Archive for Settembre, 2022

L’«ultimo miglio» della campagna elettorale: scatti, inciampi e profezie

giovedì, Settembre 22nd, 2022

di Tommaso Labate

Dal balzo di Berlusconi nel 2008 al blitz M5S nel 2013. Il finale di ogni campagna riserva spesso sorprese

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Comunque vada, Giorgia Meloni si prenderà tre giorni. «Da lunedì mattina — ha confidato agli amici più stretti — per tre giorni devo disintossicarmi. Zero politica, zero contatti con persone che parlano di politica. Ho bisogno di stare con mia figlia», ripete come un mantra dall’inizio dell’ultimo conto alla rovescia. Già da prima che iniziasse la settimana che può finire con un cambio radicale della sua esistenza, la leader di Fratelli d’Italia aveva raccontato anche di fronte alle telecamere della sua voglia di «tornare in palestra», di «andare dal parrucchiere», di ricalibrare mente e corpo rispetto a quello che può succedere «dopo». Riannodare i fili del «prima» per poter essere pronta a quello che succederà, insomma.

È l’ultimo miglio della lepre. L’ultimo giro del pilota in testa alla gara di Formula 1, con la bandiera a scacchi che è più vicina ma sembra sempre più lontana; l’ultimo chilometro del corridore in fuga nella tappa alpina o dolomitica del Giro d’Italia, tanto per usare una metafora cara a Enrico Letta. Il momento più ansiogeno di chi — a ragione o a torto — viene considerato il vincitore annunciato; che coincide col momento in cui, in fondo, avendo già vinto, puoi solo perdere. Guido Crosetto, l’imprenditore e amico, l’uomo con cui ha fondato quel partitino diventato un partitone, portato dal 3 a chissà quanto percento, ha trovato le parole per infondere tranquillità a tutta la ciurma di dirigenti di Fratelli d’Italia. Non c’è riunione o telefonata in cui non dica, «ragazzi, quello che è fatto è fatto e credetemi, possiamo solo essere soddisfatti. Se guardiamo indietro alle ultime settimane, non c’è storia: Giorgia ha fatto la campagna elettorale più bella. E la prova sta nel fatto che tutti gli altri leader, dal primo all’ultimo, l’hanno inseguita su ogni terreno. Nonostante gli attacchi ricevuti, da dentro e da fuori l’Italia, è riuscita a spiegare la sua idea di Paese. Il resto, vedrete, verrà da sé».

I sondaggi compulsati ogni ora, perché oltre ai propri ci sono sempre quelli commissionati dagli altri, non aiutano a stemperare la tensione. «Se finissimo a essere il primo partito», ragiona ad alta voce un dirigente di primo piano di FdI, «avremmo fatto una scalata leggendaria. Poi però ti fermi un attimo a pensare e dici a te stesso: e se noi raggiungessimo una cifra alta ma comunque più bassa rispetto a quello che tutti si aspettano, le cose rimarrebbero invariate?».

E qui si passa alle forbici nei sondaggi, che sembrano ristrette ma possono essere larghissime. Alle ultime elezioni, dentro Forza Italia si ragionava alla vigilia dell’ipotesi di un accordo post elettorale di larghe intese col Pd. «E poi — prosegue la fonte — è bastato che Salvini prendesse qualcosa in più di Berlusconi, che i Cinque Stelle rubassero un’altra fetta di elettori a Renzi e puf… è arrivato il governo gialloverde e addio sogni di gloria».

Tra i sostenitori di Giorgia Meloni c’è qualche veterano che ha fatto in tempo a vedere da vicino l’ultimo miglio della campagna elettorale del 2001, quella del 61 a 0 in Sicilia. Un risultato all’apparenza già scritto; eppure «se avesse avuto altre due settimane di tempo», confessò Berlusconi qualche mese dopo il voto, «il centrosinistra di Rutelli ci avrebbe sorpassato». Lo stesso Berlusconi, nel 2008, all’alba di un’altra vittoria annunciata, si trovò a urne chiuse a fronteggiare una nutrita pattuglia di forzisti che si era presentata nella tarda mattinata di lunedì a Palazzo Grazioli (si votava per due giorni) a dirgli di abbassare i toni «perché gli ultimi dati che arrivano dimostrano che non avremo la maggioranza al Senato». «Non vi preoccupate», rispose il Cavaliere. «Vinceremo bene!». E così fu.

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La nuova fase della guerra di Putin e l’appello della Cina: «Serve una tregua e il ritorno al dialogo»

giovedì, Settembre 22nd, 2022

di Guido Santevecchi

Il presidente Xi Jinping teme il «caos mondiale» e le ricadute economiche per il Paese. E pensa a Taiwan

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Vladimir Putin e Xi Jinping a Samarcanda lo scorso 16 settembre (Afp)

DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
PECHINO – Che cosa pensa Xi Jinping della nuova fase della guerra di Vladimir Putin contro l’Ucraina e il campo occidentale? Il portavoce del ministero degli Esteri di Pechino, a domanda ha risposto: «La posizione della Cina è stata sempre coerente e chiara nel chiedere un cessate il fuoco attraverso il dialogo e il negoziato, il rispetto della sicurezza, sovranità e integrità territoriale di tutti i Paesi, l’osservanza dei principi contenuti nella carta delle Nazioni Unite». Il diplomatico ha aggiunto che «servono sforzi internazionali per una risoluzione pacifica delle crisi».

Sono mesi che Pechino parla in linea di principio della necessità di un dialogo che porti a una tregua. All’inizio ha invocato ragioni umanitarie, ora comincia a fare i conti anche economici su quello che Xi chiama «il caos mondiale» e fa riferimento all’Onu (dove peraltro si è ripetutamente astenuta nei voti sulla crisi ucraina). Parlare di nuovo ora di cessate il fuoco potrebbe essere uno sviluppo? Anche il rifiuto cinese di definire l’azione russa per quello che è, un’aggressione, era stato letto da alcuni governi ottimisti come un espediente di Xi per mantenersi neutrale e poter agire da mediatore (prima o poi). Di fatto, la Cina ha solo mantenuto la sua ambiguità strategica, non ha mai segnalato una volontà di impegnarsi in un negoziato tra le parti. L’interesse strategico di Pechino sembra la disunione dell’Occidente, più che la vittoria della Russia.

Una novità notevole è venuta da Vladimir Putin, che incontrando Xi a Samarcanda la settimana scorsa ha ammesso che «la Cina è preoccupata e ha delle domande sulla questione ucraina». Tradotto: significa che in questi mesi sono emerse tensioni con l’alleato. E che in realtà gli interrogativi cinesi sono centrati non sulla sorte di Kiev ma sulla tenuta di Mosca.

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Proteste in Russia, voli esauriti e fughe: il fronte interno mostra nuove crepe

giovedì, Settembre 22nd, 2022

di Marco Imarisio

Biglietti aerei dei voli con prezzi alle stelle, 900 arresti nelle maggiori città: la Russia metropolitana (e non solo) non crede più nell’«uomo forte»

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«Credo nel vostro sostegno». Non è una professione di fede, ma una richiesta di aiuto. L’analisi del discorso di Vladimir Putin dovrebbe cominciare dalla fine. Dall’utilizzo di una locuzione mai usata in epoca recente, l’unico precedente risale all’appello per il voto nel 2008, dietro alla quale si nasconde una parziale ammissione. L’uomo della forza per eccellenza , che negli ultimi vent’anni ha convinto il suo popolo di essere l’unica scelta per ridare ordine e potenza a una nazione in crisi di fiducia, questa volta non ce la fa da solo. Non ha più la situazione sotto controllo.

Era la sua guerra, questa. La sua Operazione militare speciale, un giro di parole per dire che non stava succedendo niente. E adesso facendo appello al supporto, e quindi alla benevolenza della sua gente, ammette in modo quasi esplicito di avere cominciato qualcosa che non riesce a finire. Le prime risposte sono arrivate subito, e non sono certo incoraggianti per lui. L’aumento del traffico alla frontiera con la Finlandia, l’unico confine di terra che consente ancora il passaggio ai cittadini russi forniti di visto per i Paesi europei, è un piccolo segnale. Anche se la tendenza era in atto già dalla scorsa settimana quando, con una mossa che lasciava presagire quanto stava per accadere, il Cremlino aveva aumentato le limitazioni per il permesso di espatrio.

Come sempre, esiste il rischio di dare grande importanza a indizi parziali, per renderli compatibili ai desideri occidentali. Se davvero c’è un esodo in atto, riguarda soltanto una piccola fascia di popolazione, quella più metropolitana e acculturata. Sono «gli insetti» che Putin ha già dato per persi da tempo. Quelli che hanno le risorse per acquistare biglietti aerei con prezzi all’improvviso schizzati alle stelle. Ieri sera per uno degli ultimi voli disponibili da Mosca a Dubai, la tratta più facile e battuta, bisognava pagare l’equivalente di 12.500 euro. A inizio giornata il costo era di appena mille euro. La verità è che questa mobilitazione parziale, altro giro di parole per negare una chiamata alle armi pressoché generale, dato che le esenzioni previste riguardano finora soltanto età, salute e fedina penale, può contare su un serbatoio immenso. Secondo l’ultimo censimento, effettuato nel 2016, il 74 per cento dei russi non ha un passaporto per l’estero. È la Russia più profonda, che da sempre rappresenta l’architrave del consenso putiniano.

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Perché serve il rigassificatore di Piombino contro l’emergenza gas?

mercoledì, Settembre 21st, 2022

di Fausta Chiesa e Milena Gabanelli

Il conto alla rovescia per l’inizio della stagione «termica», quando si accendono i riscaldamenti – in genere al Nord il 15 ottobre e i primi di novembre al Centro-Sud – è cominciato. Da fine febbraio, mese di inizio del conflitto in Ucraina, la parola d’ordine in Europa, ma soprattutto in Italia e Germania che dipendono fortemente da Mosca, è: «comprare gas da altri fornitori». Il nostro Paese l’anno scorso ha acquistato da Gazprom 29 miliardi di metri cubi di gas. Tutto quello che si poteva fare per sostituirlo è stato fatto: aumentati i flussi via gasdotto da Norvegia, Azerbaijan, l’Algeria – diventata oggi il nostro primo fornitore – spinto sulla produzione di rinnovabili, rimandate a pieno regime le centrali a carbone, aumentata un pò l’estrazione nazionale, quasi riempiti gli stoccaggi. In sostanza rimpiazzati, dice il ministro Cingolani, 18 miliardi di metri cubi. Come colmare l’ammanco di 11 miliardi? La soluzione più rapida è importare più gas naturale liquefatto, che viaggia su navi e quindi si può prendere ovunque nel mondo. I maggiori esportatori di Gnl per l’Italia sono il Qatar, l’Algeria, gli Stati Uniti, e in parte minore l’Egitto e la Nigeria. Ma poi bisogna rigassificarlo, e di rigassificatori ne abbiamo solo 3. La Spagna per esempio ne ha sei.

Gli impianti attivi e quelli nel cassetto

Il primo si trova sulla costa ligure a Panigaglia, in provincia della Spezia, è stato realizzato negli Anni ‘70 e ha una capacità massima di 3,5 miliardi di metri cubi all’anno. Il secondo in mare, a Porto Vigo, in provincia di Rovigo, e ha appena aumentato la portata da 8 a 9 miliardi di metri cubi. Il terzo è al largo di Livorno, ha 3,75 miliardi di metri cubi di produzione ed è stata fatta domanda per salire a 5. Da gennaio ad agosto hanno rigassificato quasi 9 miliardi di metri cubi (+25% rispetto all’anno scorso) e per i prossimi mesi e anni la loro capacità è già stata ampiamente prenotata.

Perché ne abbiamo soltanto tre? Perché avevamo i gasdotti e il Gnl costava di più, e perché la resistenza dei territori alla costruzione di questi impianti è sempre stata molto forte Per questo, abbiamo lasciato nel cassetto per anni due progetti già approvati: quello di Enel a Porto Empedocle (Agrigento), e quello a Gioia Tauro di Sorgenia e Iren. Nel Piano energetico nazionale del 2017 questi progetti di grossa taglia non sono rientrati tra le infrastrutture che il governo ha selezionato per la diversificazione delle fonti. Con l’invasione dell’Ucraina, lo scenario è improvvisamente cambiato. Che fare con i 2 progetti? In Sicilia c’è la resistenza della popolazione, mentre in Calabria il presidente della Regione Roberto Occhiuto lo vorrebbe. Il costo stimato, secondo il Ministro della Transizione Ecologica, è di circa 3 miliardi e non potrebbero essere pronti di 4 anni. E allora dove rigassificare le forniture aggiuntive che stiamo comprando in giro per il mondo?

La soluzione delle navi già pronte

Per fare presto, la soluzione è prendere rigassificatori già pronti, cioè navi già attrezzate. Snam, su mandato del governo, a giugno ha acquistato per 750 milioni di dollari complessivi, la Golar Tundra e la Bw Singapore. Ciascuna ha una capacità di 5 miliardi di metri cubi, quindi abbastanza per renderci quasi autonomi dalla Russia, in più essendo galleggianti, si possono rimuovere ed essere rivendute. Una sarà collocata a Piombino e l’altra al largo di Ravenna. Per velocizzare i tempi, a inizio giugno il premier Mario Draghi ha creato i commissari straordinari per i rigassificatori, nominando il presidente della Regione Toscana Eugenio Giani e quello dell’Emilia-Romagna Stefano Bonaccini. La scelta su Ravenna è motivata dal fatto che c’è già la piattaforma offshore, però non sarà operativa prima della primavera 2024 perché l’infrastruttura di collegamento dal mare alla rete è lunga e richiede tempo. A Piombino invece c’è una banchina libera e inutilizzata (la Darsena Nord, costruita per ospitare il relitto della nave Concordia), e il collegamento alla rete del gas può essere realizzato entro la prossima primavera.

Piombino: le resistenze

In un momento in cui la possibile mancanza di gas non è remota, la tempistica è cruciale. Per questo, per entrambe le navi è stato approvato un iter semplificato, e Snam ha già presentato un’istanza su tutti gli aspetti, inclusi quelli ambientali e di sicurezza, con oltre 500 documenti. I tempi per l’autorizzazione della nave a Piombino scadono a fine ottobre. Se saranno rispettati, subito dopo l’ok inizieranno i lavori propedeutici. Il presidente Giani ha raggiunto un accordo con Snam per far restare la nave solo tre anni in porto e poi sarà messa a 12 chilometri di distanza dalla costa. Però a livello locale le proteste sono molto forti, e le obiezioni sono tre:
1) c’è un problema legato alla sicurezza (ma l’impianto è sottoposto alla legislazione Seveso.
2) Alla nave rigassificatrice accostano navi metaniere che consegnano il Gnl, e quindi esiste il timore che ci possano essere interferenze con i traghetti che portano all’isola d’Elba. Di fatto arriverà una nave metaniera alla settimana con due ore di manovra di ormeggio e due di disormeggio, ed è possibile che avvenga di notte.
3) L’impianto può interferire con attività di itticoltura. Per tutte queste ragioni è contrario alla nave il Pd cittadino e il sindaco Francesco Ferrari (FdI) che dice di aver ricevuto rassicurazioni dal partito sul fatto che una volta al governo si cercheranno anche «altre soluzioni». Dall’altra parte le compensazioni per i disagi previste dal Commissario straordinario ammontano a 600 milioni di euro, tra bonifiche, infrastrutture per migliorare il porto, sostegno alla pesca, itticoltura, turismo e per alleviare le bollette dei cittadini.

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Dal Superbonus alle facciate: il punto della situazione sui bonus edilizi

mercoledì, Settembre 21st, 2022

Giuditta Mosca

Ecobonus, Superbonus, bonus facciate e bonus barriere architettoniche. Sono diversi i bonus edilizi dei quali si può usufruire, in alcuni casi soltanto per pochi mesi. Il decreto Aiuti bis ha risolto la questione della cessione del credito del Superbonus 110%, oggetto di attenzioni da parte del governo e delle autorità deputate alla verifica delle erogazioni che hanno coinvolto anche gli istituti di credito, scaricando in principio anche su di loro la responsabilità di eventuali abusi e poi scegliendo la strada del concorso di responsabilità, soltanto nei casi in cui venisse provato il dolo o la colpa grave. Ci sono però altri bonus dei quali si può ancora usufruire.

Bonus edilizi, Superbonus 110%

il Superobnus è il re dei bonus edilizi ed è stato al centro di lunghe polemiche, ultima delle quali, quella nata attorno all’eventualità di dovere documentare lo stato di avanzamento dei lavori con video e fotografie.

Per le case unifamiliari non ci sono state proroghe, chi vuole usufruirne deve dimostrare entro il 30 settembre di avere portato a termine almeno il 30% dei lavori per sfruttarlo appieno, ovvero in misura del 110%.

Diversa la questione per i condomini. C’è tempo fino al 31 dicembre del 2023 per avviare i lavori e, scaduto questo termine, è possibile usufruire dell’agevolazione anche nel 2024 e nel 2025 con una percentuale del contributo che scenderà, rispettivamente, al 70% e al 65%.

Ecobonus e bonus ristrutturazione

L’ecobonus standard scadrà il 31 dicembre 2024 e prevede un beneficio tra il 50% e l’85% della spesa, detraibile in 10 anni. Può essere richiesto anche per gli edifici non residenziali ed è applicabile anche ai soggetti Ires, le imprese.

Il bonus ristrutturazione è un evergreen. È stato introdotto con il decreto del presidente della Repubblica 917/1986 ed è stato potenziato con il passare degli anni. Chi ne usufruisce entro la fine del 2024 può ottenere una detrazione fiscale pari al 50% delle spese fino a un limite di 96mila euro. Nel 2025 la percentuale verrà ridotta al 36% per un massimo di 48mila euro. Le detrazioni sono da spalmare su 10 anni.

Bonus facciate

Scadrà il 31 dicembre del 2022 e non sembrano apparire proroghe all’orizzonte. È stata la misura più abusata, tant’è che oggi – insieme al Superbonus 110% – è oggetto di verifiche più stringenti e la percentuale del rimborso è scesa dal 90% al 60%, usufruibile in 10 anni e senza tetto di spesa.

È un bonus riservato agli immobili esistenti e, in quanto tale, non può essere applicato né agli immobili in costruzione né a quelli demoliti.

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Pressing di Ue e Usa. Così è finito l’idillio tra Draghi e Meloni. I molti timori di Biden

mercoledì, Settembre 21st, 2022

Adalberto Signore

Due sere fa, mentre ritirava a New York il premio dell’Annual Awards Dinner, Mario Draghi ha ascoltato i discorsi dell’ex segretario di Stato americano Henry Kissinger, del Ceo di Blackstone Group Stephen Schwarzman e del Rabbino Arthur Schneier. Tutti convinti sostenitori della «visione» e della «leadership» dell’ex numero uno della Bce che «ha ispirato una rinnovata fiducia globale nell’Italia». Pure il presidente Joe Biden ha mandato un saluto per l’occasione. E si è complimentato con Draghi, definendolo «una voce potente». Lodi ed elogi per quanto fatto e, aggiunge Schwarzman, «per quanto potrà fare» in futuro. Già, perché al World Statesman Award, c’è un pezzo importante dell’America che conta. E tutta ragiona come se Draghi fosse ancora saldamente in campo e come se in Italia non fossero ormai imminenti le elezioni. In verità, siamo ormai alla vigilia del voto. E a certificarlo non c’è solo il dato fattuale del calendario, ma pure le tensioni di una campagna elettorale ormai agli sgoccioli. Così forti, da incrinare un rapporto di reciproca stima che – nonostante distanze e divergenze di vedute – negli ultimi mesi non era mai venuto meno. Quello tra Draghi e Giorgia Meloni. Il primo le ha sempre riconosciuto il ruolo di opposizione responsabile, concedendogli in questo anno diversi e lunghi faccia a faccia a Palazzo Chigi (a differenza di quanto accaduto ad alcuni leader della maggioranza). La seconda, invece, ci ha tenuto ad evitare gli argomenti propagandistici e non eccedere nei toni, limitando le critiche al governo al merito dei provvedimenti, tanto che per l’occasione qualcuno ha rispolverato il soprannome di «draghetta».

Da una settimana a questa parte, però, l’equilibrio è cambiato. Con una tensione crescente, frutto anche del pressing dell’Ue e, in particolare, dell’asse franco-tedesco. Non è un caso che negli ultimi giorni la Meloni sia finita nel mirino di Parigi e Berlino, con il Financial Times e il Guardian che sono arrivati a profetizzare «conseguenze terribili» nel caso di una sua vittoria. La spinta che arriva da Bruxelles, insomma, è pressante. E, a cascata, anche i vertici dell’amministrazione americana iniziano a guardare al voto italiano con particolare interesse. La posizione filoatlantica di FdI, da sempre con Kiev e decisamente ostile a Vladimir Putin, rassicura la Casa Bianca. Ma il forcing dell’asse franco-tedesco è comunque un elemento di cui Washington tiene conto.

E’ anche per questo che negli ultimi giorni Draghi ha cambiato approccio rispetto alla Meloni. E dal discorso al Meeting di Rimini che in molti, anche nel Pd, avevano letto come una legittimazione è passato all’affondo di qualche giorno fa in conferenza stampa. Con la Meloni che l’altro ieri ha risposto per le rime. Nervosismi da campagna elettorale, è l’impressione che ne hanno avuto a Palazzo Chigi. Più o meno lo stesso ragionamento che fanno a via della Scrofa, dove la convinzione è che l’ex Bce voglia mantenere la sua equidistanza ora che siamo alla vigilia del voto.

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Conte & D’Alema, la coppia anti-Draghi

mercoledì, Settembre 21st, 2022

Ilario Lombardo

ROMA. Nell’archivio dei ricordi di questa legislatura feroce, c’è una fotografia. 2019, settembre inoltrato: Giuseppe Conte arriva alla festa di Articolo Uno. L’avvocato è sopravvissuto a se stesso. È appena nato il secondo governo che porta il suo nome. La Lega di Matteo Salvini è naufragata nel mojito del Papeete, e al suo posto come partner del M5S sono subentrati il Pd e la sinistra. Qualche grillino si lecca le ferite sovraniste. Per esempio, Luigi Di Maio: in quei giorni è ancora il teorico del «mai con i democratici». Il ministro, appena traslocato agli Esteri, ha subìto il matrimonio di interessi con loro. Ad accogliere Conte, in prima fila, ci sono Roberto Speranza e Massimo D’Alema. Il primo è da pochi giorni ministro della Salute. Il secondo sta per diventare uno dei principali confidenti politici dell’allora premier. Conte si sente a casa e dice: «Mi fido del Pd».

Esattamente tre anni dopo, tanti ruoli si sono capovolti. Di Maio corre in un seggio che gli ha lasciato il segretario dem Enrico Letta e se sarà eletto dovrà ringraziare quello che definì «il partito di Bibbiano». Tra Conte e il Pd il divorzio è stato rumoroso. E il primo non si fida più del secondo. L’avvocato, invece, non ha mai smesso di sentire e di confrontarsi con D’Alema. C’è una corrispondenza evidente tra i due ex premier, accomunati dallo stesso giudizio sul Pd, su Mario Draghi e sulla guerra in Ucraina. Quando Conte era a Palazzo Chigi, le telefonate con D’Alema erano già abbastanza frequenti. Ma il legame si è fatto via via più solido, quanto più si allargava la distanza dai democratici e, ancora di più, dal presidente del Consiglio uscente.

C’è anche un po’ di D’Alema dietro l’operazione che ha reso Conte un volto attrattivo per l’elettorato più a sinistra. Sicuramente c’è la sua benedizione, e il suo sostegno. Il presidente del M5S respinge l’idea che ci sia l’ex segretario del Pds dietro la sua strategia, ma non nega di sentirlo. «Certamente condividiamo lo stesso giudizio su Draghi» dice. Un giudizio che si è fatto meno sfumato, più netto e duro. Ecco, per esempio, cosa diceva l’altro ieri al telefono: «Draghi non ha compreso l’emergenza, e dimostra tuttora di essere lontano dalle difficoltà quotidiane dei cittadini. Prendiamo l’ultima conferenza stampa. Ha detto che tutto va bene, perché non siamo matematicamente in recessione? Con le bollette decuplicate?». Conte precisa che su Draghi ha mantenuto e manterrà la sua opinione sempre su un piano puramente politico. «Non ho mai voluto scendere sul personale, anche quando avrei potuto, come sulla famosa telefonata a Grillo». La telefonata in cui, secondo il comico fondatore del M5S, il premier gli avrebbe suggerito di mettere alla porta Conte. A due mesi dalla crisi di governo che ha portato alla caduta di Draghi e al termine di una campagna elettorale che è stata rapida e sorprendente, Conte sente di dover rimettere in ordine i fatti: «Quando lo fermai sulle armi, in primavera, mi disse che volevo la crisi di governo. L’inflazione era già fuori controllo e lui sosteneva che era solo passeggera. Ha sbagliato i calcoli».

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Pericolo “cut off” sull’Italia, arriva la “goccia fredda” che porterà condizioni di meteo estremo: cosa significa e dove colpirà

mercoledì, Settembre 21st, 2022

Giampiero Maggio

Immaginate una grande massa d’aria fredda alle latitudini polari. Insomma, una vasta e potente depressione che in questa stagione, solitamente, è rintanata alle latitudini più elevate. Ecco, ora immaginate che da questa enorma massa si stacchi un “lobo” e che questo si diriga nel cuore del Mediterraneo. In termini meteorologici si parla di “cut off” o “goccia fredda”. In pratica si tratta di una configurazione meteorologica che potenzialmente è in grado di diventare molto pericolosa, determinando per giorni e giorni pessime condizioni del tempo. In alcuni frangenti può essere responsabile di maltempo pesante, con temporali autorigeneranti e nubifragi: ad esempio quando la “goccia fredda” resta bloccata tra due aree di Alta Pressione. In quel caso non può procedere verso Est continuando a scaricare sulla stessa area geografica. È davvero quello che accadrà la prossima settimana in Italia? Vediamo di fare chiarezza.

Una mappa prevista per il 28 settembre a 500 hpa (circa 5000 metri di quota)  

I meteorologi stanno “annusando” la situazione di un deterioramento pesante delle condizioni meteo da diversi giorni. Ilmeteo.it di Antonio Sanò parla di «situazione potenzialmente pericolosa». Quel che è molto probabile è che rischiamo di passare da un’estate prolungata ad una stagione autunnale improvvisa e soprattutto con temperature (segnatamente al Centro Nord) anche di diversi gradi più bassi rispetto alla media stagionale. «Già nel corso della prossima settimana (la stagione autunnale inizierà Venerdì 23 Settembre) – spiega Mattia Gussoni de ilmeteo.it – si verrà a creare una pericolosa configurazione per l’Italia con effetti che potrebbero essere pesanti su molte delle nostre regioni».

Dovrebbe iniziare tutto lunedì 26 settembre quando, appunto, le condizioni meteo potrebbero peggiorare a causa, appunto, del distacco di una “goccia fredda” che dalle latitudini più elevate si staccherà portando maltempo prima sull’Europa Centrale e poi nel cuore del Mediterraneo.

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Guerra Russia – Ucraina, l’ultima follia di Putin: lo zar sceglie l’escalation

mercoledì, Settembre 21st, 2022

Giuseppe Agliastro

MOSCA. La situazione in Ucraina rischia di diventare ancora più difficile e drammatica. Sempre più isolata sul piano politico e in difficoltà sul piano militare, la Russia di Putin potrebbe annettersi illegalmente i territori ucraini occupati dalle sue truppe sfruttando dei “referendum” farsa. Una mossa che non sarebbe ovviamente riconosciuta dalla comunità internazionale e che rischia di condurre a una nuova impennata delle violenze.

Il “voto”, ovviamente illegittimo, è stato annunciato dalle sedicenti “autorità” filo-Cremlino delle zone occupate e viene organizzato a tamburo battente proprio mentre le forze armate ucraine hanno riconquistato alcuni territori nell’Est e nel Sud del Paese. Ma anche all’indomani della batosta diplomatica subita da Putin al vertice di Samarcanda, dove il premier indiano Narendra Modi ha detto chiaro e tondo al presidente russo che «oggi non è tempo di fare la guerra» e lo stesso Putin – che oggi parlerà alla Nazione – ha dovuto riconoscere le «preoccupazioni» della Cina nell’incontro con Xi Jinping.

Nelle zone occupate si voterà dal 23 al 27 settembre, e in particolare nelle zone delle regioni di Kherson e Zaporizhzhia nelle mani di Mosca e nelle autoproclamate “repubbliche” separatiste di Lugansk e Donetsk: “Stati” fantoccio che Putin ha riconosciuto poco prima di iniziare l’atroce invasione dell’Ucraina. Le urne si aprono quindi in tempi da record, addirittura già dopodomani, per dei “referendum” che si svolgono in piena guerra e che con ogni probabilità andranno ben lontano da ogni minimo standard democratico.

Il rischio è quello di una nuova escalation in un conflitto in cui hanno già perso la vita migliaia e migliaia di persone, tra cui moltissimi civili. Annettendosi le regioni occupate, seppure in palese violazione del diritto internazionale, la Russia potrebbe infatti considerare attacchi contro il proprio territorio le controffensive ucraine per riconquistare le zone in mano ai soldati di Mosca. «L’invasione del territorio russo è un crimine che ti permette di usare tutte le forze di autodifesa. Ecco perché questi referendum sono così temuti a Kiev e in Occidente», ha dichiarato l’ex presidente russo e ora numero due del Consiglio di sicurezza di Mosca, Dmitry Medvedev, ritenuto una volta un membro relativamente moderato dell’entourage di Putin ma che si abbandona da tempo a dichiarazioni all’insegna della peggior propaganda. Inoltre, le truppe russe occupano la maggior parte della regione di Lugansk, ma comunque non controllano interamente nessuna delle quattro regioni ucraine che Mosca vuole inglobare: la città di Zaporizhzhia – nella cui regione sorge la centrale nucleare di Energodar, che Russia e Ucraina si accusano a vicenda di bombardare – per esempio è controllata da Kiev e solo il 60% della regione di Donetsk è occupata dai soldati del Cremlino.

Dopo l’annuncio di ieri – di certo non un passo verso la pace – gli indici della Borsa di Mosca hanno registrato un calo di oltre il 10%, ma Putin in questi mesi ha dato più importanza agli obiettivi militari che a quelli economici e secondo la politologa Tatiana Stanovaya, citata dal Moscow Times, «tutto questo parlare di referendum immediati è un ultimatum assolutamente inequivocabile dalla Russia all’Ucraina e all’Occidente. Per garantire la “vittoria” – afferma l’esperta – Putin è pronto a indire immediatamente dei referendum per ottenere il diritto (pensa lui) di usare le armi nucleari per difendere il territorio russo».

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Tony Blair: “Quando la mia Regina cucinò e sparecchiò per me e Cherie senza perdere la sua aura”

mercoledì, Settembre 21st, 2022

Marcello Sorgi

L’uomo che convinse la Regina Elisabetta II a cambiare opinione su Diana e a chinare il capo davanti al feretro di Lady D è seduto nel suo ufficio alle spalle di Oxford Circus, paradiso dello shopping di lusso nel pieno di centro di Londra. Cravatta rigorosamente nera per il lutto nazionale proclamato per la scomparsa della sovrana, Tony Blair ricorda volentieri i suoi dieci anni da primo ministro in cui la incontrava regolarmente. Tra i due, anche dopo la fine dell’esperienza di Blair a Downing street, la storica residenza del capo del governo inglese, si era consolidato un rapporto personale di stima reciproca. Tanto che quest’estate, il 13 giugno, Elisabetta aveva voluto insignire lui, insieme a Camilla, l’attuale Regina consorte, dell’Ordine della Giarrettiera, la più alta onorificenza concessa dalla monarchia.

«L’avevo vista solo pochi mesi fa – racconta Blair -. Era in ottima forma. La sua morte, per me come per tutti è stata una grande tragedia inattesa, un grave momento epocale per il Paese e per tutto il mondo». Ma se gli si chiede che tipo fosse la Regina, vista da vicino, Blair risponde: «Per dieci anni da primo ministro la vedevo ogni settimana. Nel corso del tempo ho imparato a conoscerla. Ma oggi, quando la gente mi chiede quali fossero le sue vedute politiche, la risposta è che non lo so. Perché era sempre al di sopra delle vicende politiche contingenti. Ciò che le ha consentito di lavorare come garante dell’unità del Paese è che non ha mai preso parte alle vicissitudini politiche quotidiane».

Per quanto Blair si spenda a testimoniare l’assoluta superiorità della sovrana, è difficile credere che in dieci anni non le sia sfuggita una frase, un sospiro, un’espressione che lasciasse capire. Eppure Tony conferma: «Non ha mai cercato di spingermi in una direzione o in un’altra. Ma aveva istintivamente la capacità di cogliere l’umore collettivo del Paese e dell’opinione pubblica. Oltre a una grande empatia nei confronti del primo ministro, chiunque egli fosse. Ha avuto a che fare con molti primi ministri durante il suo regno. Capiva il peso delle responsabilità delle decisioni, ed era sempre molto gentile in privato. Questo è il motivo per cui la sua morte ha causato tanto dolore nel Paese. Tutti la consideravano una donna eccezionale, e non solo una monarca eccezionale».

La vita di Blair è trascorsa tutta nel segno di Elisabetta. Lei c’era già al momento della sua nascita, lui era bambino quando la vide per la prima volta. «Ero molto piccolo, ma non posso dimenticarlo. Vivevo a Durham, una città del Nord dell’Inghilterra in cui sono cresciuto, e mi ricordo che la Regina venne in visita. Io ero per strada a sventolare con altri bambini la bandiera britannica. Da allora in poi c’è stata per tutta la mia esistenza».

Ma occorre aspettare il 2 maggio del ‘97 – Blair intanto è diventato il giovane leader quarantenne del Labour party che ha vinto le elezioni – per il primo incontro faccia a faccia. «Quando ho avuto la prima udienza con lei, mi disse subito: “Lei è il mio decimo primo ministro, il primo è stato Winston Churchill, prima che lei nascesse”».

Un messaggio non esattamente incoraggiante, ma che certo conteneva il senso della sfida. In quel momento Elisabetta aveva superato i quarantacinque anni di Regno, le sue parole erano dettate dalla lunga esperienza che già aveva alle spalle. «È stata una presenza costante in un momento di grande cambiamento del Regno Unito – spiega Blair -. Negli anni ’50, quando è diventata Regina, il Regno Unito era un luogo completamente diverso da come è oggi. È una delle sue caratteristiche più straordinarie è stata di aver accompagnato la monarchia in un periodo di così grandi mutamenti: il Paese appare diverso, si sente diverso ed è diverso da quello che era 70 anni fa. Ma la presenza costante è stata lei».

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