Annalisa Cuzzocrea
C’è una legge su cui si combatte da anni che sancisce un principio
tanto semplice quanto inoffensivo: se sei un bambino e vivi in Italia da
molto tempo, se frequenti le nostre scuole, se magari sei nato qui da
genitori arrivati da lontano, per avere la cittadinanza italiana ti
basta fare una richiesta al tuo Comune. E nessuno troverà strani motivi
per non concedertela. Viste da chi vive nel mondo reale, quello in cui i
nostri figli hanno compagni di classe filippini, cingalesi, rumeni,
ucraini, russi, cinesi, le ragioni di chi si oppone a questa legge, che
nella sua nuova versione si chiama “ius scholae”, ma è già stata “ius
culturae” e prima ancora “ius soli temperato”, sono incomprensibili.
Ci sono un milione e mezzo di ragazzi nati o cresciuti in Italia che
aspettano la cittadinanza. Di questi, 877mila sono studenti. Magari non
hanno le gambe lunghissime, non volano nei 100 metri, non sono star di
Tik Tok, ma a quella cittadinanza avrebbero diritto perché non si tratta
di un premio. «Devi maturarla», ha detto il segretario della Lega
Matteo Salvini mentre il suo partito faceva di tutto per ostacolare la
legge alla Camera. «Bisogna aspettare i 18 anni per richiederla, come
adesso», ha spiegato più volte. E peccato che quelle richieste siano
spesso evase con molta lentezza, almeno due anni, quando non mancano
documenti, continuità abitativa e chissà che altro. E’ un percorso
tardivo, lungo, a ostacoli. «Cosa cambia?», chiede sempre chi non
capisce cosa sia una discriminazione. Cambia che se sei un campione e
vuoi correre con la maglia dell’Italia, il Paese di cui ti senti parte,
non puoi. Ma cambia anche che se sei un ragazzo normale, hai finito gli
studi e vuoi fare un concorso pubblico, ti è vietato l’accesso. Cambia
che tu sei uguale, ma la burocrazia di uno Stato cieco ti legge diverso.
E se anche hai le stesse passioni, lo stesso dialetto, gli stessi
interessi del ragazzino figlio di italiani che ti siede accanto sui
banchi di scuola, ci sarà qualcuno – in un ufficio pubblico, mentre
invii un documento, fai una gara o un concorso – che ti dirà no, non lo
sei. In tutte le rilevazioni recenti, almeno il 60 per cento degli
italiani si dichiara favorevole alla cittadinanza per i bambini figli di
immigrati. Perché nessuno, neanche chi vi si oppone, è in grado di
negare una verità incontrovertibile: maggiori diritti portano maggiore
integrazione. Se sono i contrasti sociali quelli che si temono, è
ampliando la sfera dell’accoglienza che li si combatte, non
restringendola.
E così, lo Ius scholae diventa il perfetto terreno di incontro tra diritti civili e diritti sociali. E ha come luogo di elezione la scuola, l’istituzione che per antonomasia è il luogo di emancipazione di ogni cittadino. Perché deputata, da sempre, a costruire possibilità, ad abbattere diseguaglianze. Fallire adesso su una legge che consente a chi è nato qui da genitori stranieri, o è arrivato da piccolo e ha concluso un ciclo scolastico, di diventare italiano, sancirebbe – ancora una volta – il distacco del Parlamento dal Paese reale. Come per il fine vita. Come per il ddl Zan. A chi dice «non serve», basta ricordare cos’è successo a Lodi solo cinque anni fa. Quando l’amministrazione leghista della città decise che per consentire ai figli di immigrati di accedere alle mense e ai pulmini scolastici a prezzo agevolato, come per tutte le persone con redditi bassi, serviva qualcosa in più. Una “certificazione relativa al patrimonio di beni immobili rilasciata dagli Stati di origine e corredata di traduzione in italiano legalizzata dall’Autorità consolare italiana”. Era un documento difficilissimo da reperire. Ed era, a tutti gli effetti, una trappola. Un modo per praticare una discriminazione. Su dei bambini. Costringendoli a tornare a casa per pranzo o a mangiare panini da soli in classe. Si sono mossi i comitati cittadini e l’Asgi, l’associazione Studi Giuridici.