Archive for Giugno, 2022

La sfida di Bonomi sul cuneo fiscale: “Partiti d’accordo. Adesso tagliatelo”

domenica, Giugno 26th, 2022

Gian Maria De Francesco

«Tutti qui hanno detto che vogliono il taglio del cuneo fiscale e io sono contento e mi aspetto che domani venga fatto». Così il presidente di Confindustria Carlo Bonomi, concludendo il convegno di Rapallo dei giovani imprenditori di Viale dell’Astronomia, ha sintetizzato la sostanziale concordanza tra tutti gli ospiti circa la necessità di un abbassamento della pressione fiscale sotto forma di taglio di fisco e contribuzioni sulle buste paga. Come prassi il numero uno degli industriali italiani ha attaccato una classe dirigente che ha privilegiato le una tantum per guadagnare consensi. «Negli ultimi anni tanti sono stati i bonus ma nessun intervento strutturale, sono stati tutti interventi a pioggia e peraltro cumulabili», ha detto.

Ospiti della seconda e ultima giornata sono stati Enrico Letta, Matteo Salvini e Matteo Renzi, e, in collegamento da Roma, Giuseppe Conte, mentre venerdì avevano partecipato Giorgia Meloni e Antonio Tajani. «Bisogna mettere subito nel mirino la legge di bilancio che deve essere finalizzata a combattere gli effetti dell’inflazione, la tassa più diseguale che rischia di mettere in difficoltà il nostro Paese», ha spiegato il segretario Pd ribadendo la necessità di un patto di maggioranza in vista della manovra che dovrà prevedere anche una «grande riduzione delle tasse sul lavoro». Anche il presidente M5s Giuseppe Conte ha evidenziato che «deve essere incisivo perché serva a evitare la perdita del potere acquisto del ceto medio». Una priorità sulla quale, palesemente, il centrosinistra s’è accodato al centrodestra. Sia Tajani che Meloni avevano indicato questo obiettivo per la legge di Bilancio e ieri anche Salvini ha dichiarato di essere «d’accordo e aggiungo che serve un concordato fiscale tra cittadini e Agenzia delle entrate perché ci sono 15 milioni di italiani in ostaggio» delle cartelle. Senza contare che il segretario della Cisl, Luigi Sbarra, aveva indicato al Giornale il taglio del cuneo come fondamentale.

Il leader della Lega ha chiesto che il taglio delle tasse sia di «almeno 10 miliardi euro» e ha rilanciato la necessità di un intervento sul Superbonus («la parola data va mantenuta, altrimenti rischiano di fallire migliaia di imprese»). Bonomi, invece, ha ribadito «l’urgenza di intervenire sul costo del lavoro con un taglio del cuneo fiscale, rispetto al quale la proposta da 16 miliardi di euro avanzata da Confindustria da mesi e che permetterebbe ai redditi bassi di guadagnare 1.223 euro, uno stipendio in più». I partiti, però, hanno preferito la politica dei bonus e degli interventi una tantum a pioggia che sono cumulabili. «Così si favorisce il 50% della popolazione anziché il 10% che ne ha bisogno e tutto questo succede perché non c’è un’anagrafe della spesa sociale in Italia», ha evidenziato.

Rating 3.00 out of 5

Tetto al prezzo di gas e greggio russo, Draghi fa asse con Washington

domenica, Giugno 26th, 2022

Alessandro Barbera

Sostegno militare e finanziario immutato a Kiev, prudenza verso la Cina, tetto al prezzo di petrolio e gas russo. In estrema sintesi, questa è l’agenda con cui Mario Draghi si siede oggi fra i Sette grandi riunti nelle montagne bavaresi di Elmau, fra mucche e prati bucolici. L’ironia della sorte ha voluto che la riunione del più solido consesso dell’Occidente unito durante la guerra sia presieduto dalla Germania di Olaf Scholz, il partner storicamente meno ostile a Mosca e a Pechino. Ma dopo ormai quattro mesi di guerra e la mancanza di aperture da parte russa Berlino fatica a tenere una posizione mediana. Lo dimostra anzitutto la determinazione con cui i Sette confermeranno la volontà di continuare a inviare armi e equipaggiamenti all’esercito ucraino.

E’ ormai certo che durante l’estate gli alleati della Nato ne invieranno di nuove. L’Italia farà la sua parte, e per questo ci sarà un quarto decreto interministeriale di Difesa e Farnesina. La lista degli armamenti era e resterà secretata, né è chiaro se fra queste ci saranno strumenti a lunga gittata. Due cose però sembrano certe: per evitare di mettere in difficoltà l’esercito ucraino, mai addestrati a strumenti sofisticati, si opterà per armamenti tradizionali. Ogni decisione verrà coordinata con i vertici militari degli altri alleati, e diventerà operativa a valle della riunione dei leader della Nato programmata a Madrid subito dopo l’incontro in Germania, mercoledì e giovedì della prossima settimana. In Spagna ci saranno l’italiano Lorenzo Guerini e gli altri ministri della Difesa dell’Alleanza atlantica. Gli altri gradi militari e le strutture di intelligence occidentali guardano con molta preoccupazione gli ultimi sviluppi sul campo, l’occupazione russa di Severodonetsk e le voci secondo le quali Mosca potrebbe coinvolgere nel conflitto l’alleato bielorusso, finora rimasto ai margini.

Le differenze di vedute fra i Sette emergeranno su altri temi. L’atteggiamento verso Pechino, in primo luogo. Washington non ha mai modificato la cosiddetta «dottrina Clinton» e sta mandando a Xi segnali di disappunto per non essersi chiaramente schierata contro Mosca. Draghi, su questo più vicino alle posizioni tedesche, si mostrerà molto più cauto. «La Cina fin qui si è mostrata molto saggia», spiega un’altra fonte italiana sotto la garanzia dell’anonimato. «Per questo siamo contrari a esasperare i toni, e lo diremo».

Infine la questione energetica e delle sanzioni verso Mosca. Qui l’Italia è più vicina alle posizioni americane, e distante da Berlino. Sin dall’inizio del conflitto Draghi ha concordato ogni mossa con la segretaria al Tesoro americana Janet Yellen, un legame che risale a quando entrambi guidavano la banca centrale europea e americana.

Gli americani si siederanno con la proposta di imporre un tetto al prezzo del petrolio russo che ancora viene scambiato come nulla fosse. L’embargo deciso dalla Commissione europea scatterà infatti solo alla fine dell’anno, e nel frattempo i prezzi sui mercati internazionali sono saliti, alimentando la spirale inflazionistica in tutto il mondo. Il premier italiano farà asse con Washington, e ne approfitterà per insistere con la sua proposta di allargare il tetto al gas importato in Europa da Mosca. È molto probabile che il premier italiano ne discuta a quattr’occhi in un bilaterale con Joe Biden. Le diplomazie ne stanno discutendo in queste ore.

Rating 3.00 out of 5

I pericoli della nuova variante Omicron e l’utilità di una quarta dose di vaccino

domenica, Giugno 26th, 2022

Antonella Viola

La crescita dei positivi – ben oltre i numeri ufficiali – e il rialzo dell’indice di contagio Rt ci indicano che la variante Omicron BA.5 è arrivata e si sta ampiamente diffondendo sul nostro territorio. Un picco di contagi in estate rappresenta l’ennesima spiacevole sorpresa che questo nuovo coronavirus ci propone. Del resto, molti di noi avevano spiegato che il motivo per cui d’estate il virus colpiva di meno era essenzialmente legato alle nostre abitudini, più che ad una sua intrinseca insofferenza al caldo. La vita all’aperto sfavorisce la trasmissione del virus; i contagi, prima di Delta e, soprattutto, di Omicron, avvenivano quindi prevalentemente in luoghi chiusi. Tuttavia, maggiore è la trasmissibilità di un virus, maggiore sarà pure la probabilità che i contagi si verifichino anche all’aperto. Ecco che dunque, nonostante le alte temperature di questi giorni, Omicron BA.5 trova il modo di diffondersi nella popolazione, complici anche l’assenza di misure di contenimento e l’abbandono della mascherina da parte di gran parte della popolazione.

I vaccini, così efficaci contro la prima versione del SARS-CoV-2, hanno via via perso la capacità di bloccare l’infezione e iniziano anche a proteggere meno dalla malattia sintomatica, soprattutto in quelle persone che, per ragioni anagrafiche o per condizioni di salute, hanno un sistema immunitario indebolito. Cosa fare allora per evitare l’aumento dei ricoveri e dei decessi?

Nei mesi passati, molti dati sono stati pubblicati a supporto dell’utilità della quarta dose per proteggere le persone che sono più a rischio di Covid severo. Stimolando la produzione di anticorpi, la quarta dose conferisce una protezione aggiuntiva utile per proteggere dall’infezione sintomatica. Utile soprattutto se la circolazione del virus è alta, come adesso.

Negli USA, la quarta dose (o secondo richiamo) è stata approvata a partire dai 50 anni; in Francia è raccomandata per gli over 60. In Italia si è invece deciso di autorizzarla solo agli over 80 o, se più giovani, solo in presenza di condizioni cliniche severe e molto limitate. Lasciando di fatto fuori una grossa fetta di popolazione fragile. Questa scelta, già scientificamente discutibile ma tutto sommato non troppo preoccupante se il virus non circolasse, diventa assolutamente incomprensibile di fronte ad una nuova ondata di contagi. L’unico strumento che abbiamo per limitare ricoveri e decessi consiste nel permettere immediatamente l’accesso alla vaccinazione a tutti gli over 60 e nel comunicare l’importanza di effettuare il richiamo.

Rating 3.00 out of 5

Putin, il mediocre pericoloso

domenica, Giugno 26th, 2022

Domenico Quirico

Insomma: dopo quattro mesi di tempesta che sappiamo di Vladimir Putin? Dei suoi piani, di quello che davvero vuole ottenere alla fine di questa guerra, intendo, di ciò che è accaduto che lui annovera come sconfitta e come vittoria, delle sue malattie presunte, della sua debolezza e della sua forza. Niente. Niente proprio perché supponiamo e gridiamo di sapere tutto. Vien voglia di pronunciare finalmente il cecoviano «ich sterbe», è tutto. E invece… l’annebbiamento è compensato come sempre dalle dicerie, dalle chiacchiere da sottoscala. Quanto più fitto è il segreto tanto più sfrenati sono i pettegolezzi. Su cui ahimè! costruiamo le scelte della guerra.

Ogni mattino solleviamo trionfanti l’indice pronti a dire: l’avevano previsto che per lui sarebbe finita così, ecco scoperto il suo piano segreto, oppure voilà finalmente con quattro mesi di ritardo questo è l’errore che lo perderà. Proprio come un tempo Vladimiro e Estragone aspettavano Godot. E invece tutto procede come prima: l’armata russa avanza di poco ma avanza, la Russia non fallisce, gli oligarchi e i generali continuano ad obbedire con pecorina flemma. Il suo impero lo danno rinseccolito, defunto, l’aquila bicipite restaurata sulle bandiere sarebbe materia morta. E invece la fine della guerra ormai non è altro che una data immaginaria, un turbinio di ipotesi, autoinganni, generalizzazioni e proiezioni che hanno preso il posto di ciò che accade davvero. E se fosse proprio questo il suo gioco a cui, ostinandoci noi a dichiararci padroni della situazione e sempre a un passo dalla vittoria sulla sua prepotenza, lui ci costringe a giocare? Non siamo arrivati al punto di doverci chiedere se Putin non stia in realtà vincendo la guerra? E se la solida resistenza delle democrazie occidentali non fosse purtroppo che una specie di mar dei Sargassi prosciugato?

Tutto ciò che lo riguarda, da noi vien sempre spiegato con la paranoia del Potere. Solo che nessuno sembra sapere con esattezza che cosa è. L’autocrazia è un meccanismo politico comprensibile. Più difficile decifrare le forme mentali che ne derivano, quanto di variegato c’è nella coscienza delle persone che l’incarnano, la loro concezione del potere, del compromesso, della violenza e della corruzione.

Intendiamoci. Sono convinto che Putin appartenga alla categoria dei dittatori mediocri. Non c’è nulla in lui che lo apparenti, pur brutale e cinico come è, a uno di quei satrapi che subordinano tutto al perseguimento di una passione delittuosa. Non è uno di quei dogmatici rari e terribili che sarebbero capaci di distruggere nove decimi della umanità per la supposta (da loro) felicità dell’ultimo decimo. Che assomigli, insomma, per restare nelle vicinanze geografiche allo zar Pietro o a Stalin. Nessuna adesione a ideali astratti, assoluti e sostanzialmente utopistici come la costruzione di un socialismo da seminario o della rivoluzione mondiale.

Semmai in lui si può riconoscere un unico criterio di valore, il successo. Un successo perseguito evidentemente attraverso la violenza, l’annientamento fisico e morale degli avversari perché questi sono i mezzi spropositati che la Storia gli ha messo a disposizione. Ma è pur sempre un mediocre ideale da burocrate, da travet che aspira a far carriera.

Ecco dopo mesi di guerra furiosa, con la pace mondiale in pericolo, migliaia di morti, il mondo in subbuglio per colpa sua, l’immagine è sempre quella del gennaio scorso: i due meccanici valletti in uniforme zarista che spalancano le porte di un salone del Cremlino che sembra soltanto un fondale cinematografico, un posto senza vita, imbronciato per gli innumerevoli padroni che lo hanno maneggiato, come se il tempo gli fosse passato accanto senza curarsene. Lui, lo zaretto, si infila come una Wanda Osiris senza squilli, senza espressione, come se da mezz’ora attendesse dietro l’uscio, aggiustandosi la cravatta, che qualcuno aprisse la porta. Confessiamolo: invece di immagini neo imperiali e di apocalittiche revanche della storia, senti odore forte della vecchia «kommunalka» sovietica, le scale sporche, i condomini franosi, l’intonaco che si stacca, l’acre tanfo di urina stantia e di cucina miseranda.

Rating 3.00 out of 5

Di Maio e Salvini, ascesa e caduta dei Diarchi che avevano l’Italia in mano

domenica, Giugno 26th, 2022

Federico Geremicca

Avevano letteralmente il Paese in mano, ed era nemmeno tre anni fa: li chiamavano i Diarchi, i presidenti, i gemelli diversi. E anche se la politica è notoriamente arte insidiosa, fa comunque sensazione osservarli adesso, sballottati qua e là lungo rotte incerte, oscure: e preoccupati – almeno uno dei due – perfino del voto odierno, in città di medio o scarso peso politico.

Matteo Salvini e Luigi Di Maio. I Diarchi, appunto. Che non dimenticheranno mai quel pugno di mesi che va dal giugno 2018 all’agosto 2019. L’anno migliore della loro vita, passato a guidare ruspe contro i rom, a far dirette social sui tetti, davanti ai porti chiusi, affacciati ai balconi del potere, sprezzanti e felici come non ci fosse un domani. L’anno migliore. Che li ha condotti all’epilogo peggiore: il primo, irreversibilmente segnato dai suoi mojito e da quel che ne seguì; il secondo, imputato e condannato – da capo politico – per il dimezzamento dei consensi al Movimento (Europee 2019). Che i loro destini alla fine si separassero, era inevitabile. Nulla di scritto, invece, riguardava il loro futuro: e infatti sembrano aver scelto traiettorie, toni e stili totalmente differenti.

Se dovessimo dirla in modo semplice, la metteremmo così: Di Maio lascia intendere (o vuol lasciare intendere) di aver capito la lezione di quell’annus horribilis, e dunque l’urgenza di fare i conti con la realtà; Salvini, invece, non l’ha mandata giù, i toni e i temi sono rimasti quelli, e sembra ancora in cerca di una vendetta, una rivincita, cocciutamente cercata e fallita per anni, prima in Emilia-Romagna e in Toscana, poi a Milano, a Roma, a Torino…

Dall’anno gialloverde e dal suo naufragio, insomma, i Diarchi d’un tempo hanno tratto lezioni diverse. Di Maio ha rimesso la cravatta che aveva tolto dimettendosi da capo politico dei Cinquestelle, e se ne è andato alla Farnesina; Salvini continua invece con le felpe e i crocifissi, finge di esser in trincea mentre è al governo e non cambia la sua linea di opposizione all’esecutivo che sostiene: nonostante i sondaggi dicano che ad aver dimezzato i consensi adesso è lui. Le loro traiettorie sembrerebbero divergere, ma negli ultimi tre anni abbiamo assistito all’impossibile… E le loro mosse, comunque, sono destinate a pesare (poco o tanto si vedrà) su quel che accadrà.

Rating 3.00 out of 5

Lezioni americane sulle democrazie, nessuna libertà è data per sempre

domenica, Giugno 26th, 2022


MASSIMO GIANNINI

No, non è stata «la mano di Dio». Solo Donald Trump, nel suo permanente delirio iconoclasta, poteva evocare l’intervento divino per giustificare la sentenza con la quale la Corte Suprema degli Stati Uniti ha privato le donne di una delle conquiste più importanti dell’ultimo secolo. Come cantava il poeta De Andrè, Nostro Signore «ha già troppi impegni per scaldar la gente d’altri paraggi». Vale anche nel Paese che scrisse la sua Costituzione come un testo spirituale, ricalcato dalla Bibbia. Dunque il buon Dio non c’entra nulla. Cancellare cinquant’anni di giurisprudenza consolidata, eliminando il diritto all’aborto come principio generale e fondamentale dell’ordinamento, è stata una scelta degli uomini. Uomini che odiano le donne, purtroppo. E che hanno deciso di riportare indietro le lancette della civiltà e della storia. Certo, la decisione è intrisa di implicazioni religiose, delle quali si nutre non da oggi la predicazione dei “teo-con” americani. Ma è soprattutto densa di conseguenze politiche, di cui in queste ore già vediamo la traiettoria. Dopo l’aborto, toccherà alle unioni di fatto e ai matrimoni gay. Poi alla disciplina degli anti-concezionali e poi chissà a cos’altro. Un’inquietante escalation oscurantista, che mescola intolleranza e discriminazione. E che si consuma nella culla dei diritti civili, oggi avviata a diventarne la tomba.

Lo strappo è ancora più doloroso, proprio per tutto quello che l’America ha sempre rappresentato per noi europei e occidentali. Una terra di frontiera e di sfida, dove ogni conquista è stata ed è parsa possibile. Metro dopo metro, giorno dopo giorno, diritto dopo diritto.

La patria di Thomas Jefferson e della Dichiarazione di indipendenza, dove «tutti gli uomini sono stati creati uguali» e dotati di «diritti inalienabili» come «la vita, la libertà e la ricerca della felicità». Oggi tutto sembra dissolto, in questa lenta e penosa agonia del secolo americano, dove molti Stati praticano ancora la pena di morte, sciamani impellicciati invadono Capitol Hill, primatisti bianchi sparano nei licei, e il diritto a possedere armi automatiche vale più del diritto a interrompere una gravidanza pericolosa.

Eppure, c’è ben poco da stupirsi. È tutto scritto in quella che Philip Roth, ne La controvita, chiamava «l’agenda ideologica della nazione». Una nazione spaccata e avvelenata da una contrapposizione irriducibile. Politica: i repubblicani contro i democratici. Etica: i cristiani contro i laici. Geografica: gli Stati centrali della Bible Belt contro quelli della West e della East Coast. Un coacervo di conflitti morali e materiali. In un colloquio con un amico, l’io narrante del più grande scrittore americano, Nathan Zuckerman, dice «qui tutto è bianco e nero, tutti gridano e tutti hanno sempre ragione. Qui gli estremi sono troppo grandi per un Paese così piccolo…». Roth parla di Israele, ma il concetto è ancora più vero, per un Paese grande come gli Stati Uniti. I nove giudici della Corte Suprema non hanno fatto altro che trascrivere su carta i sentimenti e i risentimenti che scorrono nelle vene dell’America. Un’America sempre più polarizzata, impaurita e divisa. Pervasa da una “culture war” che, in ogni campo, influenza e intossica il discorso pubblico.

C’è una specificità nazionale, nella Grande Restaurazione avviata dalla Corte Suprema. Come insegnano i costituzionalisti, questa pronuncia è «over ruling»: facendo piazza pulita della giurisprudenza precedente, non abolisce il diritto all’aborto ma lo affida alla legislazione dei 51 stati federali, che sul tema possono decidere autonomamente, senza più avere sopra di sé la copertura giuridica dei principi generali previsti dalla vecchia sentenza Roe vs Wade. Si instaura un’epoca di “fai da te” legislativo, che produrrà anarchia normativa e ingiustizia sociale. I 25 stati repubblicani si adegueranno, cancellando il diritto all’interruzione di gravidanza e le strutture socio-sanitarie che lo gestivano. Gli altri stati, a guida democratica, resisteranno. Risultato: se abortisci in Mississippi vai in galera, se lo fai in California hai l’ospedale. In generale, le donne e le famiglie più ricche se la caveranno, quelle più povere sono condannate alla solitudine, al dolore, alla vergogna.

Così la faglia ideologica che attraversa il Paese diventerà ancora più radicale e profonda. È la versione moderna della secessione: la nuova guerra civile americana. Con un pericolo in più: l’ulteriore delegittimazione delle istituzioni. La Presidenza e il Congresso sono già logori, dopo il trauma subito nella stagione trumpiana culminata con il tentato golpe del gennaio 2021. Ora anche la Corte Suprema patisce un vulnus, politicizzata com’è dalle nomine degli ultimi anni. Questa decisione sull’aborto riscrive la storia dei rapporti tra potere giudiziario e potere legislativo. Finora, come ha ricordato Concita De Gregorio, la Corte Suprema ha vissuto dell’impronta lasciata per decenni dalla giudice progressista Ruth Bader Ginsburg, teorica della “Constitution living”, la Costituzione vivente, secondo la quale la Corte è parte della forma di governo e accompagna con le sue scelte l’evoluzione dei costumi sociali. Il principio usato stavolta dal presidente della Corte Samuel Alito, all’opposto, è quello dell’originalismo: il 14esimo emendamento della Costituzione del 1791, scritto nel 1868, non prevede il diritto all’aborto.

Rating 3.00 out of 5

La cultura a rischio fallimento

domenica, Giugno 26th, 2022

di Aldo Grasso

Tutto quello che non pensiamo sia cultura è cultura. Tutto quello che pensiamo sia cultura è a rischio fallimento, in certi casi a fallimento totale. Come testimonia «ItsArt», «la Netflix italiana della cultura», secondo la definizione del suo promotore, il ministro dei Beni culturali Dario Franceschini.

Il bilancio del 2021 di «ItsArt», controllata da Cassa depositi e prestiti e dalla piattaforma Chili, dice che la società ha perso quasi 7,5 milioni di euro nel corso del primo anno di attività.

Di fatto ha dimezzato la sua liquidità, visto che l’impresa era decollata con circa 15 milioni di euro effettivi.

Secondo un’analisi di Luciano Capone sul Foglio, la piattaforma ha grosse perdite e incassi bassissimi: 240 mila euro (0,7 € l’anno per utente). La riserva messa da Cdp è finita e servono altri soldi.

La cosa più triste non sono i tre amministratori delegati cambiati in poco tempo, ma la totale mancanza di una linea culturale: «ItsArt» è un modesto catalogo di varia umanità: con i soldi investiti, Rai Cultura avrebbe ora un’offerta più ricca e interessante, anche internazionale.

Rating 3.00 out of 5

Ballottaggio, cosa si giocano i leader: le sfide di Meloni, Salvini, Berlusconi, Letta, Conte e Calenda

domenica, Giugno 26th, 2022

di Tommaso Labate

Al di là dei sindaci eletti, ecco le sfide di tutti i leader alle prese con la penultima prova prima delle elezioni politiche del 2023. I ballottaggi di oggi, insomma, visti con gli occhi dei «segretari»

desc img

Letta per difendere il campo largo e per portare il Pd al primo posto, Meloni per scacciare l’incubo di una «Fatal Verona», Conte e Salvini per rialzare la testa, Calenda per testare il peso di Azione e Berlusconi per la prima doppietta calcio-politica della sua nuova era: al di là dei sindaci eletti, ecco le sfide di tutti i leader alle prese con la penultima prova prima delle elezioni politiche del 2023. I ballottaggi di oggi, insomma, visti con gli occhi dei «segretari».

Giorgia Meloni

Per Giorgia Meloni il voto di oggi è come una matrioska. Una matrioska in cui la sfida di Verona rappresenta la bambola più grande, quella che contiene tutte le altre. Un meccanismo che si inceppasse proprio là, trasformerebbe per la politica il capoluogo veneto in quella «Fatal Verona» nota ai tifosi di calcio come il «campo» per antonomasia dove si perdono scudetti già vinti. Il sindaco uscente Sboarina, che è di Fratelli d’Italia, ha fatto le prove generali di quello che può accadere in una coalizione animata da rancori politici: ha rifiutato la mano di Tosi (oggi in Forza Italia), innervosito l’alleato rimasto (la Lega) e si è messo nella condizione di stravincere o straperdere praticamente da solo. Il resto delle contese del secondo turno è variabile dipendente da quello che succederà a Verona. La pole position virtuale in vista delle Politiche (Sicilia permettendo, come per Letta) si decide anche per la Meloni sotto il balcone di Giulietta.

desc img

Giorgia Meloni

Matteo Salvini

Per le malelingue, la felicità elettorale di Matteo Salvini è inversamente proporzionale a quella di Giorgia Meloni: dov’è contento uno è triste l’altra, e viceversa. Malignità a parte, difficile immaginare che il leader della Lega rimanga silente di fronte a un’eventuale sconfitta del candidato di FdI, che ha rifiutato il sostegno dell’ex leghista Tosi. Nel testa a testa per la leadership del centrodestra, per Salvini contano tantissimo Catanzaro (Valerio Donato è in testa) e Parma (Pietro Vignali insegue), dove la Lega corre in tandem senza Meloni. Impossibile per l’ex ministro dell’Interno prescindere da Sesto San Giovanni, l’ex «Stalingrado d’Italia» in cui il sindaco leghista Roberto Di Stefano si era fermato al primo turno a un’incollatura dalla rielezione diretta. Oggi cerca nelle urne i voti che possono far smaltire alla Lega delusioni cocenti come Como, dove il centrodestra unito è rimasto fuori dal ballottaggio.

desc img

Matteo Salvini

Silvio Berlusconi

L’obiettivo minimo di confermare la storica tenuta di Forza Italia alle Amministrative è stato ampiamente raggiunto al primo turno. Ai ballottaggi di oggi Silvio Berlusconi cerca le prove per dimostrare al centrodestra che il suo partito, oltre che importante, è indispensabile. Difficile immaginarlo contrito per una sconfitta di Sboarina a Verona, dove FdI e Lega si trovano nelle condizioni di cercare una rimonta senza gli azzurri. Oltre che a tutte le piazze dove il centrodestra versione large (Gorizia, Alessandria, Cuneo, Piacenza, Frosinone, Barletta) o small (Parma e Catanzaro) cerca di portare a casa una vittoria, ad Arcore seguiranno con particolare trasporto la sfida della vicina Monza, dove il forzista Allevi cerca la riconferma. Una vittoria metterebbe i bulloni sulla prima doppietta politico-calcistica della nuova era berlusconiana da proprietario di un club
di serie A. Una sconfitta brucerebbe,
e non poco.

Rating 3.00 out of 5

Ucraina Russia, news sulla guerra di oggi | Missili su Kiev in zona residenziale. Johnson a G7: sostenere Ucraina perché vinca la guerra

domenica, Giugno 26th, 2022

di Lorenzo Cremonesi e Andrea Nicastro

Le notizie di domenica 26 giugno sulla guerra, in diretta. Attacchi missilisti russi sulle aree residenziali e nel distretto industriale di Kharkiv: incendi e due feriti. Il governatore del Lugansk: «Severodonetsk è distrutta al 90%». Post su Facebook: la Lituania non farà concessioni a Mosca sul transito per l’exclave di Kaliningrad

La guerra in Ucraina è arrivata al 123esimo giorno.
• Severodonetsk è interamente controllata dai russi, si combatte ancora, strada per strada, nella città gemella di Lysychansk. Per Kiev una svolta del conflitto ci sarà a partire da agosto.
• Zelensky: «Riconquisteremo tutte le città, anche Severodonetsk».
• Oggi inizia il G7 in Germania, secondo la Cnn i leader hanno concordato un divieto di importazione sull’oro russo che sarà annunciato durante il vertice.
Vladimir Putin, dopo l’incontro con il presidente bielorusso Lukashenko di eri, ha comunicato la decisione di fornire alla Bielorussia missili Iskander che possono trasportare anche testate atomiche.
• Gli scontri in Donbass stanno prosciugando gli arsenali di entrambi gli eserciti: ecco come si svolge la guerra delle munizioni.

Ore 08:20 – Sindaco di Kiev: Mosca cerca di intimidirci prima di vertice Nato

La Russia cerca di «intimidire gli ucraini» prima del vertice Nato con l’attacco missilistico conto Kiev: lo afferma il sindaco della capitale ucraina, Vitali Klitschko.

Ore 08:08 – «Dopo Severodonetsk i russi puntano su Kramatorsk»

La conquista di Severodonetsk «è un risultato significativo nell’ambito dell’obiettivo ridotto» di «un’offensiva più mirata nel Donbass», rispetto all’iniziale «obiettivo di occupare la maggior parte dell’Ucraina». Ma, come sottolinea l’intelligence della Difesa britannica nel suo ultimo aggiornamento sulla guerra, Severodonetsk «è solo uno dei numerosi obiettivi che la Russia dovrà raggiungere per occupare l’intera regione del Donbass. Tra questi, l’avanzata sul centro principale di Kramatorsk e la messa in sicurezza delle principali vie di rifornimento per la città di Donetsk».

Ore 07:49 – Missili su Kiev, almeno un ferito in un edificio residenziale

Mentre a Kiev sono in corso le operazioni per spegnere gli incendi causati dai bombardamenti di questa mattina e mettere in salvo le persone, il primo bilancio delle esplosioni è di almeno un ferito, secondo il servizio di emergenza ucraino, come riporta Unian. «In seguito ai bombardamenti nemici, è scoppiato un incendio in un edificio residenziale di 9 piani con parziale distruzione del settimo, ottavo e nono piano — si legge in un comunicato —. Si è verificato un incendio su una superficie totale di 300 mq. Sono in corso le misure per spegnere l’incendio e trarre in salvo le persone. Secondo i dati preliminari, una persona è rimasta ferita».

Ore 07:32 – Cremlino: nessuna riunione di emergenza di Putin nella notte

Il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, ha smentito le voci rimbalzate sui social secondo le quali nella tarda serata di ieri il presidente russo Vladimir Putin si sarebbe recato nel palazzo presidenziale per tenere una riunione di emergenza nella notte. «No. Non è così. Va tutto bene», ha detto Peskov all’agenzia Ria Novosti.

Ore 07:16 – Nyt, agenti segreti occidentali a Kiev per assistenza in intelligence

Alcuni agenti segreti degli Usa e di Paesi della Nato sarebbero presenti in Ucraina per aiutare le forze armate di Kiev in materia di intelligence e di addestramento delle truppe. Lo riporta il New York Times citando fonti qualificate. Una pratica che sarebbe «ben nota» anche a Mosca. Oltre a fornire informazioni sensibili, questa rete di agenti coordinerebbe le rotte di trasporto di armi occidentali e l’istruzione per i militari ucraini. Fonti sia europee che americane hanno detto al New York Times che i commando non prendono parte alle ostilità in prima linea, ma hanno funzione di supporto attraverso canali di comunicazione segreti o nelle basi militari nelle retrovie.

Ore 06:11 – Il sindaco di Kiev: «Il distretto di Shevchenkivskyi colpito dalle bombe»

Le esplosioni all’alba a Kiev sono state confermate dal sindaco della città: «Diverse esplosioni sono avvenute nel distretto di Shevchenkivskyi. Sul posto sono intervenuti i soccorritori e le ambulanze» ha scritto su Telegram il primo cittadino della capitale, Vitali Klitschko.

A sua volta il deputato ucraino Oleksiy Goncharenko ha aggiunto su Twitter: «Sono state udite quattro esplosioni, ora c’è fumo nero sopra la città. I missili hanno colpito edifici residenziali, non ci sono ancora informazioni su eventuali vittime». Secondo quanto riferito dal sindaco di Kiev, le persone residenti negli edifici colpiti sono state soccorse ed evacuate.

Secondo i media ucraini i missili lanciati sarebbero stati in tutto 14, alcuni dei quali sono stati intercettati dalla contraerea.

desc img

Un edificio bombardato all’alba a Kiev (Nariman El-Mofty / Ap)

Ore 06.00 – Suona l’allarme per un attacco aereo a Kiev: serie di esplosioni

Rating 3.00 out of 5

Superbonus 110%, il M5S all’attacco di Mario Draghi. Guerra a oltranza: “La pazienza è finita”. Pronta la crisi di governo

sabato, Giugno 25th, 2022

Christian Campigli

Nemmeno il tempo di metabolizzare la scissione dal figliol prodigo Luigi Di Maio che i Cinque Stelle tornano all’attacco della diligenza dell’esecutivo guidato da Mario Draghi. Stavolta il tema della contesa non sono le armi da inviare in Ucraina. Ma lo stallo sui bonus dell’edilizia. Sull’ormai famigerato 110%. “Se il governo non sblocca e riattiva subito una vera circolazione dei crediti d’imposta vuol dire che esiste un problema di fronte al quale la nostra pazienza è destinata a finire”. Parole di fuoco, quelle pronunciate dal senatore pentastellato Agostino Santillo. “Siamo stanchi di ripetere che l’incidenza del Superbonus sulle frodi è minima, stanchi di sottolineare che le truffe sono relative ad altri bonus e fanno riferimento soprattutto al 2021, quando non erano ancora intervenuti i vari decreti antifrode. Soprattutto siamo stanchi di far notare al governo che non si può sempre e solo puntare l’indice sui costi del Superbonus, che peraltro è un investimento in transizione ecologica confermato nello stesso Pnrr ed elogiato dall’Ue, senza considerare tutti gli effetti benefici prodotti dalla misura e dalla circolazione dei crediti d’imposta sul sistema economico in termini di maggiori entrate fiscali, incremento del numero delle imprese, aumento dei posti di lavoro, conseguente aumento dei consumi, incremento degli acquisti collaterali alle agevolazioni edilizie, aumento del risparmio energetico conseguito e incremento del valore degli immobili”. Questa l’analisi. L’esponente grillino alza poi il tono, e fa capire che, in caso contrario, la già traballante nave dell’allievo di Federico Caffè, potrebbe presto affondare.

Rating 3.00 out of 5
Marquee Powered By Know How Media.