Archive for Settembre, 2022

Il crollo al Globe Theatre, gli studenti: «Un botto e la scala è venuta giù»

venerdì, Settembre 23rd, 2022

Attimi di paura per una classe di liceali di Roseto degli Abruzzi (Te)

LaPresse/Bottiglieri / CorriereTv

«Potevamo morire ma fortunatamente siamo riusciti a uscire sani e salvi». Attimi di paura per i ragazzi di un liceo di Roseto degli Abruzzi (TE) al Globe Theatre di Villa Borghese a Roma per il crollo di una scala. Sono dodici i feriti tra giovani e accompagnatori coinvolti nell’incidente durante l’uscita a fine spettacolo. Abbiamo sentito un botto e la scala è crollata tutta d’un colpo. «Il problema è stata la confusione che è arrivata subito dopo, ma per fortuna siamo riusciti a uscire» raccontano fuori dal teatro romano i ragazzi ancora scossi dall’accaduto. «Un episodio grave. Bisogna fare chiarezza con grande attenzione e severità per capire chi e dove ha sbagliato» ha detto il sindaco della Capitale Roberto Gualtieri arrivato sul posto per un sopralluogo.

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Meloni: «Basta turarsi il naso, siamo pronti. Presidenzialismo anche da soli»

venerdì, Settembre 23rd, 2022

di Paola Di Caro

Il comizio finale del centrodestra a Roma. Tensioni sui ministri. Meloni: divisa da Orbán su molte cose. Covid, non piegheremo più la libertà

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Trentatré mesi dopo, tornano assieme sul palco Silvio Berlusconi, Giorgia Meloni e Matteo Salvini, stavolta con Maurizio Lupi in più. Per il penultimo giorno di campagna elettorale, accade quello che non succedeva dal gennaio 2020, quando a Ravenna insieme chiesero all’Emilia Romagna di voltare pagina e votare per loro.

Il Corriere ha una newsletter dedicata alle elezioni: si intitola Diario Politico, è gratuita, e ci si iscrive qui.

Non fu così, e molte divisioni da allora hanno segnato il cammino del centrodestra. Qualcuna ancora resta, ma non tale da far pensare ai suoi leader che l’occasione di domenica non sia da cogliere per tornare al governo dopo 11 anni, con pesi completamente ribaltati fra i partiti ma ancora uniti. E con un programma di cui ciascuno rivendica un pezzo ma che poi Meloni sintetizza con un avvertimento: «Faremo una riforma in senso presidenziale e saremo felici se la sinistra vorrà darci una mano» ma se ci saranno «i numeri, noi la faremo lo stesso». Il tutto dopo aver cercato di diradare i nuvoloni neri sulla polemica del sostegno ad Orbán: «Non sono d’accordo con lui su tante cose, soprattutto sulla politica estera».

Ognuno lascia un segno sul mega palco di piazza del Popolo davanti a una folla per la stragrande maggioranza composta da militanti di FdI, comunque obbedienti tanto da applaudire calorosamente tutti, perché contano poco oggi le rivalità di partito, in palio c’è molto di più. E lo sanno anche Meloni, Salvini, Berlusconi e Lupi, che smussano le differenze e privilegiano l’unità. Berlusconi parla molto al passato rievocando i tempi dei suoi governi e insiste sul concetto che gli è caro: «Vogliamo un Paese più libero», dopo aver detto in tv che Putin «è caduto in una situazione difficile e drammatica», perché «è stato spinto dalla popolazione russa, dal suo partito e dai suoi ministri ad inventarsi questa operazione speciale».

Lupi grida che essere moderati non vuol dire non voler fare quello che serve «al popolo». Salvini, che si fa presentare come «il ministro degli Interni più amato di sempre», si ritaglia il ruolo di chi «proteggerà» gli italiani da un’Europa che mette gli italiani in difficoltà, da chi ha impedito la cancellazione della Fornero che sarà «il nostro primo provvedimento», dalla «droga», dai «clandestini» e da una sorta di invasione straniera («Chi viene qui deve imparare a dire grazie e prego») contro i quali è pronto a bloccare ancora le navi, da tasse come il canone Rai, dalle «cancellerie» di «Bruxelles, Parigi, Berlino che vorrebbero dirci per chi votare, e invece si mettano il cuore il pace, qui decidono gli italiani».

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Scostamento di bilancio o no? La strana lite SaIvini-Meloni

giovedì, Settembre 22nd, 2022

Fabrizio De Feo

«Lo scostamento di bilancio per far fronte all’emergenza bollette? Non possiamo aspettare, dobbiamo agire subito». «No, c’è il rischio di creare un pozzo senza fondo e di diventare prigionieri della speculazione».

A quattro giorni dal voto Matteo Salvini e Giorgia Meloni non nascondono di trovarsi in disaccordo sullo scostamento di bilancio. E se il leader della Lega insiste per un intervento immediato attraverso la creazione di nuovo debito, la presidente di Fratelli d’Italia si schiera sulla linea della prudenza e della responsabilità, facendo capire che tirare fuori nuovi soldi pubblici servirebbe soltanto a nutrire la speculazione. Un botta e risposta che serve anche a definire l’identità dei due partiti in questa ultima coda di campagna elettorale, con il Carroccio impegnato a cercare di recuperare consensi e a lanciare un messaggio ai ceti produttivi e il partito di Via della Scrofa che inizia a ragionare in un’ottica di governo, valutando vantaggi, svantaggi e pericoli di un intervento di questo tipo.

«Chi dice che possiamo aspettare due, tre mesi sbaglia. Questo vale per Fdi e per il Pd. É un’emergenza nazionale» dice Salvini. «Pare che ci si possa riconvocare anche dopo le elezioni perché questo governo fino a fine ottobre resta in carica. Mi rifiuto di pensare che un economista attento come Draghi non colga i segnali di sofferenza che arrivano dalle fabbriche, dai negozi, dagli artigiani; qui non rischiano solo le grandi imprese, rischiano tutti. Parlarne fra due mesi significa mettere oggettivamente a rischio il sistema produttivo».

La replica di Giorgia Meloni non si fa attendere. «Lo scostamento non è la soluzione». «È un pozzo senza fondo perché spiega a Rtl 102.5 sono soldi che regaliamo alla speculazione». Il punto di arrivo per la Meloni è «il disaccoppiamento dei costi di gas ed energia, che è una misura strutturale». Non è questione di alimentare divisioni reali e profonde all’interno del centrodestra che non ci sono, ma «continuare a spendere soldi a debito per calmierare i prezzi delle bollette, anche se è un tema che impatta e che la gente capisce facilmente, temo che non risolva il problema. La ragione per cui le bollette sono così alte non è perché la Russia ha aumentato il prezzo del gas. La Russia sta facendo un gioco di chiudere e aprire i rubinetti che fa salire la speculazione del gas. Ci sono grandi player che decidono il prezzo del gas e lo fanno salire perché dicono che il loro rischio aumenta. Il tetto al prezzo del gas è la misura più efficace, il mercato è europeo. Siccome il problema è la speculazione, se tu metti il tetto fermi la speculazione. Per ora non si riesce a ottenere per la resistenza dell’Olanda e della Germania».

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L’Europa, un continente in un mare in tempesta

giovedì, Settembre 22nd, 2022

Andrea Muratore

L‘Europa è un continente nel pieno di una tempesta geopolitica, energetica e, in prospettiva, economica che rischia per la quarta volta in 15 anni di travolgere il Vecchio continente. La guerra in Ucraina ha fatto deflagrare una situazione già difficilmente sostenibile da diversi anni. La tempesta energetica scatenata dal rincaro dei prezzi del gas naturale e del petrolio e dal “superciclo” delle materie prime porta nuovi venti recessivi dopo i precedenti tracolli del 2007-2008, della crisi dei debiti sovrani (2010-2012) e dell’anno di inizio della pandemia (2020).

La minaccia di una recessione si accompagna ai consistenti rischi politici e sociali che ciò impone. Se nel decennio scorso l’avanzata dei movimenti populisti aveva canalizzato in un alveo elettorale, quindi pienamente democratico, l’insoddisfazione generale in questa fase la minaccia di scioperi fiscali evoca scenari più imprevedibili.

C’è poi l’elemento geopolitico e strategico. Lo tsunami bellico scatenato dalla Russia di Vladimir Putin e lo spartiacque del 24 febbraio 2022 hanno avuto l’effetto di plasmare sempre di più in senso filo-atlantico l’Unione europea. Washington, insieme al Regno Unito, armando pesantemente Kiev ha ripreso centralità strategica mettendo in discussione le dinamiche inaugurate dal partito europeo della distensione e dell’autonomia strategica. E mettendo al tempo stesso in discussione l’egemonia dalla diarchia franco-tedesca, oggi indebolita dalle conseguenze della crisi energetica e dai dilemmi sulla conformazione della sicurezza europea nel dopoguerra – più Nato o un esercito comune? – mentre il poderoso riarmo della Germania si preannuncia un game changer di portata continentale.

Di questi temi si parla nel sedicesimo numero del magazine inglese di Inside Over, dal titolo Old Continent, New Challenges dedicato proprio alle sfide sistemiche che l’Europa deve affrontare.

La sua dipendenza energetica potrebbe portare il Vecchio Continente a una nuova crisi economica. Il contesto travagliato ai suoi confini fa peggiorare mese dopo mese lo scenario geopolitico. Dalla stabilità del Mediterraneo e dei Balcani alla migrazione, molte dinamiche potrebbero plasmare le strategie delle nazioni europee nel prossimo futuro.

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Giorgia contro Giorgia

giovedì, Settembre 22nd, 2022

FABIO MARTINI

ROMA. Nel pendolarismo ormai quotidiano di Giorgia Meloni c’è qualcosa di nuovo, anzi di antico. Nelle ultime settimane le sue oscillazioni hanno assunto una cadenza regolare, quasi fossero scandite da un metronomo. Un giorno la leader dei Fratelli d’Italia rassicura in modo impegnativo Bruxelles (no allo «scostamento di bilancio» a Roma) e il giorno dopo avverte l’Europa che «la pacchia è finita». Nelle ultime ore Meloni ha sostenuto che «il discorso di Putin tradisce grandissima difficoltà, debolezza e disperazione», ma nei giorni scorsi aveva difeso il migliore amico dell’autocrate russo nella Ue, Viktor Orban: «È un signore che ha vinto le elezioni più volte». E qualche ora dopo, a chi obiettava che pure Putin e Mussolini hanno vinto elezioni, Meloni ha corretto: «Io non faccio quello che dice Orban, io non faccio quello che dice nessuno».

È curioso: proprio in vista del traguardo, accanto ad un fisiologico realismo governista (approccio nuovo per una campionessa dell’opposizione) è come se fosse affiorata in Meloni una doppia anima. È come se Meloni avvertisse un richiamo della foresta, qualcosa che affonda in radici profonde: nella cultura del tutto originale della destra italiana, per mezzo secolo rimasta ai margini del sistema politico. Elettori, militanti, dirigenti dell’ Msi e di An hanno vissuto a lungo una marginalità da “stranieri in patria”, che ha alimentato due sentimenti: l’ansia di legittimazione, ma anche una forte reattività verso tutti coloro che, a sinistra, volevano spiegare cosa fosse “politicamente corretto”.

La romana Giorgia Meloni, una giovinezza trascorsa nel quartiere rosso della Garbatella, ha vissuto la coda di quella stagione. Tempi oggi inimmaginabili. Racconta Bruno Tabacci, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio e che nel 1992 era deputato Dc: «In quegli anni, per dirne solo una, era sconveniente andare alla buvette di Montecitorio e prendersi un caffè con un deputato missino». Racconta Federico Gennaccari, giornalista-editore della destra italiana: «Negli anni Settanta e Ottanta esistevano zone di Roma che i militanti della destra non potevano letteralmente attraversare, da Trastevere a Campo dei Fiori. O ci andavi di notte fonda o, come è capitato a qualcuno, quelle strade hai scoperto come erano fatte soltanto negli anni Novanta. Si viveva in un ghetto dal quale tentavi di uscire ma non era facile».

Nella forte reattività di Meloni e nelle sue oscillazioni quanto pesa quella antica cultura politica? Per lo storico Alessandro Campi «sì, c’è un tratto psicologico di gruppo, quello di un mondo che per decenni si è sentito sotto esame e sotto tutela, in una costante prova di legittimità democratica, come se si dovesse sempre scusare per i “bisnonni”. Una marginalità a volte cercata in passato ma che può spiegare una certa, latente reattività di queste settimane. Ma naturalmente l’alterità – tipica della tradizione dell’Msi – e al tempo stesso i numerosi anni di opposizione dei Fratelli d’Italia sono due fattori che hanno aiutato la loro ascesa elettorale».

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Chi finanzia i partiti. E quanto

giovedì, Settembre 22nd, 2022

di Chiara Nardinocchi

Cene, tour in giro per l’Italia a incassare voti e scattare foto per poi condividere eventi, sorrisi e slogan su post spesso a pagamento. Oltre allo scintillio, partiti e campagne elettorali sono macchine con ingranaggi che richiedono dedizione e soldi. Già, ma come si finanziano i partiti? Abbiamo analizzato i dati su erogazioni private e 2×1000 per scoprire come e quanto si rimpinguano le casse delle differenti formazioni.

IL FINANZIOMETRO

Inserendo il nome del partito si può scoprire quanto e da chi arrivano i finanziamenti con percentuali, grafici e una lista completa delle donazioni

Il periodo d’oro del finanziamento pubblico ai partiti, quando i rimborsi dello Stato toccavano cifre a otto zeri, è ormai finito. Così oggi gli schieramenti, da destra a sinistra, sono costretti a tirare la cinghia. O almeno così sembra guardando i dati.

Dopo la legge del Governo Letta che ha di fatto abolito il sistema di finanziamento diretto ai partiti, sono due le principali strade rimaste per contribuire a sostenerli: da un lato le elargizioni dei cittadini che se superiori a 500 euro devono essere rendicontate e dall’altro il 2×1000 del gettito Irpef dei singoli contribuenti. In entrambi i casi non tutti i partiti possono ricevere finanziamenti: è necessario infatti essere iscritti al registro stilato dalla commissione di magistrati designata al fine di escludere le formazioni che per statuto non applichino principi di democrazia interna.

Finanziamenti: la classifica

Il finanziamento dei privati: chi paga chi?

I partiti devono comunicare l’elenco dei finanziamenti ricevuti superiori in modo cumulativo a 500 euro e la trasmissione deve avvenire entro il mese di marzo dell’anno solare seguente a quello dell’erogazione. L’elenco è quindi pubblico e consultabile, ma non facilmente filtrabile. Per avere un orizzonte temporale unitario, abbiamo analizzato i dati relativi al periodo che va dal 1 dicembre 2021 ai primi di settembre 2022 escludendo tutte le donazioni precedenti.

I partiti hanno dovuto spartirsi i 21,5 milioni arrivati dalle erogazioni liberali. Al primo posto della classifica troviamo la Lega con 6,5 milioni di euro di cui circa 6 milioni destinati a Lega per Salvini premier e il restante a Lega nord per l’indipendenza della Padania. Seguono il Partito Democratico con circa 4,4 milioni, Movimento 5 stelle con 3,87 milioni e Fratelli d’Italia con 2,36 milioni.

La classifica resta più o meno invariata anche per il numero dei donatori, ma a cambiare profondamente in base al partito è lo “status” di chi dona. Salta agli occhi come i parlamentari, sebbene in misura variabile in base alla casacca, siano i principali contributori.

Agli estremi ci sono da un lato Movimento 5 stelle e Articolo 1 dei quali i parlamentari coprono oltre il 96% dei finanziamenti, dall’altro per una mancanza di rappresentanza parlamentare il progetto di Lupi Noi con l’Italia e Azione con una percentuale vicina o pari allo zero. Lega e Pd oscillano tra il 53 e il 59%.

Da chi arrivano i fondi?

L’economia della sussistenza

Quello tra erogazioni liberali e“addetti ai lavori” è un rapporto di dipendenza più o meno esplicito, ma che emerge ancor di più filtrando i nomi dei cittadini (già esclusi parlamentari e società) e confrontandoli con gli amministratori regionali e comunali. In poche parole, su 2764 finanziatori totali, 740 sono parlamentari e 995 i cittadini che ricoprono cariche politiche a livello regionale, provinciale o comunale. Appena un terzo del totale delle erogazioni arriva quindi da chi vive fuori dalla macchina politica.

Una fetta importante di gettito arriva da aziende, società e dal mondo dell’associazionismo e cooperative. Va detto che non di rado le stesse sono riconducibili a parlamentari o amministratori locali, a volte usate per sostenere le formazioni superando il tetto dei 100.000 euro imposto dalla legge. Caso a sé è il partito di Maurizio Lupi Noi con l’Italia che, inserito all’ultimo nel registro dei partiti “finanziabili”, deve quasi il 60% dei suoi introiti alla società Gestione grandi hotels central park spa, azienda riconducibile all’imprenditore Gianpiero Samorì un tempo designato come delfino di Silvio Berlusconi e che dopo il fallimento del suo esperimento politico “Moderati in rivoluzione” ha continuato a sostenere il partito dell’ex ministro Lupi.

Per il suo dna molto vicino all’imprenditoria del Nord e della Capitale, non stupisce che ad essere preferito da società e aziende sia anche il partito Azione capitanato da Carlo Calenda: più del 20% delle donazioni arriva da grandi firme e manager di successo.

A livello trasversale, tra quelle che hanno aperto il portafoglio sono numerose le ditte che lavorano con appalti del pubblico o in qualche modo legate alle amministrazioni locali. Analizzando il lungo elenco dei finanziatori, risulta curiosa la scelta di due aziende che in una perfetta par condicio hanno finanziato partiti ideologicamente opposti: è questo il caso di Furia srl e Igino Poggi Eredi srl che hanno deciso di devolvere una parte dei finanziamenti al Pd e Fdi (la prima) e Lega (la seconda).

Eletti ed elettori: il 2×1000

Un’altra fondamentale fonte di sostentamento arriva dal 2×1000 dell’Irpef che i cittadini decidono di destinare ai partiti o allo Stato.

Introdotta dal decreto legge 47/2013, convertito dalla legge 13/2014, questa voce rappresenta la parte principale degli introiti dei partiti e dà un quadro molto differente e forse più completo dei sostenitori (e quindi dell’elettorato) delle diverse formazioni.

Dal 2015 a oggi, Fratelli d’Italia ha registrato una crescita costante passando dal 5 al 15% delle donazioni sul totale. Mentre il Partito Democratico, sebbene in flessione rispetto agli anni precedenti, stacca di molto le altre formazioni sia per totale di donatori (il 34% del totale) che per fondi raccolti (6,9mln di fondi, circa 4 milioni in più rispetto a Fdi, secondo in classifica).

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Che sarà di noi?

giovedì, Settembre 22nd, 2022

Mattia Feltri

Admir Masic sarà uno dei grandi ospiti di Italian Tech Week (Torino, 29-30 settembre). Non conoscevo la sua storia, prima di leggerla ieri su Repubblica. Admir insegna al Mit di Boston, una delle più importanti università del mondo, e dove ha lanciato un programma per far studiare gratuitamente i rifugiati più meritevoli. Non ha dimenticato da dove viene: è nato nel 1978 a Bosanski Brod, piccola città della Bosnia. 

Nel 1992, allo scoppio della guerra, la sua famiglia si rifugia in Croazia, a Rijeka. Ha quattordici anni, il massimo dei voti, vince le Olimpiadi di chimica della Croazia. I suoi genitori emigrano in Germania, lui decide di concludere le superiori in Croazia, dove lo aiutano economicamente volontari italiani. Alla fine delle superiori va a studiare chimica all’Università di Torino. Laureato con 110 e lode, naturalmente. Mi sono innamorato dell’Italia, mi sentivo italiano, dice oggi. 

Lancia una start-up ma, siccome non è un lavoro dipendente, niente permesso di soggiorno: Admir viene espulso. Lo accolgono in Germania, lì fa ricerca, dopo qualche anno lo vuole tutto il mondo, e lui sceglie il Mit, Boston, l’America. Ora torna a Torino da vincente, e senza rancore: sono bosniaco, ho il cuore italiano, il passaporto tedesco, la testa americana – dice. 

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Se lo Zar trasforma in realtà la minaccia atomica

giovedì, Settembre 22nd, 2022

DOMENICO QUIRICO

E adesso? Adesso dopo il discorso di Putin? Il tempo trattiene il fiato. Pare che null’altro, avanzate controffensive vittoriose missili a pioggia riti sempre più scaduti dell’Onu, getti un’ombra sotto quella trasparente e irreale della Grande Minaccia. È come se una enorme cometa medioevale stesse insieme con il sole nel cielo luminoso di autunno. Tutto potrebbe disgregarsi. E tutto è possibile. Una inesplicabile pazzia addenta il cervello della povera umanità. Eppure da duecento giorni è l’eterna scena della umanità che si prolunga: gli sgherri della forza, la vittima e il solito terzo, noi, lo spettatore che difende la vittima fino a un certo punto, fa il conto dei danni di quell’aiuto e spera, senza dirlo, che la realtà lo cavi dai guai così, per miracolo.

Il discorso di Putin dà il nome alle cose, disocculta il non detto: la Bomba non è più silenzio, una disgrazia di cui è meglio tacere, una insoluta possibilità che appartiene alle ipotesi possibili. Lo stesso Putin, lo sconfitto, l’umiliato, il deriso per la sua potenza di cartapesta e il suo esercito di generali imbelli e soldati predoni, corrode dall’interno esplicitamente i nostri tenaci luoghi comuni. Produce senso, guardate che non sto bluffando. Con l’avvio della mobilitazione generale dei russi e la clausola atomica che scatterebbe al momento in cui gli ucraini, come annunciano e ripetono con l’orgoglio di chi in questo momento avanza, metteranno piede in Russia, che non è più la annessa Crimea ma anche il Donbass. Siamo entrati tutti, anche noi europei, i sostenitori dell’Ucraina, negli eventi possibili, la guerra atomica, a cui non si aveva, finora, il coraggio di dare parola e storia.

Già li sento, i sicuri di sé, gli analisti infallibili della vittoria strasicura, li sento aggrapparsi al fuscello: ma via! È la mossa disperata di un cadavere vivente, il blaterale al vuoto di uno sconfitto. Non oserebbe, non oserà! Già: ma siete sicuri di avere il coraggio di andare a vedere il colore della sua Carta?

Lo sconfitto Putin rovescia il senso della guerra che ha criminalmente voluto, ora non parliamo più dello stesso oggetto. L’assurdità di una guerra atomica che si fa possibile determina una condotta paradossale. Essa consiste nel persuadere l’avversario che si ha la volontà di preferire il nulla all’essere e di far saltare in aria il pianeta mediante un suicidio collettivo. La oscillazione tra il nulla e l’essere, tra la morte e la sopravvivenza, tra il suicidio e la vita non è più affare degli ucraini sventurati e dei russi. Diventa di ognuno di noi. La Storia forse ieri è finita come è finita la preistoria, forse siamo entrati nella post Storia di cui è arduo e forse inutile prevedere la lunghezza e gli esiti.

Allora militarmente parlando. Gli ucraini e i loro alleati, gli Stati Uniti, devono porsi la domanda finora rinviata accuratamente: se avanziamo nel Donbass e cerchiamo di sbarcare in Crimea che cosa succederà? Chi avrà il coraggio di superare la linea tracciata su questa prepotenza nel 2014 e ieri sapendo che la deterrenza non è più deterrenza ma un’arma normale, utilizzabile, possibile? Finora nel giudicare questa guerra gli elementi erano semplici a meno che non si fosse partigiani o in malafede: la giustizia delle vittime, gli ucraini, il torto dell’aggressore, la Russia. Putin che non riusciva a vincere doveva complicare il quadro, drammatizzarlo fino a sconvolgerlo. Deve imporre la domanda che non è più possiamo vincere e punire l’aggressore, ora è: possiamo sopravvivere alla vittoria? O meglio esisterà ancora qualcosa che assomigli alla vittoria, dopo?

C’è un leader che ha già dovuto affrontare questa domanda tremenda attraversando la valle scura della prima Guerra fredda, Kruscev per la crisi di Cuba. Sapeva che se avesse tentato di portare a fondo la sua sfida Kennedy avrebbe usato la Bomba, lo disse: non bluffo. Tornò indietro. Ma allora il vertice del regime sovietico, una dittatura come quella putiniana ma meno primitiva, era di tipo collegiale, falchi e colombe si scontrarono e prevalse la ragione. Le navi russe con i missili tornarono indietro.

Oggi l’autocrazia putiniana non è di tipo collegiale, è personale, shakespiriana nella sua solitudine. Dopo che è scoppiata la guerra abbiamo volontariamente rinunciato a cercare di capire cosa succedeva a Mosca, abbiamo fatto scendere il buio: è il regno del Male assoluto, la Gorgone che non bisogna guardare, solo distruggerla. In fondo che sappiamo di Putin, di perché ha agito a febbraio, di quali erano, fin dall’inizio i sui obiettivi, di come li ha adattati alle nostre reazioni e agli imprevisti che ogni guerra crea nel suo cammino?

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Ciclabili a Milano, 70 chilometri di piste e velostazioni: come cambia la città delle bici (express)

giovedì, Settembre 22nd, 2022

di Andrea Senesi

Piano biennale da 25 percorsi e 70 chilometri. Censi: «Reale alternativa all’auto»

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(Ansa)

Venticinque percorsi e settanta nuovi chilometri di tracciato. Piste ciclabili o, più spesso, semplici corsie disegnate sull’asfalto. Bike lane. In commissione consiliare s’è fatto il punto sulla programmazione per i prossimi due anni. Nel 2023 sono stati ipotizzati lavori per il completamento di undici percorsi ciclabili , compresi quelli realizzati solo in segnaletica orizzontale e verticale e quelli più complessi in sede protetta. Tra i più lunghi ci saranno quello tra piazza Stuparich e piazzale Maciachini, che seguirà il percorso della circonvallazione, e quello tra piazzale Siena, in zona Bande Nere, fino a piazza Miani. Sarà invece realizzato con un intervento «strutturale» quello tra via Rombon e viale Palmanova, a Crescenzago, che incrocerà l’itinerario ciclabile programmato in via Feltre. Entrambi i percorsi passeranno davanti alle scuole del quartiere.

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Milano, gli itinerari per i ciclisti

È prevista anche la continuazione dell’itinerario che da via Novara, attraverso via Rembrandt, piazza Wagner e via Pagano, arriverà fino alla stazione Cadorna. Nel 2024 si ipotizza invece la realizzazione di quattordici itinerari, tra cui la continuazione di quello ciclabile di via Primaticcio, da largo Brasilia a largo Giambellino, e quello lungo la circonvallazione esterna, tra via Bellezza e piazza Argentina. Alcune ipotesi sono ancora in fase di studio, altre in fase più avanzata come quella che legherà il nuovo quartiere di Santa Giulia a piazzale Ovidio e il completamento dell’asse da via Primaticcio, da largo Brasilia a largo Giambellino, tutta in sede protetta, che si collegherà alla pista ciclabile attualmente in realizzazione in piazza Napoli. L’orizzonte è lungo e non è detto che qualche intervento possa essere anticipato oppure sostituito da altri. Anche perché tutti i tracciati in agenda dovranno comunque ricevere il via libera dai Municipi di competenza.

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Il futuro della scuola nel silenzio dei partiti

giovedì, Settembre 22nd, 2022

di Ernesto Galli della Loggia

I promossi sfiorano ormai sempre il 100 per cento. Dato solo apparentemente ultrapositivo, infatti di questi promossi oltre il 20% abbandona l’università dopo il primo anno e alla laurea non arriva neppure la metà delle matricole

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(LaPresse)

Anche in questa campagna elettorale per l’ennesima volta sull’istruzione è calato il silenzio. Nessun partito ne ha fatto un tema centrale della sua piattaforma politica. Il fatto è che della scuola e dell’istruzione, in realtà, la politica non sa né si cura di sapere nulla. Ubriacata dal mare di demagogia che negli ultimi trent’anni essa stessa ha prodotto al riguardo e che la burocrazia ministeriale si è incaricata di moltiplicare per mille, ignora la realtà critica delle cose. Ignora che l’intero sistema italiano dell’istruzione pubblica, dalla scuola dell’infanzia all’Università, fa acqua da ogni parte. E per conseguenza non si rende conto che questa sta diventando sempre di più una delle cause principali della nostra arretratezza complessiva come Paese.

Basta a confermarlo il dato di cui abbiamo avuto notizia proprio da questo giornale ( Corriere della Sera , 19 settembre): le altissime cifre dell’evasione dell’obbligo scolastico e dell’abbandono degli studi (quelli universitari compresi). Il che fa sì che ben il 23,1% (una cifra enorme) dei giovani italiani tra i 15 e i 29 anni di età non studia e non lavora. Si spiega così la situazione del nostro mercato del lavoro che specie nel Mezzogiorno e specie tra le donne vede un altissimo numero di persone prive di qualunque competenza professionale, destinate perciò alla disoccupazione o a lavori dequalificati e perlopiù in nero: due categorie, detto tra parentesi, alle quali appartengono anche molti percettori del reddito di cittadinanza.

Ma la crisi del sistema dell’istruzione ha un significato ancora più vasto e grave. La scuola che c’è è una scuola che — non per colpa di chi in essa lavora ma a causa dell’impostazione che le è stata data da scelte politiche sconsiderate — non ha come sua stella polare l’importanza cruciale del sapere, non motiva allo studio, non pone al primo posto il merito e quindi non educa in questo senso le nuove generazioni. Stando alle prove Invalsi è una scuola che non riesce neppure a insegnare ai suoi alunni (ci riesce infatti solo la metà) a comprendere il significato di un testo scritto non in cinese ma in italiano. È insomma una scuola che a dispetto di tutte le sue intenzioni non aiuta la società italiana a essere migliore, più dinamica, più competente, più colta, più civile.

Per rimediare non basta tuttavia farla finita con le conseguenze di prassi o di scelte sbagliate compiute in passato. Non servono controriforme. Ciò che è necessario è ripensare l’intera organizzazione dei cicli scolastici: non solo stabilendo finalmente la durata dell’obbligo al termine delle secondarie (17-18 anni), ma adottando un principio nuovo, e cioè partendo dal punto d’arrivo degli studi, da quella che oggi è l’Università.

Per avere una scuola nuova bisogna innanzi tutto immaginare un nuovo modello per gli sbocchi che essa apre ai suoi studenti dopo l’esame finale di licenza di scuola secondaria. L’esistenza — come avviene ancora oggi — di un solo sbocco, quello universitario tradizionale, a cui da mezzo secolo è possibile accedere con il diploma di qualsiasi scuola secondaria, condiziona e distorce profondamente il carattere della scuola. L’esistenza di un unico sbocco presuppone infatti due cose del tutto irreali: innanzi tutto l’equivalenza sostanziale della qualità dei contenuti dell’insegnamento e dei suoi risultati in qualunque tipo di scuola, da quella professionale al liceo classico; in secondo luogo presuppone l’eguaglianza delle vocazioni e delle attitudini di tutti i giovani licenziati, tutti ottimi potenziali candidati ai medesimi studi universitari.

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