Archive for Settembre, 2022

Analisi di una rincorsa, il Pd prova a ribaltare una sconfitta annunciata

sabato, Settembre 24th, 2022

MARCELLO SORGI, FEDERICO GEREMICCA, FABIO MARTINI, CARLO BERTINI

La leadership. Il segretario in trincea senza una strategia
MARCELLO SORGI
Enrico Letta ha portato con dignità l’abito della sconfitta annunciata fin dal primo giorno. Ma senza rassegnarsi mai. Non essendo riuscito a formare coalizione del “campo largo”, in grado di competere ad armi pari con quella di centrodestra, le ha provate tutte: è partito all’attacco con la mostrificazione di Meloni – fascista, attentatrice della Costituzione, antieuropea, antiabortista – salvo accorgersi che non funzionava perché la gran parte degli elettori non la considerano tale. S’è impegnato nella gara a due con l’avversaria, puntando almeno a fare del Pd il primo partito. Ma i sondaggi, fin da subito, si sono rivelati impietosi, e il distacco finale tra Fratelli d’Italia e Pd potrebbe addirittura essere a due cifre. Poi ha tentato la spallata per la “non vittoria” del centrodestra, quanto a dire rosicchiare più senatori possibile perché far sì che il possibile nuovo governo non sia in grado di ottenere una maggioranza solida a Palazzo Madama. La manovra è ancora in corso, dove possa arrivare si vedrà domani sera. Ed è a questo estremo espediente che sono legate le speranze del Pd di rientrare in gioco, alle prime eventuali difficoltà del nuovo esecutivo, più o meno come avvenne nel passaggio dal Conte 1 al Conte due nella legislatura appena conclusa.

Tutto questo rivela un’assoluta mancanza di strategia del segretario. Se l’unico orizzonte possibile è quello di un nuovo ribaltone in cui una parte degli sconfitti si accordano con una parte dei vincitori, magari a discapito di chi ha vinto più di tutti, il Pd, per questa strada, è destinato a perdere un’altra fetta di elettori, avviandosi verso una lenta scomparsa, com’è accaduto ai socialisti francesi. Letta, che ha insegnato a lungo politica a Parigi, queste cose le sa benissimo; ma sa anche di non poter cambiare nulla nel Pd, perché in ogni caso il suo destino è segnato.

Le alleanze. La fine del campo largo e l’identità da ritrovare
FEDERICO GEREMICCA

Solo l’apertura delle urne potrà forse confermare una sensazione palpabile ormai da settimane: e cioè che la corsa del Pd sia finita prima ancora di cominciare. Sia finita, per l’esattezza, all’ora di pranzo di domenica 7 agosto quando – ospite in tv da Lucia Annunziata – Calenda annunciò la rottura del patto siglato con Letta qualche giorno prima. Era la fine del campo largo e, più semplicemente, della possibilità di competere con l’avversario.

Qui non ragioneremo sulle responsabilità di quella spaccatura, ma sulla via imboccata dai Democratici da quel momento in poi. Ai più è apparsa confusa, pallida e segnata da qualche errore di miopia: immaginare, per esempio, che la campagna si sarebbe combattuta intorno a Draghi e alla sua agenda; pensare, poi, che il pericolo-fascista fosse tema ancora mobilitante; retrocedere, infine, sulla difesa della Costituzione e del sistema parlamentare. La battaglia, invece, si è svolta come sempre all’italiana: promesse, taglio di qualunque tassa, immigrazione, bollette e l’impegno di «mettere soldi in tasca agli italiani». Temi posti in maniera discutibile, certo, ma concreti: assai più concreti del parere di questo o quel leader europeo sulle faccende nostrane. Se le cose dovessero andare come ipotizzavano i sondaggi, in casa Pd ci sarà molto da ragionare. Si comincerà dal destino di Letta, naturalmente. Ci sta. In fondo, è anche il modo migliore per sfuggire la realtà, che oggi pone non tanto problemi di leadership quanto l’urgenza di ridare un’anima, una ragione ed un profilo ad un partito che nell’ultimo decennio sembra aver avuto un solo credo: quale che sia l’emergenza, stare al governo comunque e con chiunque.

La comunicazione. Buoni contro cattivi, unico obiettivo: Meloni
FABIO MARTINI

I buoni contro i cattivi: non c’è stato spazio per molto altro. Per Enrico Letta la campagna elettorale e dunque la comunicazione sono state concentrate su un unico messaggio: la battaglia vera è tra due soli contendenti, la sinistra, incarnata dal Pd e la destra di Giorgia Meloni. E dunque, elettore di sinistra – moderato o radicale che tu sia – «scegli»: vota utile, vota Pd. Certo, dai Dem sono partiti anche messaggi mirati su alcuni target (giovani, insegnanti, professioni intellettuali, over 65), ma alla fine l’unico messaggio è stato sempre quello: buoni contro cattivi. Una scelta scandita da Letta – ecco il punto – in modo prevalentemente politicista: anziché spiegare come la “cattiveria” dei destri si sarebbe tradotta nella vita quotidiana, le parole usate sono state quasi sempre prive di empatia per gli elettori in carne ed ossa. L’Europa? Letta ha denunciato i pericoli di una rottura politica e anche nel comizio finale di piazza del Popolo l’ha evocata retoricamente («Viva l’Europa!»), senza mai puntare sulle ricadute sulle vite concrete degli italiani: una possibile “fuga dei capitali” europei già stanziati per l’Italia, o una possibile fiammata speculativa che finirebbe per colpire i più deboli, chi vive di stipendio, di pensione, di piccola impresa, di commercio, o i giovani che sperano in un futuro. Pontida? Bollata come una provincia dell’Ungheria, anziché puntare sul cuore del problema: con una destra che rompesse con l’Europa, la prossima Ungheria sarebbe l’Italia e dunque le future vittime sarebbero sempre loro, gli italiani. Alle fine la scommessa di Letta è tutta sugli elettori politicizzati, sulla rianimazione dello zoccolo duro. Sul richiamo della foresta.

Rating 3.00 out of 5

Letta: “La destra moderata è una balla: loro sono uniti solo per il potere, noi per lavoro, diritti e ambiente”

sabato, Settembre 24th, 2022

Annalisa Cuzzocrea

ROMA. «La campagna della destra è impostata su un’unica cosa: la presa del potere. Nient’altro li unisce ed è per questo che vogliono stravolgere la Costituzione». Enrico Letta è negli studi di Metropolis, il podcast video del gruppo Gedi, un’ora prima di correre a piazza del Popolo per la chiusura della campagna elettorale. E dice amaro, ma combattivo, che tutto è cambiato – in Italia, in Europa – il 24 febbraio. «La guerra ha avuto un effetto deprimente sul Paese, ha tolto il senso di futuro, ha fatto salire le paure. Sono arrivate le bollette elettriche impazzite, la vita delle persone è stata terremotata. Non è accaduto solo a noi, basta guardare la Svezia. E così Putin, che si è impantanato sul terreno, sta ottenendo un risultato più importante della vittoria in Ucraina: sta disfacendo il filo dell’Europa». Per questo, dice il segretario del Pd, «mi batto con tutte le mie forze».

Silvio Berlusconi a Porta a porta ha raccontato un’altra storia, ritrattata goffamente: che Putin voleva solo mettere a Kiev un governo di «persone perbene». Che doveva restar lì, non andare nel Donbass.
«Quelle parole sono gravissime. Mi arrivano messaggi da tutto il mondo di persone che mi chiedono: ma l’ha detto davvero? E io rispondo: sì, perché anche se ora tentano di metterci una pezza, è quello che pensa. Berlusconi è stato l’unico leader occidentale ad andare con Putin in Crimea dopo l’occupazione illegale. Lo ha fatto quando quel passaggio significava legittimare l’annessione».

Ma questo centrodestra è a trazione Meloni, che la pensa diversamente.
«Per Meloni il modello è la Polonia, fortemente atlantista da una parte, antieuropeista dall’altra. Due polarità che non possono convivere in Italia. In più, avere Salvini e Berlusconi in coalizione genera un tasso di ambiguità insopportabile per i nostri alleati».

Cosa temono?
«Il messaggio che sta dando la destra italiana è di voler sfasciare il fronte europeo proprio nel momento di maggior difficoltà di Putin».

Salvini ha anche chiesto le dimissioni di von der Leyen.
«Il portavoce della presidente della Commissione ha chiarito che non intendeva in alcun modo riferirsi alle elezioni italiane, era anche strano da credere visto che lei fa parte del Ppe come Berlusconi e Tajani. Salvini ha approfittato di un malinteso per giocarsi subito un elemento di rottura e mettere in difficoltà Meloni. Il racconto di un destracentro moderato è una balla. Vedo invece una radicalizzazione sulle vicende internazionali».

Teme un restringimento dei diritti in Italia se vincesse la destra?
«Sono preoccupato da quanto questa discussione in campagna elettorale sia stata marginale. In Italia siamo molto indietro anche rispetto a Paesi vicini, con una storia simile alla nostra, come la Spagna. Perfino una sentenza della Corte Costituzionale, quella sul suicidio assistito, è rimasta inascoltata. E tutto questo accade per la forza di blocco della destra. Una delle scene più vergognose della legislatura è stato l’applauso dell’aula quando è stato affondato il ddl Zan. Così come mi vergogno di non aver portato a termine la promessa dello Ius scholae».

Negli anni più governi di centrosinistra avrebbero potuto pensarci.
«Sì, sono stati fatti degli errori nel 2017. Un insegnante di inglese mi ha raccontato di quanto, tutte le volte che porta i suoi studenti all’estero, tre o quattro non possono partire perché non hanno la cittadinanza e non possono avere il passaporto. Qualcuno dirà che ci sono altri problemi. Io dico che è una discriminazione inaccettabile. Così com’è scandaloso che ci accorgiamo del tema quando ci sono le Olimpiadi».

Giorgia Meloni la accusa di parlare troppo di diritti e di non pensare alle bollette.
«È tipico di una mentalità politica profondamente populista non riconoscere che dare sollievo per le bollette, e diritti a quei ragazzi, sono due cose che vanno insieme, non alternative. Ho girato molto in Veneto: gli imprenditori mi chiedevano dei decreti flussi per avere manodopera, non mi parlavano di porti chiusi o autonomia differenziata. La politica deve assumersi la responsabilità di fare passi avanti rispetto al minimo comun denominatore del consenso».

Di bollette ha parlato con il cancelliere tedesco Olaf Scholz qualche giorno fa. Lo ha convinto sul tetto al prezzo del gas?
«Ha fatto delle aperture positive in vista della riunione di giovedì prossimo. Ma vorrei ricordare che tutto quel che non abbiamo, su bollette, Ius scholae, per il voto degli studenti fuori sede e potrei continuare, è dovuto alla caduta improvvisa del governo».

Rating 3.00 out of 5

Aliquota, requisiti, vantaggi: cosa c’è da sapere sul regime forfettario

venerdì, Settembre 23rd, 2022

Giuditta Mosca

Introdotto con la Legge 190/2014 e diventato effettivo a partire dal primo giorno del 2015, il regime forfettario ha abrogato i regimi precedenti, stabilendo un’imposta con aliquota al 15% senza limiti di tempo, purché nel rispetto continuo di diversi requisiti che sono stati rivisti con la Legge di Bilancio 2019 e con quella del 2020.

Per rientrare nel regime forfettario occorre avere dei requisiti e mantenerli anno fiscale dopo anno fiscale. Ma andiamo con ordine.

I requisiti di accesso al regime forfettario

Per potere accedere al regime forfettario occorre il rispetto di un requisito soggettivo e di due requisiti soggettivi.

Il requisito soggettivo prevede l’adesione di liberi professionisti e di ditte individuali. Le società e le associazioni professionali sono di conseguenza escluse.

I requisiti oggettivi invece meritano maggiore approfondimento perché vengono espressi dai compensi e dai ricavi i quali, sommati, non devono eccedere i 65mila euro annui. Una soglia che, se superata, costringe l’imprenditore a ricorrere al regime ordinario. Si tratta di un limite che va riprodotto in quota parte per quelle attività aperte durante il corso dell’anno. Ciò significa che per ogni mese solare durante il quale l’attività è stata aperta non può essere valicato il limite medio di 5.416 euro al mese. (Importo che, moltiplicato per i 12 mesi dell’anno, restituisce i 65.000 euro massimi raggiungibili).

La legge specifica che si tratta di “ricavi e compensi”, non di reddito. In altre parole, il limite di 65.000 euro si ottiene sommando tutti gli introiti generati dall’attività senza detrarre le uscite quindi, per esempio, stipendi, affitti e costi di gestione. Si tratta di un regime fiscale in cui le spese non sono tenute in considerazione.

Altro requisito oggettivo riguarda le spese per il personale dipendente che non devono eccedere i 20mila euro annui.

Anche chi risiede all’estero può aderire al regime forfettario, a patto però che risieda in uno dei Paesi europei che aderiscono all’Accordo sullo spazio economico e che consegua in Italia almeno il 75% del reddito.

Chi non può aderire al regime forfetario

Oltre ai soggetti che non rispondono ai requisiti oggettivi e soggettivi sono esclusi a priori, così come illustrato nella Circolare 10/E/2016 dell’Agenzia delle entrate, una serie di attività tra le quali tutte quelle che sottostanno a regimi speciali relativi all’Iva. Tra queste, per esempio, l’editoria e la vendita di tabacchi.

La pressione fiscale

Il regime forfettario sottostà all’aliquota al 5% e al 15% che sostituisce Irpef, Irap e le addizionali regionali e comunali.

L’aliquota al 5% è valida durante i primi cinque anni dall’avvio di una nuova attività se vengono rispettati questi tre requisiti: non avere svolto attività di impresa durante i tre anni precedenti l’apertura della partita Iva, l’attività svolta non deve essere prosecuzione di un’attività precedente e, se si continua l’attività svolta in precedenza da un altro soggetto, questo non deve avere conseguito ricavi superiori ai 65.000 euro. In tutti gli altri casi l’aliquota di riferimento è al 15%.

L’aspetto ancora più interessante riguarda però il reddito sul quale viene calcolata la pressione fiscale che, come suggerisce il nome, è a forfait. Una semplificazione che riduce la necessità di ricorrere a un commercialista e di tenere una contabilità analitica. Basta avere infatti una contabilità molto spiccia che tiene conto dei documenti emessi e di quelli ricevuti.

Il coefficiente di redditività è collegato al codice Ateco attribuito alla partita Iva, ovvero un codice alfanumerico con il quale vengono classificate le attività economiche che, nel caso fosse sconosciuto, può essere richiesto all’Agenzia delle entrate o a un commercialista. La stessa Agenzia delle entrate ha elaborato una tabella per stabilire il codice di redditività, ossia una percentuale che deve essere moltiplicata per il reddito.

Per arrivare a calcolare il reddito imponibile mancano a questo punto soltanto i ricavi, che si possono calcolare con il principio di cassa, ossia i compensi incassati durante il periodo fiscale. Questo significa, per esempio, che un’entrata prevista per il 2022 e che invece viene incamerata nel corso del 2023 deve essere conteggiata tra i ricavi del 2023.

Una volta noti questi tre parametri si ottiene il reddito imponibile. Per fare un esempio, durante il 2022 il guadagno lordo è stato di 35mila euro e il coefficiente Ateco è dell’86%. Questo porta a un reddito imponibile di 30.100 euro (l’86% di 35.000). A questo importo vanno dedotti i contributi previdenziali, ipotizziamo 8.100 euro, per giungere così a un imponibile di 22mila euro (30.100 – 8.100 euro di contributi). A questo punto si ottengono imposte pari a 3.300 euro (con aliquota al 15% su 22mila euro) oppure pari a 1.100 euro (con aliquota al 5%).

Rating 3.00 out of 5

Giorgia Meloni, Matteo Salvini e Silvio Berlusconi: cambiamo il Paese

venerdì, Settembre 23rd, 2022

Carlantonio Solimene

Libertà. Lo ripetono tutti i leader del centrodestra saliti sul palco insieme ieri sera a piazza del Popolo, a Roma. Ognuno, ovviamente, con le sue declinazioni e il suo stile. Con la sua narrazione. Così Silvio Berlusconi, il primo a prendere la parola, invoca il diritto a vivere «in un Paese dove i cittadini non debbano aver paura se a vincere le elezioni sono gli altri». Mentre Matteo Salvini ribadisce la collocazione estera del Paese nel mondo occidentale ma rivendica il diritto di farsi rispettare e non semplicemente «prendere ordini» nei consessi internazionali. E Giorgia Meloni, infine, basa l’intero suo discorso su un’Italia in cui nessuno debba più sentirsi suddito. Degli alleati internazionali, del «mainstream», dello Stato che esige troppe tasse, di chi mette in discussione la democrazia se i cittadini non votano come ci si aspetterebbe.

Ad applaudire i leader c’è una piazza sufficiente piena da poter parlare di successo della mobilitazione. Certo, soprattutto nelle retrovie ci sono spazi vuoti, ma è inevitabile in un’era in cui i comizi oceanici sono solo un ricordo. Nessuno, per dire, ha osato opzionare l’enorme piazza San Giovanni per l’atto conclusivo della campagna. Ma i numeri contano fino a un certo punto. Importava, soprattutto, dare un messaggio d’unità della coalizione. Rispedire al mittente i veleni su alleati pronti ad accoltellarsi alla prima difficoltà. E quel messaggio passa in pieno. «Governeremo insieme per cinque anni» dicono tanto Salvini che Meloni. «Ci vedete qui – aggiunge la leader di Fratelli d’Italia – siamo uniti, abbiamo candidati comuni e lo stesso programma. Mentre, dall’altra parte, fingono di farsi la guerra ma sono pronti all’inciucio dopo il voto».

La manifestazione parte con un po’ di ritardo, c’è persino chi ipotizza un forfait dell’ultimo minuto del Cavaliere. Ma Berlusconi è al suo posto, si fa precedere da un video «emozionale», poi ripercorre la sua carriera politica. «In dieci anni al governo siamo gli unici a non aver messo le mani nelle tasche degli italiani», si vanta raccogliendo l’applauso più sincero, per poi dedicarsi alla politica estera e inevitabilmente tornare sullo storico accordo di Pratica di Mare quando riuscì a far stringere la mano a Vladimir Putin e George W. Bush. Un momento che, visti i tempi attuali, assume probabilmente un significato ancora maggiore. Poi è il turno di Maurizio Lupi, il più «moderato» eppure assai ruvido nei confronti del cancelliere tedesco Scholz e di quell’accenno ai «postfascisti» cavalcato dall’Spd: «La Germania si aiuti sul prezzo del gas e si preoccupi di meno della nostra democrazia che funziona benissimo».

Ma il piatto forte della serata sono inevitabilmente Matteo Salvini e Giorgia Meloni. Il leader leghista, dopo una frecciata al sindaco di Roma Gualtieri («da romano d’adozione pensavo di aver toccato il fondo con la Raggi, e invece…»), fa un lungo elenco dei provvedimenti nel programma del Carroccio, dal decreto energia da fare al primo Cdm al superamento definitivo della legge Fornero, dalla flat tax al Fisco più leggero per chi mette al mondo più figli. I consensi maggiori, però, li registra in due momenti. Quando rilancia l’abolizione del canone Rai («gli italiani non devono più pagare per i comizi della sinistra, Fazio i suoi comizi se li faccia con i soldi suoi») e quando ricorda l’operato da ministro dell’Interno, la difesa dei confini: «Rischio quindici anni di galera per aver difeso il mio Paese. Forse avrei potuto essere più prudente, ma sarei stato meno efficace. Tutto quello che ho fatto sono pronto a farlo di nuovo». E sembra tanto un modo per prenotare il ritorno al Viminale.

Rating 3.00 out of 5

Terremoti in Italia, scosse in sei regioni. La lista Ingv: “Non possiamo escluderne di più forti”

venerdì, Settembre 23rd, 2022

La terra continua a tremare in Italia dove nel giro di poche ore si sono registrate scosse di terremoto tra Marche e Abruzzo, Liguria ed Emilia, Sicilia e Calabria.

L’ultima scossa, di magnitudo 3.8, è stata registrata a Pievepelago, nel Modenese, alle 17.47. Due minuti dopo la terra ha tremato a Fosciandora (Lucca) con una scossa di magnitudo 3.2.

Alle 15.39 la terra ha tremato anche nel Comune di Bargagli, in provincia di Genova, dove una scossa di magnitudo 4.1 è stata avvertita in tutta la provincia. La prima scossa di magnitudo 4.1 è stata registrata intorno alle 12.24 a Folignano, in provincia di Ascoli Piceno, nelle Marche.

Secondo quanto emerge dalle stime dell’istituto nazionale di geofisica e vulcanologia, a tremare anche la Calabria e la Sicilia. Stanotte a Paternò, in provincia di Catania, con magnitudo 3.6 e a Brancaleone, in provincia di Reggio Calabria con una magnitudo di 3.2.

“Nessuna correlazione ma non possiamo escludere scosse più forti”, a dirlo a LaPresse è il presidente dell’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia, Carlo Doglioni.

Rating 3.00 out of 5

Tv, Mfe lancia l’offerta per la francese M6: sfida alla cordata dei miliardari

venerdì, Settembre 23rd, 2022

Francesco Spini

MILANO. Mfe ci riprova. Dopo lo stop delle trattative per una fusione con Tf1 – anticipando l’altolà che sarebbe giunto dall’Antitrust di Parigi – si riapre la partita sul 48,3% della Tv francese M6. E MediaforEurope, la nuova configurazione europea di Mediaset, oggi – data di scadenza – presenterà una nuova offerta non vincolante in contanti per il canale transalpino. Già al primo round, secondo le indiscrezioni, il gruppo guidato dall’ad Pier Silvio Berlusconi aveva presentato l’offerta finanziariamente più allettante ma i tedeschi di Rtl Bertelsmann, cui M6 fa capo, avevano scelto la Tf1 del gruppo Bouygues, per una sorta di arrocco alla francese.

Anche questa volta il copione potrebbe ripetersi. La nuova asta è una corsa contro il tempo: bisogna chiudere l’eventuale vendita entro la primavera del 2023, prima che il rinnovo della licenza ne blocchi la cessione per 5 anni. E ora in campo per M6 ci sarebbe una nuova cordata francese guidata dal miliardario Rodolphe Saadé, uomo non di Tv ma impegnato nella logistica col gruppo Cma Cgm e in ottimi rapporti con la famiglia Bouygues, che – saltata la fusione Tf1-M6 – punterebbe a ritentare la combinazione tra cinque anni. Oltre a Saadé nella cordata ci sono Stéphane Courbit, che fa il produttore Tv con Baijay, e l’investitore Marc Ladreit de Lacharrière. Sarebbero loro i favoriti, mentre alcuni operatori Tv transalpini, viste le asperità antitrust, avrebbero deciso di soprassedere. Vivendi, ad esempio, potrebbe stare alla finestra e appoggiare il Biscione, di cui – seppure in uscita – è ancora socio. Mfe, che non ha problemi di finanziamento anche grazie a un debito basso, proverà un rilancio che terrebbe però conto del nuovo contesto economico.

Rating 3.00 out of 5

Le varianti Omicron e le nuove insidie

venerdì, Settembre 23rd, 2022

Antonella Viola

Uno studio recentemente pubblicato su un’importante rivista scientifica dimostra che le varianti di Omicron BA.4 e BA.5 sono più virulente, più immunoevasive e più patogenetiche rispetto alle versioni di Omicron precedenti. Questo significa che negli ultimi tempi il virus è diventato non solo più contagioso e meno riconoscibile da parte degli anticorpi generati da infezioni precedenti ma anche clinicamente più aggressivo, in grado cioè di causare una malattia più severa rispetto alle prime versioni di Omicron.

Questa notizia arriva a smentire (nuovamente!) chi da anni sostiene che il virus vada via via rabbonendosi, diventando sempre più simile ad un raffreddore. È vero che l’ondata di contagi causata da BA.4 e BA.5 ha provocato meno ricoveri e decessi rispetto alle precedenti; ma questo dipende dal fatto che, tra vaccini e infezioni, la popolazione italiana non ha più le caratteristiche che aveva negli anni o anche mesi passati. Sono i vaccini che ci proteggono dagli effetti potenzialmente catastrofici delle nuove varianti e non l’indebolimento del virus. Non c’è infatti nessuna legge in biologia che possa costringere un patogeno con le caratteristiche del Sars-CoV-2 a diventare sempre meno aggressivo. Le mutazioni sono degli errori di battitura che il virus fa quando replica il proprio messaggio genetico. Ogni volta che il virus crea nuove copie di sé, si possono generare errori in modo casuale. E sono le mutazioni svantaggiose per il virus (non per noi!) che vengono eliminate, attraverso una sorta di competizione interna tra varianti virali. Ma oltre a smentire chi parla di scienza senza una reale competenza, cosa ci dicono questi nuovi dati? Prima di tutto che il problema del Covid-19 è tutt’altro che superato. Non sappiamo che caratteristiche avranno le prossime varianti e diversi sono i possibili scenari che si presentano davanti a noi, ma non è escluso che in inverno possa arrivare una variante più pericolosa delle precedenti. Sul virus e sul suo modo di cambiare non abbiamo il controllo, purtroppo; possiamo però cercare di arrivare preparati ad un’eventuale nuova ondata.

La preparazione consiste nel continuare a monitorare il virus, la sua diffusione, le nuove varianti; nel generare protocolli di cura precisi per evitare o curare al meglio la malattia severa; nel coinvolgere e informare i medici di medicina generale, affinchè usino tempestivamente le cure approvate; nell’analizzare costantemente l’immunità generata da vaccinazioni e infezioni, al fine di programmare al meglio gli eventuali richiami. Ma sarà anche fondamentale riuscire a coinvolgere i cittadini e comunicare con chiarezza l’importanza di mantenere alto il livello di attenzione, senza però che questa degeneri in paura.

Rating 3.00 out of 5

La mobilitazione in Russia diventa retata, chi protesta viene reclutato

venerdì, Settembre 23rd, 2022

Anna Zafesova

Donne che piangono senza nemmeno cercare di nascondere le lacrime ai figli che tengono in braccio. Ragazze che non riescono a staccarsi dall’ultimo abbraccio con i loro fidanzati. Bambini che fanno ciao con la manina gridando «torna presto», e i loro papà che salutano da dietro il vetro del pullman, con un sorriso appena accennato sul volto sgomento. Nessuno sembra essere animato da spirito marziale o esaltato da orgoglio patriottico: più che gruppi di riservisti mobilitati, gli uomini caricati sui pullman sembrano condannati in attesa di partire per i lavori forzati, spaventati e rassegnati. Sono scene che arrivano da diverse regioni russe, dove i primi reclutati dalla “mobilitazione parziale” indetta per decreto del presidente russo vengono chiamati sul fronte ucraino.

La guerra non è più soltanto in tv, e milioni di famiglie sono in ansia, non solo per i figli, ma anche per i padri: in numerosi filmati si vedono riservisti non giovanissimi, e da diverse regioni arrivano segnalazioni di convocazioni arrivate anche agli over 60, in quella che appare sempre più chiaramente una mobilitazione che di “parziale” non ha nulla.

Il ministero della Difesa russo continua a rassicurare che la chiamata in guerra non riguarderà studenti, ma a Ulan-Ude gli studenti sono stati convocati in caserma direttamente dall’aula universitaria, e nelle periferie di Mosca ieri sera i poliziotti consegnavano le lettere di coscrizione ai ragazzi in uscita dalla metropolitana, a tappeto, studenti e non. Gli avvisi di convocazione ai commissariati militari sono piovuti a migliaia, distribuiti porta a porta da messi comunali e portinai, insegnanti e capi ufficio, nelle scuole e nelle fabbriche. Il giornale Novaya Gazeta ha rivelato ieri che il punto segreto del decreto di Putin sulla mobilitazione – nel testo pubblicato dopo il punto 6 si passa direttamente all’8 – riguarderebbe i numeri della chiamata alle armi: non i 300 mila annunciati dal Cremlino, ma un milione, diviso in tre ondate fino al febbraio 2023, in altre parole un russo su 25 nella fascia di età 18-65. Un numero che viene confermato anche da Volodymyr Zelensky, che nel suo appello serale si è rivolto ai russi in russo: «Prenderanno tutti, dovete scegliere se vivere o morire, rimanere mutilati o restare sani».

La fuga di notizie su un milione di riservisti è stata smentita dal portavoce presidenziale Dmitry Peskov, che però non gode di molta fiducia dopo aver negato risolutamente pochi giorni fa l’ipotesi di una mobilitazione. Intanto il figlio di Peskov è diventato oggetto di un clamoroso scherzo dei giornalisti dell’opposizione di Alexey Navalny, che gli hanno telefonato fingendosi dei militari che lo chiamavano alle armi: il giovanotto ha risposto sprezzante che non ha nessuna intenzione di presentarsi e che «risolverà la questione a un altro livello». L’esilarante video della telefonata ha alimentato la rabbia che molti russi stanno riversando anche sulle bacheche dei capi del regime putiniano, lamentandosi che a venire chiamati al fronte saranno i figli dei poveri e non quelli dei ricchi e potenti: «Non abbiamo presente, non abbiamo futuro», gridavano ieri i coscritti in un commissariato militare del Daghestan, una delle zone più povere del Caucaso.

Rating 3.00 out of 5

Voto e crescita, un’idea sbagliata del sud

venerdì, Settembre 23rd, 2022

di Antonio Polito

La calata finale dei leader al Sud sa tanto di corsa all’accaparramento. È come se i partiti considerassero ormai esauriti i serbatoi del «voto di opinione» al Nord, e volessero negli ultimi giorni di campagna elettorale raschiare il barile del «voto di scambio», convinti di trovarlo dal Garigliano in giù. In questo modo, svelando l’idea «stracciona» che hanno del Mezzogiorno, riflettono allo specchio se stessi.

È da molti anni, infatti, che nelle competizioni elettorali non si confrontano più idee per il Paese, ma si offrono baratti a categorie e gruppi sociali. Al Sud, sia cinque anni fa sia oggi, il reddito di cittadinanza è stato usato dai Cinquestelle come il surrogato di una politica meridionalista che non c’è. Ma non è che la dentiera gratis per gli anziani o la dote di diecimila euro per i diciottenni siano da meno, in quanto a «do ut des». La differenza sta nel fatto che gli anziani e i diciottenni sono diffusi su tutto il territorio nazionale, mentre i percettori del reddito di cittadinanza sono per due terzi concentrati al Mezzogiorno. Ma questo avviene perché è lì che le dimensioni della crisi sociale e della disoccupazione cronica sono maggiori e più gravi.

Non c’è dunque davvero da meravigliarsi se molti elettori meridionali mostrano di gradire questa forma di assistenza al punto da gonfiare i consensi del M5S, il partito che l’ha introdotta e che ora la difende a spada tratta. Più che un voto di scambio, è un voto di convenienza. E quando le idee dei partiti finiscono, alla gente non resta che badare alla convenienza.

Il problema però è che in questo modo i politici si approfittano dei guasti sociali per costruire consenso. Il loro compito sarebbe infatti quello di rimuovere le cause del bisogno, non solo di alleviarlo. Dare pesci a chi ha fame è importante, in tutti i Paesi europei c’è una qualche forma di integrazione dei redditi troppo bassi. Ma ancor più importante sarebbe insegnare alla gente a pescare, fornendo loro le competenze e le attrezzature per uscire dalla spirale perversa della dipendenza, che uccide la dignità degli uomini e soffoca le speranze di riscatto anche più del bisogno. Invece l’assistenzialismo senza se e senza ma perpetua la dipendenza dallo Stato erogatore.

Si chiama la «trappola della povertà», ed è ben nota a chi ha studiato i «welfare state» del Nord Europa, dove da molto tempo prima che in Italia esistono forme di trasferimenti diretti per sostenere i meno abbienti. Si cade in questa trappola quando l’incentivo a vivere di sussidi è maggiore dell’incentivo al lavoro. Una generazione di giovani meridionali sta conoscendo questo fenomeno, diventando sempre meno «occupabile»: i bassi salari spingono a preferire il reddito di cittadinanza, o ad accettare il ricatto del lavoro nero pur di non perdere il sussidio. Il risultato è che così dalla povertà non si esce, ma anzi si impoverisce anche la società nel suo complesso, che produce meno ricchezza di quanta potrebbe, e deve destinare più risorse a chi resta indietro.

Rating 3.00 out of 5

Kadyrov, Medvedev e gli altri: chi sono i «falchi» di Putin che lo spingono ad accelerare

venerdì, Settembre 23rd, 2022

di Fabrizio Dragosei

L’ex presidente Medvedev: «I nostri missili ipersonici sono capaci di raggiungere in maniera garantita obiettivi in Europa e Usa, molto più rapidamente di qualsiasi loro arma»

desc img

Tra i più accesi sostenitori del pugno duro contro Kiev e l’Occidente c’è sempre lui, Dmitrij Medvedev che quando prese il posto di Putin alla presidenza si presentò come il campione dei democratici e dei riformatori. Adesso che sembra contare sempre meno, cerca di collocarsi alla guida della pattuglia dei falchi, coloro che nelle ultime settimane avevano iniziato a mugugnare per l’«esitazione» del capo supremo. Trionfante, ieri Medvedev ha detto che i nuovi territori saranno difesi con «qualsiasi arma russa, inclusa quella strategica nucleare». E sulle possibili ritorsioni Nato ha detto: «I nostri missili ipersonici sono capaci di raggiungere in maniera garantita obiettivi in Europa e negli Usa molto più rapidamente di qualsiasi loro arma», ha sostenuto.

Negli ultimi mesi gli schieramenti attorno allo Zar sono cambiati profondamente, soprattutto visto l’andamento non proprio esaltante dell’Operazione militare speciale in Ucraina. Personaggi che venivano visti come guerrafondai o sostenitori a oltranza della politica del confronto duro con l’Occidente si sarebbero invece mossi dietro le quinte per convincere il presidente a non esagerare, a tenere a freno le teste più calde. E al fianco di Medvedev starebbero emergendo figure che fino a ieri erano di secondo piano ma che guadagnano status con le loro posizioni oltranziste, ancora più convinti dell’opportunità di pigiare sull’acceleratore di quanto non lo sia Putin.

Innanzitutto Ramzan Kadyrov , signore e padrone della Cecenia che negli ultimi giorni aveva annunciato di aver già attuato la mobilitazione generale nella sua repubblica e aveva invitato altri governatori a fare altrettanto. Senza aspettare le decisioni del ministero della Difesa che continuava a rimandare. Parimenti deciso sembra il comandante della Rosgvardia Viktor Zolotov, ex capo degli agenti addetti alla protezione del presidente. La Rosgvardia, una sorta di guardia nazionale, è formata dalle ex truppe anti sommossa dell’Interno. Questi uomini sono impegnatissimi nelle azioni belliche e contribuiranno a portare a termine il richiamo dei trecentomila veterani di cui c’è bisogno immediato al fronte.

Sulla stessa linea è schierato anche Andrej Turchak, primo vicepresidente del Consiglio di Federazione e soprattutto numero due del partito Russia Unita. Anche lui ieri si è precipitato ad approvare i provvedimenti presi: «Sono tempestivi e corrispondono agli obiettivi della difesa della nostra patria, della nostra sovranità e della nostra gente». Turchak ha poi comunicato che numerosi parlamentari sono pronti a rimettere il mandato per arruolarsi. Il più autorevole dei falchi è forse Vyacheslav Volodin, speaker della Duma, il quale sostiene che le truppe russe stanno combattendo già non solo «contro le formazioni naziste armate ma anche contro la Nato».

Rating 3.00 out of 5
Marquee Powered By Know How Media.