisi, con la Cgil favorevole alla linea dell’auto-responsabilizzazione e le altre sigle per mantenere invece un atteggiamento di maggior prudenza. Certo, anche senza obbligo i datori di lavoro potrebbe chiedere ai propri dipendenti di indossarla, ma senza il «cappello» del protocollo sottoscritto con il governo poco potrebbero davanti a un rifiuto. Anche perché la multa da 400 a mille euro è andata in pensione dal 1° maggio, allo scadere del precedente decreto sulle misure anti-Covid.

Che si vada verso una conferma delle Ffp2 nei luoghi di lavoro del settore privato lo confermano poi i numeri di ieri, con 48.456 contagi contro i 56.386 di sabato, ma rilevati con molti meno tamponi, tanto che il tasso di positività si è impennato di un nuovo 3,4% portandosi così al 25,3%, che è come dire un positivo ogni 4 test eseguiti. E che la curva dei contagi continui a salire lo conferma il confronto con i numeri di una settimana fa, quando di casi se ne erano contati ben 18mila in meno.

A decidere che estate passeremo è però soprattutto la curva dei ricoveri. Che sale in particolare nei reparti di medicina, dove in 10 giorni hanno finito per essere occupati da pazienti Covid 1.229 letti in più. Un aumento del 28,5% che al momento non desta preoccupazione, visto che ieri il tasso di occupazione dei letti era all’8,6%, ben distante dalla prima soglia d’allarme che è del 15%. Già superata però da tre Regioni: Calabria (con il 16,5%), Sicilia (19,5) e Umbria (19,3).

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La Nato sul fronte africano

lunedì, Giugno 27th, 2022

Domenico Quirico

Dopo il vertice Nato di Madrid preparatevi ad un altro scossone. È arrivato il momento: di far posto sui pennoni di palazzi pubblici, scuole e municipi in modo permanente a una terza bandiera, accanto a quelle nazionali e della Unione europea. Si alzi il vessillo azzurro con il simbolo della Alleanza atlantica. La guerra va avanti, si annuncia dappertutto, butta la fiaccola in tutti li angoli del mondo. Chi esita appare nudo e chi si fa domande rischia di dibattersi nel vuoto. Ci occorre una Alleanza potente, eserciti con il fucile sempre alla mano, ci occorre una bandiera di battaglia. Da domani l’avremo.

Nel comando Nato di Bruxelles dove si ripassano i piani per i casi più estremi e imprevedibili, cuori e spiriti sono tesi come per i grandi momenti delle scelte e del destino. Si attende la manifestazione parusiaca della nuova dottrina. Burocrati della Sicurezza continentale in alta uniforme che gestivano finora l’affaruccio, seppure miliardario, di Grandi Manovre che sui giornali non avevano la degnazione neppure di una breve, pregustano rinnovati giorni di gloria. Si sbarca in Africa! Nel Pacifico! Ci difendiamo ovunque!

La Nato era appena uscita da una colossale batosta, l’Afghanistan dove gli strateghi vennero, videro e se la diedero a gambe Si dubitava di sé, si mugugnava. Ora grazie a Putin tutto finisce in archivio. Si rimarcia, si brandisce, soprattutto si spende. Ritornano le guerre quelle vere dalle savane all’Artico e i politicanti gli assuefatti al soffice e vischioso letargo della malattia della pace questa volta non protestano. Anzi affidano ai generali candidamente il compito di rinnovare la faccia della terra.

Con il debutto del «nuovo concetto strategico» annunciato da Madrid urbi et orbi la sovrapposizione della Nato sull’Unione europea, delineatasi per necessità e paura dopo il 24 febbraio, diventerà perfetta. I ventun paesi dell’Unione che sono anche componenti dell’accordo militare transatlantico, che gli Stati Uniti tengono saldamente in pugno per la semplice ragione che in un patto militare comanda chi dispone del martello più grande, si legano mani e piedi a combattere i nuovi bersagli americani dell’era post Ucraina. Non più il contenimento della Russia, dunque, che rientrava negli scopi dei fondatori nel secolo scorso. Ormai i nemici potenziali sono ovunque, la Cina con i suoi due milioni di soldati, e il Pacifico debuttano per la prima volta. Dove Washington ha già annunciato che interverrà se Pechino da in scalmane. E quello che i generali chiamano già il fronte meridionale ovvero l’Africa e soprattutto il Sahel.

Sulla rivista Grand Continent il ministro degli esteri spagnolo José Manuel Albares ha appena pubblicato un manifesto programmatico della nuova Nato che verrà. Lettura illuminante, per certi aspetti stupefacente nella sua sincerità. La capitale dell’Europa, come già si era intuito nei quattro mesi della guerra in ucraina, si trasferisce di fatto: addio Bruxelles, dove si parlerà di soldi, di finanziamenti, di inflazione. Dove si comanda e si prendono le decisioni militari a cui bisognerà guardare per spiare il futuro sarà Ramstein, la base militare americana in Germania.

Finora erano i singoli Paesi europei che decidevano il loro ruolo di alleati Nato e nel caso i limiti del loro impegno. Fino a che si trattava di manovre innocue tutti erano disposti a farsi affatturare da Stoltenberg e da Washington, che pagava per di più gran parte della fattura. Ora è l’Unione stessa, nel complesso, con il suo pigmeismo militare, che si mette sotto la bandiera Nato, accetta di condividerne, per paura e necessità di sicurezza, scopi, obiettivi, e soprattutto operazioni militari. Perché la Nato non organizza vertici e dibattiti diplomatici. Pianifica e conduce guerre. Non obbligatoriamente difensive. Lì si obbedisce, se si dubita si finisce tra gli scismatici sconsiderati. Si marcia tutti insieme. Ma verso che cosa?

In questa stupefacente eclisse della ragione non solo politica che l’aggressione russa ha innescato, il vero sortilegio malefico di Putin, la Nato è diventata un marchio a cui non si può dire di no, da sopravvivenza del Novecento destinata a spegnersi per impotenza e disutilità si è trasformata in un marchingegno che deve correggere, a cannonate, nientemeno che le storture del mondo, da Mosca a Pechino giù giù fino alle savane e i deserti africani. «A trecentosessanta gradi» come annota il ministro degli esteri spagnolo. Gli europei che fino a ieri erano sospettosi verso qualsiasi impegno militare sembrano pronti a credere a qualsiasi cosa purché sia abbastanza inverosimile.

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Se il premier veste i panni del politico

lunedì, Giugno 27th, 2022

Lucia Annunziata

La questione dell’Ucraina, e della crisi economica che l’accompagna, ha per l’Europa una unica ricaduta – ed è eminentemente politica: il rischio di una nuova ondata di populismo. Così, nel primo giorno di riunione del G7 nel Castello di Elmau in Baviera, Mario Draghi cambia direzione, scarta, e, in una riunione improntata a un linguaggio il più tecnico possibile, evoca uno scenario politico: «Dobbiamo evitare gli errori commessi dopo la crisi del 2008: la crisi energetica non deve produrre un ritorno del populismo». Non è esattamente imbracciare un bazooka, ma non è nemmeno un passaggio irrilevante. Dal 16 giugno si è messa in moto una carambola politica tesa a tastare e consolidare le intenzioni dei paesi europei e degli Stati Uniti. Una mega consultazione: visita dei tre leader europei in Ucraina (il 16), Consiglio Europeo a Bruxelles (23 e 24), in Germania il G7 di oggi (26/28). Tappa finale, il Summit Nato a Madrid del 29 e 30 giugno, che, secondo il segretario Stoltenberg, «trasformerà la Nato».

Nel percorso è risultato chiaro che Europa e Usa sono d’accordo nel formalizzare l’ingresso dell’Ucraina nell’Ue. Chiaro è anche che l’invio delle armi non è davvero una questione aperta, anche se la decisione è applicata in maniera ondivaga, per le vicende interna a ogni paese. Sono rimasti aperti invece quasi tutti i dossier economici – grano, inflazione, crisi energetica – perché ciascuno riapre la scatola nera dei diversi interessi nazionali. Mario Draghi è entrato in questa nuova fase di riunioni con un sussulto di impegno. Il suo governo, preso in mezzo da una serie di tremori di crisi, è parso non trovare una efficace azione nei primi mesi di guerra. In questo anticipo d’estate, tuttavia, l’Inquilino di Palazzo Chigi è ripartito prendendo in mano proprio i dossier economici, vestendo di nuovo il ruolo dell’economista di status, relazionandosi con alcuni suoi naturali interlocutori, come gli Stati Uniti – dove continua a contare ( dai segnali che si hanno) molti amici, come la influente ex governatrice della Fed, oggi ministro del tesoro, Janet Yellen. Soprattutto, il premier italiano si è intestato la proposta di un price cap, cioè un tetto al prezzo del gas russo. Proposta lodata come necessaria, ma in pratica avversata da molti, a partire dalla Germania. Nei fatti rimandata a ottobre, proprio al Consiglio Europeo.

In questo G7, forse perché gli Stati Uniti si sono mostrati più favorevoli ( riecco l’influenza della Yellen, si dice), Draghi sembra aver cambiato tattica, scendendo sul terreno della politica. La dichiarazione sul populismo che abbiamo citato sopra, continua così: «Mettere un tetto al prezzo dei combustibili fossili importati dalla Russia ha un obiettivo geopolitico oltre che economico e sociale. Dobbiamo ridurre i nostri finanziamenti alla Russia. E dobbiamo eliminare una delle principali cause dell’inflazione. Abbiamo gli strumenti per farlo: dobbiamo mitigare l’impatto dell’aumento dei prezzi dell’energia, compensare le famiglie e le imprese in difficoltà, tassare le aziende che fanno profitti straordinari». Evocare il populismo, nel contesto europeo, significa parlare di destabilizzazione.

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Morto Raffaele La Capria, lo scrittore che aveva Napoli nell’anima

lunedì, Giugno 27th, 2022

di ANTONIO CARIOTI

Con il suo capolavoro «Ferito a morte» vinse il premio Strega nel 1961. E da sceneggiatore vinse il Leone d’Oro a Venezia per il film «Le mani sulla città» di Rosi

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Raffaele La Capria (1922-2022; foto Effigie)

Viveva a Roma dal 1950, una vita. E aveva scritto regolarmente dal 1978 per le pagine culturali di un quotidiano milanese, il «Corriere della Sera». Eppure l’opera di Raffaele La Capria, scomparso all’età di 99 anni, era imperniata su Napoli: la metropoli dove era nato e con la quale si era confrontato di continuo nella sua attività di scrittore, sceneggiatore, saggista. Per lui era la «Foresta Vergine» capace d’inghiottire ogni cosa. L’aveva definita «una città che ti ferisce a morte o t’addormenta, o tutte e due le cose insieme». Ma Dudù, come era chiamato familiarmente, non aveva mai smesso di evocarla, amarla e spronarla a ripensarsi. In fondo non se ne era mai veramente andato.

A Napoli era ambientato il suo capolavoro Ferito a morte (Bompiani, poi Mondadori), il romanzo con cui aveva vinto il premio Strega nel 1961. Un denuncia vibrante del malgoverno partenopeo era il messaggio del film Le mani sulla città, con cui insieme al suo amico regista Francesco Rosi, che lo aveva diretto nel 1963, La Capria si era aggiudicato da sceneggiatore il Leone d’Oro al Festival del cinema di Venezia. A Napoli e alle cause della sua decadenza civile è dedicata la sua opera saggistica più acuta e originale, L’armonia perduta (Mondadori, 1986).

Nato il 3 ottobre 1922, La Capria era cresciuto nello splendido palazzo monumentale Donn’Anna a Posillipo. Aveva vissuto gli anni della sua prima formazione sotto l’influenza fuorviante del fascismo, nutrendosi però anche di letture poco ortodosse. Poi, durante la guerra, si era ritrovato ventenne dalle parti di Brindisi «in una divisa troppo larga, con un fucile troppo antiquato, uno zaino troppo pesante, goffo e impreparato in ogni senso».

Per fortuna l’esperienza sotto le armi era durata poco: anche se la Napoli occupata dagli angloamericani era una specie di Babilonia caotica e corrotta, quella vitalità selvaggia aveva offerto opportunità e speranze a ragazzi come lui e i suoi amici più cari, molti dei quali destinati a carriere importanti: nel giornalismo Antonio Ghirelli, Tommaso Giglio, Massimo Caprara e Maurizio Barendson; nel cinema il già citato Rosi; in campo teatrale Giuseppe Patroni Griffi; in politica Francesco Compagna e soprattutto Giorgio Napolitano, futuro capo dello Stato.

Allora forte era il fascino del Pci. Ma La Capria non ne era rimasto pienamente catturato, a differenza di alcuni suoi amici. Di certo guardava a sinistra ed era rimasto assai deluso dalla stabilizzazione moderata seguita alle elezioni politiche del 1948. Ai suoi occhi Napoli era riprecipitata nella mediocrità provinciale, era tornata ad essere un «mortorio» da cui aveva preferito andarsene. Frutto del disagio avvertito allora è il primo romanzo di La Capria, Un giorno d’impazienza (Bompiani, 1952), che avrebbe avuto diverse stesure. Un prodotto ancora acerbo rispetto al successivo e ben più elaborato Ferito a morte.

Nella sua opera più importante, uscita nove anni dopo l’esordio, La Capria sperimenta una narrazione su piani multipli, che sovverte la successione temporale degli eventi, nel caleidoscopio dei ricordi che attraversano il dormiveglia del giovane Massimo De Luca (personaggio in cui l’autore raffigura sé stesso) la mattina del giorno che lo vedrà partire da Napoli per trasferirsi a Roma. Non era un romanzo facile, anche se il pubblico lo aveva gradito ed era stato tradotto all’estero.

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Il segnale (forte) che arriva dalle elezioni comunali

lunedì, Giugno 27th, 2022

di Massimo Franco

Il centrodestra ha trasformato il caso del ballottaggio a Verona — dove ha trionfato Tommasi — nell’emblema di una profonda divisione interna

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Sarebbe consolante pensare che l’ennesimo calo della partecipazione sia soprattutto figlio della calura estiva. Il sospetto, purtroppo, è che dipenda da un’offerta politica così frammentata e altalenante da tenere lontano l’elettorato. Per questo, il risultato dei ballottaggi di ieri in sessantacinque Comuni può dare qualche indicazione sul futuro; ma quasi più in negativo che in positivo. I sindaci sono stati scelti da minoranze più ristrette del passato. E le coalizioni che li hanno espressi trasmettono un’immagine di precarietà soprattutto perché non riflettono un sistema politico in piena evoluzione. Su questo sfondo controverso, tuttavia, due elementi colpiscono. Il primo è il rafforzamento del Pd di Enrico Letta. E non solo perché è tornato a vincere a Parma ed ha strappato il sindaco a Monza, Alessandria, Catanzaro, Piacenza. Nonostante un declino grillino che ha i contorni della disfatta, il suo partito ha ottenuto buoni risultati in modo geograficamente omogeneo. Il secondo elemento è una sconfitta del centrodestra perfino in alcune roccaforti del nord: un epilogo che sottolinea la crisi vistosa della Lega nella sua culla territoriale e di potere.

I risultati definitivi delle elezioni comunali

Il caso più eclatante è Verona, dove si è visto il contraccolpo tossico dello scontro tra Carroccio e FI, e Fratelli d’Italia. Lì un conflitto locale si è trasformato nell’emblema di una profonda divisione interna. L’irriducibilità del contrasto tra i due candidati di centrodestra al primo turno ha causato una sconfitta pesante al ballottaggio; e aperto la strada all’elezione dell’ex calciatore Damiano Tommasi, candidato di Letta e dei suoi alleati. Il risultato assume oggettivamente un riflesso nazionale, perché incarna lo scontro strisciante per il primato tra Salvini e Giorgia Meloni. Ridimensiona le ambizioni della destra d’opposizione di poter prescindere dagli alleati: nel senso che li può «trainare» ma non rinunciare al loro apporto, sfidandoli. Evoca il rischio concreto di una spaccatura che trasformerebbe le politiche del 2023 in una roulette. Si tratta di una prospettiva che l’intero centrodestra ha sempre escluso, additando l’unità come condizione per vincere, come è successo al primo turno a Palermo e a Genova. Ma il protagonismo e la crescita di FdI sta avendo il doppio effetto di galvanizzare il partito di Meloni e acuire i timori di subalternità da parte di Lega e berlusconiani. Per questo il percorso che porterà al voto politico è una strada verso la vittoria, lastricata di potenziali inciampi. Basti pensare allo scontro irrisolto alla regione Sicilia, dove si vota in autunno; con la possibilità non del tutto remota che si replichi la «sindrome veronese». L’analisi non può ignorare la variabile grillina: un crollo che probabilmente ha ingrossato il numero delle astensioni, riproponendo le riserve a sinistra su un asse privilegiato tra Pd e M5S. La visita del «garante» Beppe Grillo oggi a Roma sa di viaggio della disperazione di un ex demiurgo al quale non riesce più la magìa: la scissione decisa dal ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, ne è la controprova. L’implosione del M5S si sprigiona sul sistema con una carica in grado di destabilizzarlo. Ma a livello locale non ha danneggiato il Pd, tanto da far dire a Letta che il «campo largo» esiste ancora. In realtà, sulla carta, il centrosinistra partiva da posizioni perdenti. E lo schieramento da proporre alle Politiche appare tuttora allo stato embrionale.

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Comunali, coalizioni a pezzi ma (per ora) non cambia l’agenda del governo

lunedì, Giugno 27th, 2022

di Francesco Verderami

Le difficoltà degli schieramenti e delle forze politiche potrebbero però incidere sul timing dell’esecutivo rendendo più accidentato l’ultimo percorso di legislatura

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Era chiaro che le Amministrative non avrebbero influito sulla stabilità e sull’agenda del governo. Così com’era chiaro già prima dell’apertura delle urne che il risultato non avrebbe risolto i problemi delle coalizioni e dei partiti. Ma proprio le difficoltà degli schieramenti e delle singole forze politiche potrebbero incidere sul timing e sull’azione dell’esecutivo, rendendo più accidentato l’ultimo tratto della legislatura.

I risultati definitivi del ballottaggio alle Comunali

Il centrodestra è alle prese con un cambio degli equilibri interni e non riesce a trovare un nuovo baricentro. Tale è il dissesto, che Lupi — a spoglio appena iniziato — ha chiesto «un vertice urgente dell’alleanza»: «Si deve ritrovare lo spirito originario subito o potrebbe essere tardi». Il problema non è tanto il pessimo risultato dei ballottaggi — dato che al primo turno la coalizione aveva conquistato Palermo e Genova — ma la ricostruzione della coalizione «che non può ridursi alla somma dei tre maggiori partiti». E che dovrà affrontare il test — quello sì importante — delle Regionali in Sicilia: «Lì si voterà a novembre — dice l’udc Cesa — quando staremo discutendo già il programma e le liste per le Politiche. Se dovessimo dividerci, la coalizione si disarticolerebbe e senza il proporzionale non ci sarebbe neppure uno schema alternativo».

Il fatto è che al momento ogni partito è ripiegato su se stesso. Salvini deve fare i conti con la crisi del progetto di forza nazionale e con percentuali molto basse al Nord, da dove arriva la richiesta di una «discontinuità di linea politica» insieme all’avvio dei congressi regionali. Berlusconi è costretto a rilanciare se stesso in una lunga campagna elettorale per sedare le tensioni interne a Forza Italia, che preludono a nuovi abbandoni. Quanto alla Meloni, deve constatare come gli esperimenti (e i candidati) sul territorio non abbiano coinciso con l’avanzata nei consensi e i sondaggi da primo partito nazionale. Insomma, il centrodestra (per ora) non c’è.

Ma il centrosinistra (per ora) nemmeno esiste. Dopo la scissione del Movimento Cinque Stelle, infatti, Letta ha difficoltà a definire l’area di riferimento del Partito democratico e spazia dal «campo largo» al «nuovo Ulivo», che vista l’eterogeneità dell’alleanza somiglierebbe piuttosto alla vecchia Unione. È un modo per prendere tempo, mentre nel Pd monta la preoccupazione: «Finirà che dovremo dare i nostri seggi ad alleati senza voti». Peggio. La quantità di liste «centriste» rischia di far disperdere voti di provenienza riformista. Perciò Borghi, membro della segreteria dem, sostiene che «noi non dovremo consumare la nostra identità nella ricerca di alleanze ma nella nostra iniziativa politica». Ovvero: pensiamo a noi.

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Elezioni 2022, i risultati definitivi del ballottaggio delle Comunali

lunedì, Giugno 27th, 2022

Comunali, il centrosinistra ha vinto il secondo turno: conquistate Verona, Parma, Piacenza, Monza, Alessandria, Catanzaro. Il centrodestra tiene Lucca e Sesto San Giovanni. Affluenza in calo

Il centrosinistra ha vinto nettamente il secondo turno delle elezioni Comunali, conquistando al ballottaggio molte delle principali città al voto: da Verona a Parma, da Piacenza a Catanzaro, da Monza ad Alessandria.

Il centrodestra, che al primo turno aveva conquistato Genova, Palermo e L’Aquila, conclude il secondo turno con la vittoria a Lucca, Sesto San Giovanni e Frosinone. Le tensioni politiche tra gli alleati sono destinate, nelle prossime ore, ad aumentare: specie in seguito al risultato di Verona, città tradizionalmente di centrodestra dove uno scontro interno ha contribuito al trionfo — imprevisto, fino a poche settimane fa — di Tommasi.

Erano chiamati alle urne solo due milioni di elettori in 65 comuni (dei quali 13 capoluoghi): eppure la tornata elettorale ha tenuto con il fiato sospeso le maggiori forze politiche. E un segnale ai partiti arriva sicuramente dall’affluenza molto bassa, intorno al 42%.

Il punto, città per città (qui trovate tutti i dati, Comune per Comune)

• Verona
L’ex calciatore Damiano Tommasi sarà il prossimo sindaco di Verona e consegna al centrosinistra una città che da quindici anni era una roccaforte incontrastata del centrodestra. Tommasi ha conquistato il 53,4 per cento dei voti, contro il 46,6 per cento del sindaco uscente, Federico Sboarina.

Il centrodestra paga le divisioni interne: tra Sboarina, esponente di Fratelli d’Italia appoggiato anche dalla Lega, e l’ex leghista Flavio Tosi, passato a Forza Italia dopo il primo turno. Neppure per il ballottaggio hanno saputo trovare un accordo.

Catanzaro
Anche in questo caso il centrosinistra ha vinto, a sorpresa: e anche in questo caso il centrodestra ha combinato un pasticcio, presentando come candidato Valerio Donato, proveniente dal centrosinistra. Al primo turno Donato aveva superato nettamente Nicola Fiorita (civico sostenuto da Pd e 5 Stelle). Ieri però Fiorita ha superato il 58% delle preferenze, ottenendo un successo che il centrosinistra in città inseguiva da 16 anni.

• Parma
Nella città emiliana il successo del «campo largo» che unisce Pd e 5 Stelle porta la firma di Michele Guerra, delfino di Pizzarotti: ha incassato il 66% dei voti, stracciando il forzista Pietro Vignali, appoggiato al ballottaggio anche da Fratelli d’Italia.

• Piacenza
Katia Tarasconi (Pd, Azione e liste civiche) con il 53,5% ha battuto Patrizia Barbieri (46,5%). Qui, a Walter Veltroni, aveva raccontato la sua storia, segnata dalla morte del figlio.

• Alessandria
Dopo cinque anni il centrosinistra ha riconquistato Alessandria con Giorgio Angelo Abonante.

Cuneo
La città piemontese resta al centrosinistra: è stata eletta Patrizia Manassero, ex senatrice dem, che succede a Federico Borgna.

• Monza
Un po’ a sorpresa il «campo largo» guidato dal Pd si è imposto anche a Monza con Paolo Pilotto, che con il 51,19% dei voti ha avuto la meglio sul forzista Dario Allevi (48,81%), infrangendo il piccolo sogno di Berlusconi che avrebbe voluto vincere questa sfida nell’anno della promozione in A della squadra brianzola che lui stesso ha rilanciato dopo aver venduto il Milan.

Como
Il nuovo sindaco è il civico Alessandro Rapinese che ha battuto Barbara Minghetti, del centrosinistra.

• Lucca
Il centrodestra ha vinto a Lucca con Mario Pardini su Francesco Raspini.

• Frosinone
Anche qui, il centrodestra è riuscito a vincere, ottenendo la conferma con Riccardo Mastrangeli.

Gorizia
Rodolfo Ziberna (centrodestra) ha vinto con il 52.2 per cento dei voti, battendo Laura Fasiolo (47.8): il sindaco uscente, Rodolfo Ziberna, era del centrodestra.

• Sesto San Giovanni
Il sindaco leghista di Sesto, Roberto Di Stefano, ha vinto ancora, con il 52 per cento dei voti, battendo Michele Foggetta.

• L’affluenza
Più alta in città in cui la competizione era più sentita, come Verona, 46,8%, ben al di sotto del 40% in molte altre. Ovunque in netto calo rispetto al primo turno. L’affluenza ai ballottaggi è crollata: 42,2% (dati relativi ai 59 Comuni seguiti dal sito del Viminale) alla chiusura dei seggi, cioè quasi 12 punti in meno rispetto a due settimane fa (54%): un salto verso il basso più deciso rispetto a quello registrato al secondo turno delle Comunali di ottobre 2021. Maglie nere per partecipazione, Alessandria (37,1%), Cuneo (36,7%) e Monza (36,1%).



• I dati politici, in sintesi
– Centrosinistra
Il Pd esulta, ed è convinto che il risultato «rafforzi il governo». Nelle parole di Maria Teresa Meli: «“Da domani ci mettiamo a testa bassa sulle politiche”. Enrico Letta, il vero vincitore di questa tornata elettorale, ha appena finito di esultare per il «risultato straordinario» (il Pd nel 2017 aveva vinto in due dei tredici capoluoghi andati al ballottaggio, ieri in otto) che già dà la linea ai suoi. “Alla fine della festa vincono la linearità e la serietà. Vinciamo perché la responsabilità è più importante di tutto. Il campo largo è stato preso in giro, le ironie si sono rivoltate contro chi le ha fatte perché invece questa strategia paga”. Ma in realtà queste amministrative hanno fatto scoprire al Pd che lì dove si allea con il M5S non è affatto detto che vinca. Anzi».

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Il M5s crolla sotto il 10%. Ma Conte per ora resiste alle pressioni interne

domenica, Giugno 26th, 2022

Domenico Di Sanzo

I contiani vogliono uscire dal governo, Giuseppe Conte resiste e ribadisce: «Il governo continuerà a essere sostenuto in modo leale e corretto, guardando negli occhi gli altri componenti della maggioranza e il Paese». Beppe Grillo, invece, è pronto a farsi vedere a Roma già domattina. Nell’agenda del Garante ci sono le questioni relative al contratto di consulenza con il M5s, la regola dei due mandati, i rapporti con l’esecutivo.

Conte parla in collegamento con il convegno dei Giovani imprenditori di Rapallo e ci tiene a rivendicare l’asse con il fondatore. «Con Grillo ci sentiamo quotidianamente e ci siamo sentiti anche oggi, l’importante non è il numero dei parlamentari, è la forza del nostro progetto politico», sottolinea il presidente del M5s.

Quindi il messaggio agli esitanti, a chi potrebbe essere sedotto dal progetto politico di Luigi Di Maio: «Se qualcuno dovesse avere ancora qualche titubanza, se non è convinto, può lasciare adesso, questo è il momento giusto, c’è anche una finestra di uscita e una collocazione esterna». Anche la comunicazione pentastellata mostra i muscoli. «Oltre 1.000 nuovi iscritti al M5s solo in questa ultima settimana. Negli ultimi 3 giorni si è passati da 100 nuovi iscritti a oltre 300 al giorno, un trend in continua crescita», fanno sapere i vertici dei Cinque stelle. Nella sede di Via di Campo Marzio, però, sono preoccupati dai sondaggi. Una rilevazione di Tecnè certifica le difficoltà grilline in seguito alla scissione di Insieme per il Futuro. Secondo il sondaggio, realizzato il 23 e il 24 giugno, il M5s ha perso tre punti percentuali rispetto a prima del divorzio con Di Maio, attestandosi sotto il 10%, al 9,3%. E ritrovandosi così per la prima volta scavalcato da Forza Italia, accreditata del 9,9% delle intenzioni di voto.

Conte non paga solo il terremoto interno innescato dal ministro degli Esteri, ma anche la linea ondivaga sul governo. I contiani di più stretta osservanza spingono per il ritiro dei ministri. Dopo Stefano Buffagni, lo dice il senatore Gianluca Ferrara in un’intervista a Repubblica: «Se si dovesse continuare a voler depauperare provvedimenti virtuosi come il superbonus, a minacciare il reddito di cittadinanza, a non seguirci pienamente sulla strada della diplomazia e perseguire invece quella delle armi, se non si vogliono realizzare misure indispensabili come il salario minimo, beh, allora dovremmo uscire al più presto». Solo che Conte tentenna perché ha paura di perdere altri parlamentari e, soprattutto, di mandare all’aria il fronte con il Pd. Un’alleanza fondamentale in vista delle prossime elezioni politiche, in particolare per quanto riguarda i collegi.

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