Archive for Settembre, 2022

Da dove ripartire: un bagno di realtà in tre punti

domenica, Settembre 25th, 2022

di Ferruccio de Bortoli

Qualunque sia il nostro orientamento politico, il giorno del voto è un giorno di festa della democrazia. Se ci siamo abituati o lo viviamo come una sorta di adempimento amministrativo, la colpa è solo nostra. E della nostra scarsa e purtroppo labile memoria storica. Chi fu privato, troppo a lungo, della libertà di esprimere la propria opinione, nel momento in cui nacque la Repubblica, fondata sui valori della Resistenza, trovò nel recarsi alle urne il senso più profondo di una cittadinanza vera e consapevole. E lo fece anche pensando a chi non c’era più e non poté mai farlo.

Non è un caso che il diritto di voto sia stato pensato dai costituenti anche come un dovere civico, il cui mancato rispetto sarebbe stato persino punito. Un sentimento via via appannatosi, negli anni del nostro benessere (economico e democratico), fino a non essere sentito più come tale da larghi strati della popolazione. Dunque, qualunque sia il nostro orientamento politico, dobbiamo tutti augurarci che la partecipazione sia la più alta possibile. Una grande affluenza è segno di maturità, di comprensione della complessità dei problemi del Paese e della delicatezza del momento storico che stiamo vivendo. Sarà poi del tutto inutile discutere, da stasera in poi, sul voto di chi non vota. Non è una scelta. È la rinuncia ad esercitare un diritto-dovere. Un vuoto.

E ancora: qualunque sia la preferenza espressa — anche quella di non esprimersi — dovremmo essere tutti d’accordo nel considerare il governo che verrà nella sua piena legittimità e rispettabilità democratica.

«La sovranità appartiene al popolo — recita il fin troppo citato, ma solo a metà, articolo uno della nostra Carta — che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione». Chi vince ha il diritto-dovere di gestire il potere che gli viene conferito, ma all’interno di quelle forme e di quei limiti. La coscienza di quello che non si può fare — insieme alla responsabilità per l’urgenza di decisioni che riguardano l’intera comunità (e non solo le proprie coorti elettorali) — è la regola base di ogni buon governo. Le istituzioni non si occupano — è accaduto troppo spesso — bensì si rappresentano al meglio. Con «disciplina e onore» — com’è scritto sempre nella Costituzione. E con una adeguata preparazione, verrebbe da aggiungere.

Il consenso non fa curriculum, né autorizza a negare l’esistenza di un principio di realtà. In campagna elettorale si eccede, un po’ da tutte le parti, nelle promesse. È normale, fisiologico (ma in modica misura). L’eventuale coalizione di governo dovrà fare i conti con la realtà (amara) dei numeri veri del nostro Paese. Una comunità che invecchia ma non vuol sentirselo dire. Una partecipazione al lavoro e un grado di istruzione tra i più bassi d’Europa. Un’evasione fiscale ciclopica e uno squilibrio, insostenibile nel tempo, tra chi produce (e paga le tasse) e chi beneficia di risorse che, in campagna elettorale, sono sembrate illimitate. A parte il debito che appare un po’ a tutti leggero, etereo. Prima si farà questo bagno di realtà (e di umiltà) sarà meglio per tutti.

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Partiti e governo, qual è la posta in gioco

domenica, Settembre 25th, 2022

di Roberto Gressi

Si prospettano due Italie, più divise di prima, tra Nord e Sud. In ballo, a seconda di chi vinca, anche la riforma dello Stato e la politica internazionale, a partire dalle relazioni con la Ue

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In alto da sinistra in senso orario: Enrico Letta, Matteo Salvini, Silvio Berlusconi, Carlo Calenda, Giuseppe Conte e Giorgia Meloni

È una partita decisiva quella che si apre questa notte, quando a urne chiuse arriveranno i risultati. Decisiva come in tutte le elezioni politiche ma più di tante altre elezioni politiche. Per prima cosa perché questa legge elettorale, che ci ha dato tre maggioranze diverse in poco più di quattro anni, sembra destinata questa volta a tracciare un solco netto tra vincitori e sconfitti. Una percentuale del 44 per cento e la conquista dell’ottanta per cento dei seggi uninominali è sufficiente a costituire una maggioranza numericamente solida, sia alla Camera che al Senato. Ma non è solo questione di numeri. Sembra più che probabile la fine dei governi di unità nazionale, rifiutata da tutti i leader principali, ad eccezione di Carlo Calenda. La collocazione internazionale dell’Italia non è in discussione, ma il modo in cui si sta in Europa è un capitolo assolutamente aperto. Si apre una partita robusta sulla riforma dello Stato, tutti vogliono ridurre le tasse ma in modi assolutamente diversi, è scontro sul futuro del Piano nazionale di ripresa e resilienza, ci sono letture diametralmente opposte su come si affronta la questione degli immigrati, sui diritti civili, sull’ambiente. Si prospettano due Italie, più divise di prima tra Nord e Sud. E sono in ballo i destini dei leader, sia per i vincitori che aspirano a posizioni di vertice, sia per gli sconfitti: a seconda dei voti che prenderanno rischiano la cacciata.

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Divisi sull’Europa

Sull’Europa e sulla guerra in Ucraina non mancano le divisioni all’interno delle varie alleanze. Giorgia Meloni si è schierata senza dubbi contro Putin e per il sostegno, anche militare, all’Ucraina. Più ambigue le posizioni di Matteo Salvini e Silvio Berlusconi, più sensibili alle ragioni della Russia. Fratelli d’Italia vuole cambiare il modo di stare in Europa, «la pacchia è finita», ha detto Meloni, e rivendica una soglia più alta nella difesa dell’interesse nazionale. Letta la accusa di volere un’Europa dei veti, incapace di decidere a maggioranza e di conseguenza più debole nello scenario internazionale. Ma anche il Pd ha tra i suoi alleati Fratoianni, contrario all’invio di armi a Zelensky e tiepido sulle sanzioni, con posizioni assai simili a quelle di Conte.

Il presidenzialismo

Ma è anche sulla forma dello Stato che si annuncia battaglia. Giorgia Meloni ha l’elezione diretta del presidente della Repubblica come primo punto del suo programma, che considera il sistema più capace di garantire che giochi di palazzo non cambino il senso del voto popolare, ed è pronta a procedere anche senza trattative con la sinistra. Ogni tipo di proiezione esclude però che possa raggiungere la maggioranza dei due terzi, e quindi l’eventuale riforma dovrebbe passare comunque per un referendum confermativo. C’è il no gridato del Pd, mentre Matteo Renzi ha aperto al dialogo. La partita, e la maggioranza e il governo che ne uscirà, sarà tanto più credibile quanto più saranno gli italiani che saranno andati a votare. Per ora i sondaggi annunciano un’astensione più robusta di quanto si sia verificato altre volte, ma il risultato non è scritto e bisognerà vedere se le contrapposizioni degli ultimi giorni saranno riuscite a smuovere l’elettorato. E se ci saranno differenze sostanziali tra Nord e Sud, con i Cinque Stelle che hanno giocato gran parte della loro campagna sul reddito di cittadinanza, riproponendo in qualche modo la contrapposizione tra una parte dell’Italia che si affida all’assistenzialismo e la parte più produttiva del Paese.

Il destino dei leader

Sarà un voto destinato a segnare robustamente il destino dei leader. Giorgia Meloni gode della prospettiva di un successo annunciato. Ma saranno le dimensioni di questo successo a stabilire se sarà lei, senza dubbio alcuno, ad essere la prima donna d’Italia a diventare presidente del Consiglio. Cosa che avverrà certamente se conquisterà ben più voti dei suoi alleati messi insieme. Il suo principale competitor, Enrico Letta, sconta l’handicap di non essere riuscito a mettere in piedi un’alleanza larga e punta molto sul voto proporzionale. Una soglia importante per il suo partito è quella del venti per cento. Sopra quella percentuale c’è almeno la possibilità di preparare un rivincita, robustamente al di sotto non sarebbe facile evitare le dimissioni. Rischia molto anche Matteo Salvini, che ha visto progressivamente erodere il suo consenso, anche nelle roccheforti del Nord, per lui il dieci per cento è il minimo sindacale.

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Meloni punta tutto sul Sud. Salvini sui decreti Sicurezza

sabato, Settembre 24th, 2022

Francesco Boezi

L’occasione attesa da tempo è arrivata: domenica 25 settembre può essere la prossima data da segnare sul calendario delle vittorie del centrodestra a livello nazionale. Sono trascorsi undici anni dall’ultimo governo guidato da Silvio Berlusconi. Matteo Salvini e Giorgia Meloni hanno scelto due modi diversi di chiudere la campagna elettorale: il leader della Lega ha preferito il web, con una maratona dalla durata di quattro ore, mentre il vertice di Fdi ha optato per una piazza di Napoli per l’ultimo comizio. I messaggi, com’è normale che sia, si sono in parte differenziati ma l’unità d’intenti è palese.

Il bagno di folla virtuale dell’ex ministro dell’Interno, oltre all’enorme partecipazione attestata dai numeri (tre milioni di persone raggiunte e 1.6 milioni di like su TikTok), è stato caratterizzato dalle considerazioni sulle difficoltà che gli italiani sono costretti a affrontare di questi tempi. L’ex inquilino del Viminale ha insistito molto sugli aumenti delle bollette: «Altri dicono, si può aspettare. Nel frattempo i negozi chiudono, le famiglie non ce la fanno. Io dico, nel primo Consiglio dei ministri, un decreto energia e stop aumenti: 30 miliardi, se serve ci si mettono 30 miliardi», ha ribadito.

Alla diretta social, tra gli altri, ha partecipato anche il dimissionario ministro per lo Sviluppo economico Giancarlo Giorgetti, e anche in questo caso i temi pratici l’hanno fatta da padrone: «Bisogna ridurre il cuneo fiscale contributivo. E poi la proposta, che va rilanciata, che le indennità e i premi siano totalmente sgravati, detassati. Lo Stato rinunci a prenderci contributi e tasse, così riusciamo a dare un concreto aiuto agli imprenditori», ha fatto presente il numero due della Lega. Insomma, concretezza è stata la parola d’ordine dell’iniziativa del segretario del Carroccio. Salvini si è soffermato anche sulla gestione dei fenomeni migratori, rimarcando quale sia il suo obiettivo a stretto giro: «Tornano i decreti sicurezza nel primo Consiglio dei ministri, l’abbiamo già fatto». E ancora: «Poi è arrivata la Lamorgese, il Pd, che hanno smontato tutto. Da lunedì entra in Italia solo chi ha il permesso».

Giorgia Meloni ha invece scelto l’Arenile di Bagnoli per suggellare questa campagna elettorale. Dopo una visita nella sede dell’Unione industriali della città partenopea, la Meloni si è recata presso il palco dell’iniziativa, che è stata organizzata tanto da Fratelli d’Italia quanto dal movimento giovanile meloniano, Gioventù nazionale. L’attacco iniziale è tutto dedicato al Movimento 5 Stelle di Giuseppe Conte: «La cosa che più di frequente dicono i 5 stelle nei loro comizi è gratuitamente. Poi c’è anche la batteria di pentole e la bici con cambio Shimano…», ha incalzato. Poi l’affondo: «I soldi che lo Stato stanzia – ha continuato il vertice di Fdi – sono degli italiani e un modo per fregare la gente è dire che si fa qualcosa gratuitamente ma non c’è niente di gratuito quando lo Stato impegna delle risorse. Quando lo fa le toglie da altro. Noi siamo venuti a dire la verità sul reddito anche se ci dicevano di fare attenzione…».

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Maestrina di gaffe

sabato, Settembre 24th, 2022

Paolo Guzzanti

Maestrina di gaffe

«Vedremo il risultato del voto in Italia, e se le cose andranno in una direzione difficile, noi abbiamo degli strumenti, come nel caso di Polonia e Ungheria». Nella mente di Ursula von der Leyen, che ha pronunciato queste parole, deve essere avvenuto un corto circuito. Si trovava nella prestigiosissima università americana di Princeton e aveva finito di pronunciare un discorsino sulla democrazia di tono medio-alto, come se l’avesse inventata lei, ignara del fatto che si fosse scatenata dentro di lei la metamorfosi della Maestrina dalla Penna Rossa. E così, quando una studentessa italiana le ha chiesto che ne pensasse di una possibile vittoria della destra in Italia, la von der Leyen non ha saputo contenersi e, onestamente, ha sbracato, dicendo quel che ha detto. Una gaffe molto grave e quasi imperdonabile, che poi ha cercato di aggiustare quando le hanno fatto vedere la marea di reazioni da tutto il mondo politico italiano, e non solo. Un disastro prodotto dall’imprudenza e da quel tanto di saccenza che la von der Leyen ha sviluppato nel suo ruolo. E poiché si è impegnata a redarguire quotidianamente la Polonia e l’Ungheria, Paesi dell’oriente europeo che facevano parte dei Paesi «satelliti» dell’Unione Sovietica, ha perso il senso della misura e della storia, trattando gli elettori italiani come discoli sotto tutela.

È stata una ingerenza? Sì, ma più che altro una scivolata verso la banalità che ha avuto l’effetto di provocare una condanna unanime in Italia, anche perché chi avrebbe teoricamente potuto approfittare delle sue parole ha preferito esprimere chi sdegno e chi fastidio. Tuttavia, le conseguenze della sua caduta di stile e goffaggine politica sono state utili per curare la tendenza di noi italiani a considerarci figli di un dio minore, o, come anche si dice, degli sfigati. L’Italia è una delle principali democrazie del mondo, perfettamente viva e gelosa delle sue prerogative e della sua storia, è un Paese leader e non può essere bacchettata dall’Europa, di cui l’Italia è un socio fondatore per i Trattati di Roma. Si possono riconoscere come attenuanti al brutto scivolone della von der Leyen una visione distorta del pettegolezzo autolesionista che le sinistre italiane in genere diffondono in Europa ed è possibile che la Presidentessa sia di malumore per l’assenza del Presidente Mario Draghi, che la difese dal presidente-sultano Erdogan quando negò a Ursula una sedia lasciandola in piedi. Draghi qualificò Erdogan come «uno di questi piccoli dittatori con cui bisogna pur convivere».

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Vaccini Covid, sì ai bivalenti agli over 12 su richiesta: la circolare del ministero

sabato, Settembre 24th, 2022

di Redazione Salute

Le formulazione aggiornate a Omicron (BA.1 o BA.4-BA.5) potranno essere somministrate come quarta dose ad almeno 120 giorni di distanza dalla terza dose (o da un’infezione da coronavirus)

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I vaccini bivalenti contro Omicron potranno essere somministrati «su richiesta» a tutti i soggetti di almeno 12 anni di età, che abbiano già ricevuto la prima dose di richiamo da almeno 120 giorni.

L’uso per la quarta dose

Lo chiarisce una circolare del Ministero della Salute dal titolo «Aggiornamento delle indicazioni sull’utilizzo dei vaccini a m-RNA bivalenti». A seguito dell’autorizzazione da parte di Ema e Aifa sono ora disponibili, nell’ambito della campagna di vaccinazione con la quarta dose, due formulazioni bivalenti di vaccini a m-RNA: i due bivalenti aggiornati a Omicron BA.1 (quello di Pfizer e quello di Moderna) e i due bivalenti aggiornati a Omicron BA.4-BA.5 sempre di Pfizer e Moderna. Il ministero ricorda che tali vaccini potranno «essere resi disponibili su richiesta dell’interessato, come seconda dose di richiamo, per la vaccinazione dei soggetti di almeno 12 anni di età, che abbiano già ricevuto la prima dose di richiamo da almeno 120 giorni», oppure quando siano trascorsi almeno 120 giorni dall’ultima infezione da Covid. Un uso che è quindi consentito solo per la quarta dose, che resta fortemente consigliata soprattutto ai soggetti fragili, ai sanitari e ai soggetti sopra i 60 anni.

— Covid in Italia, il bollettino di oggi 23 settembre: 21.085 nuovi casi e 49 morti.

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Buste paga più pesanti con il «bonus» 600 euro di Draghi: cos’è e perché conviene

sabato, Settembre 24th, 2022

di Alberto Brambilla

In un Paese come l’Italia dove, secondo i dati Ocse, negli ultimi 40 anni il valore reale dei salari e dei redditi è diminuito del 2,9%, è possibile migliorare il potere d’acquisto senza generare nuova spesa pubblica a debito? La risposta è sì; non sarà un passaggio semplice, ma la strada è stata tracciata dal governo Draghi (vedi più avanti nel testo), un’autostrada se i vincitori delle prossime elezioni politiche la vorranno percorrere. Certo occorrerà cambiare mentalità: vanno modernizzati i contratti di lavoro e quindi l’approccio di sindacati e imprese; deve mutare la politica fiscale e contributiva secondo la quale tutto ciò che si guadagna dev’essere soggetto a tasse e contributi e soprattutto si dovranno accantonare le irrealizzabili promesse dei vari partiti politici. Mi riferisco alla proposta Letta/Pd della 14esima mensilità che costerebbe 19 miliardi strutturali per ogni anno, dato che per garantirla si dovrebbero «abbuonare» a tutti i lavoratori fino a circa 29 mila euro lordi l’anno oltre il 7,5% dei contributi lasciando però la pensione inalterata.

– Calcola la giusta busta paga: vuoi scoprire se lo stipendio che percepisci è proporzionato alle tue competenze e responsabilità?

Tra decontribuzione e flat tax

Stesso discorso per la proposta di Berlusconi che dopo i mille euro al mese di pensione per tutti (costo oltre 30 miliardi ogni anno) e dopo i mille euro a mamme e nonne (ogni milione di mamme e nonne costerebbe 13 miliardi e se fossero anche solo tre facciamo il botto), propone la decontribuzione totale per i primi due anni per tutti i giovani assunti (fino a che età?) che costerebbe quasi 8 miliardi considerando solo i redditi fino a 25 mila euro lordi. Insomma, il Cavaliere ha fatto promesse per una ottantina di miliardi, oltre 100 con la flat tax: mica male.

Il cuneo fiscale

Anche sindacati e Confindustria, accortisi che il fantomatico cuneo fiscale non esiste almeno per oltre il 70% dei redditi degli italiani, si sono buttati a capofitto nella richiesta di «decontribuzione» in quanto nessuno dei due richiedenti vuole assumersi l’onta di ridurre le pensioni e le conquiste sociali quali le prestazioni di maternità, malattia, infortuni, disoccupazione, ex Anf (assegni al nucleo familiare) che determinano per ogni 100 euro netti in busta paga, un costo di 150, che diventano circa 220 considerando i benefici contrattuali (13° e 14° mensilità, premi di produzione, Tfr, banca delle ore, ferie, festività, previdenza complementare, permessi e altro). Forse i proponenti non sanno che già oggi le 22 forme di decontribuzione costano 24 miliardi l’anno di cui il 65,6% del totale per il Mezzogiorno, 21,2% per gli apprendisti, 5,8% e 4,8% rispettivamente per gli under 35 e le donne (dati Inapp). Tasse

Tra il 2011 e il 2020, il Rapporto di Itinerari Previdenziali evidenzia che per finanziare gli sgravi contributivi a favore di lavoratori e imprese per favorire le assunzioni sono stati spesi 168 miliardi, con scarsi risultati: su 36,5 milioni di italiani in età da lavoro, lavorano solo 23 milioni (il 39% contro oltre il 51% dei nostri competitor), gli altri tra Neet, sussidi, reddito di cittadinanza e ammortizzatori sociali, se ne stanno a casa nonostante manchino bagnini, cuochi, camerieri, operai ecc.

L’esperienza del Sud e il divieto della Ue

Inoltre, politici e parti sociali hanno la memoria corta. La decontribuzione totale per il Sud (sconto del 33% per i dipendenti) è durata circa 25 anni fino a quando l’Ue, ritenendoli aiuti di stato ha messo in procedura d’infrazione l’Italia; è costata centinaia di miliardi ma aumento di posti di lavoro pari a zero. Stessi risultati per gli sgravi del governo Renzi: certo hanno aiutato a creare nuova occupazione anche perché l’economia galoppava ma finito il ciclo positivo il tasso di occupazione è tornato al punto di partenza nonostante gli oltre 17 miliardi (stima Inps) spesi tra il 2015 e il 2018. E quindi come fare?

I «600 euro» di Draghi

Come dicevamo il governo Draghi con l’articolo 12 del decreto legge n. 115/2022, (il decreto Aiuti bis) ha previsto che le somme versate dal datore di lavoro ai lavoratori esentate dal pagamento di contributi sociali e imposte previste all’articolo 51, comma 3, del Testo unico delle imposte sui redditi nel limite di 258,23 euro, per l’anno 2022 vengano elevate a 600 euro ed erogate in modo semplice e diretto come «rimborsi da parte del datore di lavoro per il pagamento delle bollette di acqua, luce e gas». Si tratta di 600 euro deducibili per il datore di lavoro e netti per il lavoratore e che non generano alcun incremento di pensione non essendo assoggettati a contribuzione.

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Conte incita i suoi: ci davano per morti ma la scissione è stata una salvezza

sabato, Settembre 24th, 2022

di Emanuele Buzzi

A Roma in piazza Santi Apostoli il leader del M5S chiude la campagna elettorale: «È un voto di portata storica». Ma non c’è Beppe Grillo (nemmeno in video)

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La piazza grida ancora come un tempo «onestà, onestà», ma sul palco i vessilli targati M5S passano in secondo piano, sono spariti per lasciare spazio allo slogan della campagna elettorale: «Dalla parte giusta». Il Movimento in trasformazione dà voce anche ai big come Roberto Fico, Paola Taverna, Alfonso Bonafede, esclusi dalla candidatura per via della «tagliola» del tetto dei due mandati, ma è sempre più un partito che ha le sembianze del suo leader, Giuseppe Conte.

L’ex premier prende la parola in piazza Santi Apostoli a Roma e subito lancia una stoccata: «Ma che succede? Ci avevano dato per morti, questa piazza però mi sembra sintomo di buona salute, ancora una volta si sono sbagliati». Il presidente M5S si fa forte delle voci che vogliono il Movimento in crescita e chiama al voto chi ha intenzione di disertare le urne: «Domenica è un giorno importante, dobbiamo rivolgerci agli indifferenti». Conte parla di «voto di portata storica» e coglie l’occasione per attaccare Draghi e i suoi sostenitori: «Con quale via d’uscita stiamo affrontando questa guerra? Qual è la strategia? Vogliamo un negoziato di pace o no?», si domanda. Poi lancia l’affondo: «Il governo dei migliori ha chiamato a una scelta: o pace o condizionatori. Ma la pace è scomparsa dai radar, abbiamo dovuto spegnere i condizionatori e non sappiamo se potremo accendere i riscaldamenti per il prossimo inverno. Che gran successo». Il copione si ripete poco più tardi con Michele Gubitosa, che attacca ancora l’esecutivo. Applausi.

Sullo schermo in piazza viene proiettato un video che tocca la storia stellata: ci sono Beppe Grillo (grande assente per la prima volta: nemmeno un contributo video da parte del garante) e Gianroberto Casaleggio, c’è Alessandro Di Battista e persino Stefano Rodotà (che vinse le prime Quirinarie M5S). Nessun riferimento a Davide Casaleggio e Luigi Di Maio, fondatori dell’associazione che regge l’attuale M5S. I veleni, come da tradizione stellata, permangono. Conte precisa: «Quel giorno quando sono uscito da Palazzo Chigi in tanti hanno applaudito, alcuni si sono commossi, ma c’erano anche tanti furbi che si sono sfregati le mani. Li abbiamo mandati via. Siamo ancora qui, più forti e determinati di prima». E sulla scissione aggiunge: «È stata la nostra salvezza, non vogliamo il male di nessuno, buona fortuna a chi è andato via e più determinazione per noi».

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La campagna elettorale e gli errori da matita blu in Italia (e all’estero)

sabato, Settembre 24th, 2022

di Francesco Verderami

Da destra e da sinistra scivoloni e precipitose precisazioni. Il tema è la scomparsa delle forme che da sempre regolano i rapporti partitici e istituzionali nella fase della contesa elettorale

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È stata una campagna elettorale sgrammaticata, zeppa di errori da matita blu.

In due mesi di comizi il campionario di strafalcioni e di affannose precisazioni ha coinvolto leader di partito e rappresentanti delle istituzioni, dentro e fuori i confini nazionali. Nelle ultime ore poi è stato un florilegio. A Roma, Berlusconi si è lanciato in una sconcertante ricostruzione del conflitto ucraino, spiegando che Putin voleva arrivare a Kiev solo per insediare «un governo di persone perbene al posto di Zelensky». Tranne correggersi l’indomani, dicendo di aver riportato «da giornalista» opinioni altrui, quasi simili a quelle dell’ambasciatore russo.

A Bruxelles, come non fossero bastate le inusuali interviste di membri della Commissione europea sulle elezioni italiane, al limite dell’ingerenza, anche von der Leyen è scivolata su una frase costruita come un avvertimento a Meloni e a chi intendeva votarla. Perciò è stata costretta a una contorta spiegazione, visto le polemiche suscitate. Se la candidata di centrodestra a Palazzo Chigi ha atteso la precisazione prima di glissare sulle parole di von der Leyen, è perché — come spiega un dirigente di FdI — «dopo il 25 settembre arriverà il 26. E sarà con la presidente della Commissione che dovremo trattare sul Pnrr, la Finanziaria, l’energia, l’immigrazione…».

Ma il punto non è questo. Il tema è la scomparsa delle forme che da sempre regolano i rapporti partitici e istituzionali nella fase della contesa elettorale: è come se si fosse smarrito l’abecedario della politica. Se non è un fenomeno di analfabetismo di ritorno, è quantomeno il segno di un’impreparazione collettiva davanti al precipitare verso le urne. Un evento che ha spiazzato (quasi) tutti in Italia e in Europa. Questa è la tesi sostenuta da Giorgetti, che da ministro aveva ricevuto i maggiori fondi d’investimento e che ad alcuni dirigenti leghisti ha raccontato come «nessuno mettesse in preventivo l’uscita di Draghi»: «Davano per scontato un dato immutabile. E la crisi del governo, accaduta in modo improvviso, ha prodotto uno choc anche a livello internazionale».

A livello nazionale si è visto, se possibile, di peggio. Nel giro di un paio di settimane a sinistra sono saltate due alleanze: il campo largo (tra Pd e M5S) e il campo più stretto (tra Pd e Azione), nonostante l’accordo fosse stato ufficializzato. Letta, siglata a quel punto l’intesa con i soli Bonelli e Fratoianni, si è affrettato ad avvisare che «con loro però non farò il governo». Calenda, dopo un anno trascorso a dire «mai con Renzi», ha impiegato poche ore per stringere il patto con Iv. Berlusconi aveva annunciato che il centrodestra avrebbe scelto il candidato premier «dopo il voto», tranne poi rimangiarsi tutto per la reazione di Meloni.

Anche sui tempi, che in politica rappresentano un fattore importante, si assiste a un totale scollamento dalle regole. Nel Pd, per esempio, il congresso si è aperto prima ancora della chiusura delle urne: l’altro giorno il segretario si era appena espresso sull’impossibilità di riallacciare un dialogo con M5S dopo le elezioni, e la giovane Schlein — incoronata dal Guardian come l’astro nascente dei Democratici — rilasciava un’intervista a Repubblica per dire che «dopo le elezioni dovremo dialogare con i grillini». Il governo Meloni non è ancora nato e il Cavaliere per la seconda volta ieri ha minacciato di non farne parte se ci fossero «distonie sull’Atlantismo».

Persino sugli accordi internazionali la politica nazionale è riuscita a fare delle figuracce. L’altro ieri il ministro della Difesa Guerini si è recato da Zelensky per assicurare che l’Italia «con qualsiasi governo» terrà fede al patto con Kiev. Non era ancora finito l’incontro che le agenzie battevano le tesi giustificazioniste di Berlusconi su Putin e l’attacco di Conte a Draghi per aver «seguito la linea sbagliata di Washington e Londra sul conflitto». D’altronde l’ex premier è capace di smentirsi nel giro di poche ore, se è vero che giorni fa si è mostrato prima «orgoglioso» per l’avanzata degli ucraini contro i russi e poi si è detto contrario a un nuovo invio di armi alla resistenza.

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Giorgia Meloni: «Ho fatto tutto ciò che potevo. Nessuna paura, so che vinceremo»

sabato, Settembre 24th, 2022

di Paola Di Caro

Ancora distinguo con Salvini su presidenzialismo e riforme maggioranza: se dipendiamo dai sì della sinistra, rischia anche l’autonomia

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Ultime frenetiche ore a cercare i voti uno ad uno, dalla tivù e nelle piazze, perché «non abbiamo ancora vinto», poi Giorgia Meloni – assicura – «sparirà» dalla scena. Nessun giallo, solo una giornata – oggi – da dedicare interamente alla sua bimba, Ginevra, che il 16 settembre ha compiuto 6 anni: «Ho fatto tutto quello che potevo. Adesso tocca agli elettori».

La leader di FdI non vuole dare nulla per scontato, ma «sorrido quando leggo o sento ricostruzioni degli ultimi giorni su una nostra paura di non farcela: è l’esatto contrario». La rimonta del M5S? «E’ una narrazione che non esiste, e lo dico perché ho girato tutta l’Italia e certe cose si percepiscono». Il pareggio non è nemmeno un’ipotesi «per una questione matematica, non un’opinione. Da una parte c’è una coalizione – coesa, forte, credibile, con un programma unitario – dall’altra dei partiti. Non è una sfida tra un partito e l’altro». E in ogni caso, si chiede, quali mai sarebbero le eventuali alleanze che gli avversari metterebbero in campo: «Lo dicano. Li ho sfidati a spiegarlo, nessuno lo ha fatto. Perché mirano solo all’inciucio, all’ennesima ammucchiata». Che comunque, è convinta, non ci sarà: «Il centrodestra avrà i numeri per governare, e spero che FdI, che è il partito della difesa degli interessi nazionali del popolo italiano, abbia la fiducia di elettori».

Nessun dubbio sul suo primato neanche fra gli alleati, che giovedì nel comizio unitario di fine campagna a Roma le hanno affidato la chiusura, come si fa con chi è considerato il leader della coalizione. Lei ha occupato la scena, e ha promesso una riforma presidenziale anche senza il Pd. Letta è insorto, Meloni spiega: «Ho detto più volte e lo ribadisco: noi vogliamo coinvolgere tutti nella riforma delle istituzioni. Ma è chiaro che deve esserci disponibilità da parte degli altri partiti a dialogare. Sennò che si fa?». Già,cosa? Salvini si oppone a riforme a «colpi di maggioranza»: «Beh, è una novità sapere che le cose si fanno solo se è d’accordo la sinistra… Immagino che Salvini capisca che, se diciamo che andiamo avanti con le nostre riforme solo se la sinistra dice sì, significa che oggi tocca al presidenzialismo, ma domani all’autonomia…».

Insomma, anche l’ultimo giorno non mancano le stoccate tra alleati, dalla lista dei ministri (lei assicura che «non useremo il manuale Cencelli») alle priorità. Ma il fronte più duro per lei è stato quello dei giudizi, delle preoccupazioni, delle condanne, che le sono arrivate da media stranieri, da alcune cancellerie, ultima anche l’uscita della presidente della commissione UE von Der Leyen. La sua risposta è stata da una parte rassicurare che «non siamo un pericolo», dall’altra puntare il dito su quelli che sarebbero i mandanti di attacchi che, precisa «non sono stati per nulla corali», come dimostrano le aperture di Bloomberg, l’atteggiamento cauto della Reuters, di molta stampa americana.

Più duri gli osservatori europei, ultimo ieri l’Economist che si chiede se e quanto sia un pericolo per l’Europa Meloni: «Questa narrazione su di noi è frutto dell’atteggiamento di una sinistra impegnata fin dal primo giorno in una campagna denigratoria, mirata solo ad ottenere endorsment non al bene del Paese. Sono andati in giro in tutto il mondo a sputare addosso all’Italia, facendo un danno non a me – perché non mi tolgono voti – ma alla Nazione. È gravissimo». Trappola, sostiene Meloni, in cui è caduta anche Von Der Leyen: «Ha corretto la sua dichiarazione iniziale, ma la responsabilità anche di questa uscita è della sinistra. Poi: i commissari Ue è come se fossero i ministri di tutta la Commissione europea. Quindi consiglio prudenza, se si vuole credibilità».

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Se scompare la figura dell’avversario

sabato, Settembre 24th, 2022

MARCO FOLLINI

Caro direttore, la tentazione di non andare a votare lambisce anche chi, come il sottoscritto, ha fatto per anni e anni della politica una sua ragione di culto. Poco male, le tentazioni sono fatte per essere vinte -e alla fine sarà come deve essere. Quello che resta da chiedersi però è perché mai intorno a questa sfida, pure cruciale, si assista a un disincanto così diffuso. Cosa c’è che non va nella nostra politica, tutta quanta (e pur nelle grandi differenze tra gli uni, gli altri e gli altri ancora)?

A quelli della mia età verrebbe da rispondere che c’è, nei partiti e nei loro leader, come la traccia di una curva discendente. Argomento scivoloso però, per la mia generazione. Infatti potremmo magari rivendicare di aver letto qualche libro in più, di aver studiato un po’ più a fondo, di aver fatto qualcuno di quei corsi di formazione che mancano ai neofiti. Ma una volta convenuto sul fatto che ci sia stato un certo degrado nella qualità della classe dirigente, dei quadri di partito, dei parlamentari, andrebbe altrettanto riconosciuto con dolorosa onestà che anche noi, più anziani ma non ancora troppo vecchi, facciamo parte di quel degrado. Possiamo sbeffeggiare la poca cultura politica di molti di coloro che sono venuti dopo e che adesso stanno prendendo in pugno le redini. Ma dobbiamo a nostra volta considerare che i grandi maestri alle nostre spalle erano decisamente migliori di noi. E dunque, se degrado c’è oggi, degrado c’era anche prima. E se talora possiamo rivendicare un merito a fronte dei nostri successori non proprio titanici, dobbiamo considerare che questo stesso argomento, tale e quale, poteva facilmente venire adoperato contro tutti noi appena qualche anno fa.

Dunque il problema non può essere solo l’avvicendarsi di generazioni più o meno dotate e formate. Semmai, il problema sta nel fatto che è scomparsa dall’orizzonte politico dell’ultima generazione – questo sì- la figura stessa dell’avversario. Abbiamo cancellato, tutti quanti, i suoi meriti, i suoi insegnamenti, le sue sollecitazioni. In una parola, il suo contributo a migliorare ciascuno di noi. E infatti, si sta svolgendo non per caso una campagna elettorale che è quasi solo un fastidioso intreccio di monologhi. Ognuno recita la propria particina, ma nessuno ascolta, né prende nota della parte altrui. Come se l’altro non ci fosse. Salvo farne l’inutile sparring partner delle proprie stesse predicazioni.

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