Massimo Cacciari, filosofo ed ex sindaco di Venezia, è stato intervistato da Affari Italiani sulle recenti mosse del Partito Democratico dopo la batosta elettorale: “Allucinante il dibattito congressuale. Le prime battute sono davvero allucinanti, peggio ancora di quando è arrivato Nicola Zingaretti che almeno prometteva un minimo di esito innovativo. Ora si discute del niente. Il problema da porsi è se in questo Paese possa esistere una forza politica che, in base alla sua storia, si ponga 2-3 obiettivi programmatici e che pensi soprattutto all’interesse delle masse che stanno soffrendo gravissimi disagi economici.
Giorgia Meloni fa un passo verso la Lega. La leader di Fratelli d’Italia, che non è disposta a cedere la presidenza del Senato per nulla al mondo, è invece propensa ad assegnare al partito guidato da Matteo Salvini il ministero dell’Economia. Come riferisce Repubblica il piano è quello di promuovere Giancarlo Giorgetti, attualmente ministro dello Sviluppo economico.
“Matteo Salvini, però, è contrario. Non ha voglia di garantire una postazione così importante a un suo rivale interno. La vive come una provocazione. A meno che la prossima presidente non gli assicuri il ruolo di vicepremier, assieme a una delega minore come Agricoltura o Infrastrutture” la ricostruzione del quotidiano sulla vicenda. Le alternative tecniche restano per il momento tiepide: Fabio Panetta, Domenico Siniscalco e Dario Scannapieco non hanno dato segnali di apertura, mentre il nome di Gaetano Micciché resta in secondo piano.
Ancora tensioni con Berlusconi sulla senatrice. Il manager in corsa per una delega all’Energia
Si stringono i tempi. Tra oggi e domani si terrà il vertice dei leader per sciogliere i tanti nodi ancora intricati e permettere poi a Giorgia Meloni di
definire la sua squadra di governo. In realtà, a meno di sorprese,
bisognerà attendere il 21 ottobre per la nascita dell’esecutivo, quando
Mario Draghi tornerà dal vertice europeo sull’energia. Ma Meloni sa quanto sia urgente chiudere questa lunghissima fase in cui a dominare la scena sono state le trattative sui posti, le liti con gli alleati: Berlusconi è ancora furioso per quelli che considera «veti» inaccettabili sui suoi, la Lega è impegnata in più d’un braccio di ferro.
Per questo vuole essere «pronta»,
e comunicare all’esterno che il suo governo non sarà quello delle beghe
e del Cencelli. Pur sapendo che alla fine, per quanto lei voglia
scremare dai nomi proposti dagli alleati, non tutti potranno essere da
libro dei sogni. Anche per questo da Fratelli d’Italia contrattaccano:
il loro governo non sarà certo meno autorevole dei precedenti. E
respingono il clima da esame da superare: «Abbiamo nomi assolutamente all’altezza nei
nostri partiti. All’Economia mi sembra che il Pd mise Gualtieri,
laureato in Storia. Noi avremo un laureato in economia…», assicura
Giovanbattista Fazzolari, anche se sul Mef è rebus, con qualche speranza
ancora di coinvolgere Panetta e altri nomi di tecnici sullo sfondo:
l’ex ministro Siniscalco, Scannapieco (Cdp), Mazzotta (Ragioniere
generale), Cipollone (Bankitalia) tra i nomi che girano.
Ma il primo appuntamento sarà sui presidenti delle Camere.
In FdI si considera pressoché chiuso l’accordo: Ignazio La Russa al
Senato e il leghista Riccardo Molinari alla Camera. Meloni non ha
intenzione di cedere e vuole destinare la seconda carica dello Stato a
un suo fedelissimo, di grande esperienza. Ma la Lega ancora tiene viva la candidatura di Calderoli per Palazzo Madama, anche per non dare l’idea di un cedimento su troppi fronti.
Sarà il primo accordo da chiudere al vertice (si vota da giovedì), ma non il solo.
Perché gli alleati ancora sono in trincea, temendo che la prossima
premier voglia adottare il «metodo Draghi», scegliendo lei quali uomini
dei partiti alleati nominare ministri e dove. E in effetti sembra che,
se per strategia o convinzione si vedrà, il «rischio» non sia affatto
escluso. Tra i nomi per l’Economia, confermano infatti da FdI, ci sarebbe ancora quello di Giorgetti:
non proprio un gesto affettuoso per Salvini, se è vero che scegliere un
esponente della minoranza per un dicastero di gran peso sarebbe una
mossa pesante.
Apertissimo è il caso Ronzulli.
Berlusconi non cede: per lei continua a pretendere un dicastero di
peso, «con portafoglio», se non la Sanità, come da prima richiesta, o le
Infrastrutture o l’Agricoltura; possibile mediazione, il Turismo. Ma
Meloni al momento non ci sta: per Ronzulli era stata proposta la
vicepresidenza del Senato, inutilmente. Il caso, secondo la leader di
FdI, sta già danneggiando l’immagine dell’esecutivo, e se le cose
vengono messe così allora potrebbe escludere del tutto la fedelissima
del Cavaliere dalla squadra, confermando invece Antonio Tajani agli
Esteri. Una casella questa che sembra tra le più sicure; ieri anche una
possibile candidata come Elisabetta Belloni, a capo del Dipartimento informazioni per la Sicurezza, ha chiarito: «No, non farò il ministro perché
faccio un altro lavoro». Urso è invece sempre più solido alla Difesa,
il prefetto Piantedosi rimane favorito per gli Interni, Nordio alla
Giustizia.
Sia a destra sia a sinistra, uscito di scena Draghi riemergerà chi vuole ridurre le armi a Kiev e le sanzioni a Mosca
Antica scuola comunista, quel
furbone del governatore campano Vincenzo De Luca ha preso tutti in
contropiede. Appena ha sentito che Giuseppe Conte (reduce da un successo
elettorale proprio nella sua regione) annunciava una manifestazione nel
segno della colomba, ha preso per il braccio il sindaco di Napoli
Gaetano Manfredi e ha convocato una parata tutta sua. Il 28 ottobre, per giunta, nel centenario della marcia su Roma.
Meno lesti di De Luca, tutti o quasi i dirigenti del Partito
democratico, piccoli e grandi, si sono messi in sintonia con i tempi
nuovi. Così, per gettarsi tra le braccia del Movimento Cinque Stelle,
stanno cercando un modo non disdicevole di invertire la rotta e
abbracciare la causa pacifista. I deputati Pd al Parlamento europeo, in
otto, assieme a leghisti e pentastellati, hanno fatto proprio un
emendamento di due deputati della sinistra irlandese anti Nato, Mick
Wallace e Clare Daly. Altri europarlamentari Pd, compresa l’antifona, si
sono trattenuti. Del loro capodelegazione, Brando Benifei, si è capito
soltanto che nel caos ha votato prima sì e poi no (o viceversa). Chiaro
che non si stavano dividendo tra chi era più o meno favorevole al
negoziato. Bensì sul riavvicinamento al M5S.
Nelle settimane iniziali della guerra
d’Ucraina, Enrico Letta era stato il più esplicito sostenitore delle
ragioni degli aggrediti. Mentre altri leader politici italiani si
perdevano in uno specioso dibattito sulle responsabilità remote del
conflitto nonché sull’opportunità o meno di armare l’Ucraina e
sanzionare la Russia, l’Italia ha avuto — anche grazie a Letta — una
posizione coerentemente filoatlantica. Per merito soprattutto di Sergio
Mattarella e di Mario Draghi. Così come dei terzopolisti. E persino, le
va riconosciuto, di Giorgia Meloni, la quale, pur stando
all’opposizione, in politica internazionale si è sempre schierata con il
governo.
Uscito di scena Draghi, le cose saranno meno semplici. Giorgia
Meloni avrà il suo daffare nel tenere a bada la voglia matta di Salvini
e Berlusconi di riallacciare il dialogo con Putin. E a sinistra, pur
restando Letta segretario pro forma per i prossimi sei mesi, già si
annunciano festeggiamenti arcobaleno sulla scia di Conte e De Luca.
In un labirinto di formule nelle quali sarà arduo individuare dov’è che
si è imboccata la via che conduce ad un’unica meta: togliere (o
ridurre) le armi a Kiev e togliere altresì (o ridurre) le sanzioni a
Mosca.
Per quel che riguarda il tragitto sarà sufficiente dare un’aggiustatina alle parole. Basterà
presentare come tappa dell’«escalation» ogni atto di guerra ucraino.
Mai invece quelli russi siano anche missili su un campo giochi di Kiev.
Quelle saranno sempre «reazioni». Il capo del governo di Kiev
andrà poi definito «guitto», «fantoccio», un «irresponsabile», al quale
lo stesso Blinken è costretto a inviare «pizzini perché si dia una
calmata». La primavera scorsa le parti erano invertite. Biden e il
segretario della Nato Stoltenberg avrebbero — secondo le stesse fonti —
«bloccato tra marzo e aprile una bozza d’accordo Mosca-Kiev». Adesso
invece il presidente statunitense, evidentemente, starebbe cercando
un’intesa con Putin ed ecco che Zelensky, capo del «partito della guerra
a tutti costi», prende iniziative inconsulte per far naufragare quelle
trattative.
Il che legittimerebbe una lunga serie di stravaganti domande: fino a dove vuoi spingerti Zelensky? Vuoi destabilizzare Putin portandolo a compiere gesti inconsulti? Intendi
forse trascinarci in una guerra mondiale? Dicci una buona volta a quali
parti del tuo Paese sei disposto a rinunciare e lascia a noi il compito
di trattare al posto tuo dal momento che tu non hai la serenità
necessaria per dialoghi di questo genere. E fallo in fretta perché siamo
stufi di pagare aumenti in bolletta per comprarti armi sempre più
sofisticate. Nel frattempo, limitati a difendere le posizioni che hai
già e non azzardarti a compiere azioni di guerra su terre che furono sì
Ucraina ma che ora sono state incamerate dai tuoi aggressori.
Cinque trilioni. Gli italiani non sono
abituati a ragionare con questi ordini di grandezza nonostante il debito
pubblico il trilione lo abbia superato da un pezzo e si avvicini ai tre.
Ma, per fortuna, possiamo ancora dire che la ricchezza finanziaria
degli italiani, al netto delle passività, è quasi due volte il loro
debito pubblico. Grosso modo cinquemila miliardi. Nei giorni scorsi,
l’Istat ha aggiornato i dati sulla propensione al risparmio che, alla
fine del primo semestre di quest’anno, è stata del 9,3 per cento. In
calo sensibile (4 punti e mezzo in meno in un anno) ma sempre superiore
al periodo pre pandemia. Per non consumare troppo di meno si risparmia
un po’ di meno.
L’inflazione erode il valore reale dei
patrimoni, ma gran parte dei cittadini — soprattutto quelli che non
hanno convissuto in passato con la rincorsa tra costi e prezzi — non
sempre ne ha una piena consapevolezza. Non coglie la velocità con cui
morde il tasso composto. Una ricerca scientifica ha calcolato
(come avranno mai fatto?) che sulla Terra ci sono 20 mila trilioni di
formiche. Se fosse possibile dividerle per nazionalità le nostre
sarebbero le più operose e previdenti. Siamo grandi risparmiatori ma non
eccellenti investitori, soprattutto nel medio e lungo periodo. E,
ulteriore paradosso, l’importanza del nostro risparmio è più valutata e
concupita, non senza istinti predatori, dai grandi gestori
internazionali che dai nostri operatori nazionali, non esenti da colpe. O
meglio: i primi si sono svegliati per tempo con strategie aggressive; i
secondi sono stati, salvo rare eccezioni, affetti da provincialismo,
condizionati da necessità immediate e da calcoli di breve periodo.
Perché se così non fosse
Unicredit — ai tempi di Jean-Pierre Mustier — non avrebbe ceduto Pioneer
alla francese Amundi, ovvero al Crédit Agricole. Un’operazione che
Oltralpe, a parti invertite, non sarebbe mai passata. A maggior ragione
se l’avesse fatta un italiano. Forse nemmeno a Bruxelles. All’epoca, nel
2016, nessun protagonista nazionale fu in grado di offrire più dei
francesi, forti delle economie di scala. L’allora governo Renzi spinse,
ma senza successo, i connazionali a provarci, in particolare Poste,
allora dirette da Francesco Caio. Chi è piccolo può osare di meno. E la
tenuta dei conti è inevitabilmente al vaglio degli azionisti. E degli
stessi asset manager che ne decidono le quotazioni di Borsa
penalizzandole se il passo dei nuovi investimenti è più lungo della
gamba. Le banche e le assicurazioni italiane realizzano parte cospicua
dei loro utili grazie alle commissioni del risparmio gestito. In queste
ultime settimane è tutto un agitarsi per vincere la sfida delle
dimensioni.
Generali guarda all’asset management
americano (Guggenheim Partners o alla più piccola BrightSphere), non
solo per ragioni di massa gestita e diversificazione dei mercati ma
anche e soprattutto per le competenze, la qualità delle analisi, la
capacità di fabbricazione dei prodotti. Un po’ come fece
Unicredit ai tempi di Alessandro Profumo e Pietro Modiano quando comprò
Pioneer, il più vecchio fondo di gestione americana del risparmio. Anche
con l’obiettivo di vendere prodotti al di fuori della propria rete di
sportelli, vizio e limite della storia italiana del settore.
La partita del Leone
Torna d’attualità
l’ipotesi che Trieste possa cedere Banca Generali a Mediobanca,
aumentando il volume di fuoco nel risparmio gestito dell’istituto
milanese (che però è di soli 80 miliardi contro i 530 di Intesa e i 489
del Gruppo Generali). Eventualità avversata dai soci Caltagirone e Del
Vecchio e all’origine della fratricida sfida della scorsa primavera che
li opponeva a piazzetta Cuccia, socio di maggioranza relativa del Leone.
Il sofferto e non scontato aumento di
capitale da 2,5 miliardi del Monte dei Paschi è un passaggio essenziale.
Non solo per i destini della banca senese. Coinvolge, non senza
difficoltà e resistenze, i soci commerciali — Axa, altro gigante
francese delle assicurazioni e dell’asset management — e Anima, di cui
Banco Bpm ha il 20 per cento e Poste l’11. La formazione di altri
poli bancari influirà sull’inevitabile processo di aggregazione anche
dei protagonisti del risparmio gestito che hanno negli istituti di
credito i loro canali di distribuzione. Bper ha appena integrato Carige.
Crédit Agricole ha il 9,2 per cento di Banco Bpm dopo aver conquistato
il Credito Valtellinese e diverse casse minori.
banche
Un’ora in più di lavoro al giorno, in cambio di un giorno in
meno in ufficio. Saldo finale: la settimana si accorcia, da 37 ore e
mezza a 36 complessive, lo stipendio resta lo stesso, ci si riappropria
di un po’ di tempo, azienda e dipendente risparmiano (al netto, ça va
sans dire, del braccio di ferro sindacale in atto: che si fa con i buoni
pasto del giorno di riposo guadagnato?). Intesa Sanpaolo ha 76mila
dipendenti, come nessuno nel nostro Paese. Ecco allora che la proposta
che la banca ha avanzato agli impiegati, filiali escluse, potrebbe
segnare tra poche ore (domani il possibile via libera) uno spartiacque
in un mercato del lavoro, quello italiano, che il grande balzo nella
flessibilità lo ha fatto solo quando è stato costretto dalla pandemia.
Per poi tornare frettolosamente indietro non appena l’emergenza
sanitaria è rientrata, lasciando riaffiorare diffidenze e
tradizionalismi per tutto ciò che si discosta dalle classiche otto ore
alla scrivania dal lunedì al venerdì.
Qui non si tratta di smart working, che pure nel settore bancario è
diffuso già dal pre-pandemia, quando il contratto di categoria aveva
inserito dieci giorni da casa al mese, cioè quasi il 40% del tempo di
lavoro. Il modello della settimana corta guarda in due direzioni. La
prima è contingente e di portafogli: meno gente in ufficio significa per
l’azienda un risparmio in bolletta nella stagione della crisi
energetica e per i dipendenti un bel taglio alle spese di trasporto. La
seconda è strutturale e di cosiddetto work-life balance: migliorare la
qualità della vita dei lavoratori. E non c’è bisogno di spiegare perché
faccia una gran differenza chiudere la settimana al giovedì alle 18
anziché al venerdì alle 17 o andarsene in gita al mercoledì.
Il modello è in crescita, ma ancora un’eccezione in Italia. Il suo
guru sta dall’altra parte del mondo: l’imprenditore Andrew Barnes,
fondatore della più grande fiduciaria neozelandese, la Perpetual
Guardian, ha messo su una fondazione per convincere tutti che il futuro è
nella settimana corta, come si fa nella sua azienda. La “4 Day Week
Global Foundation” ha una mission evangelizzatrice: lavorate tutti
quattro giorni a settimana e il benessere globale migliorerà, noi siamo
qui per parlarne e insegnarvi come ci si organizza.
Il principio-guida, anche nello schema di Intesa Sanpaolo, è la
flessibilità, dunque non si impone di godere del terzo giorno di riposo a
fine settimana per chiudere l’ufficio al giovedì: il lavoratore può
scegliere, concordandolo, quando prendersi il break aggiuntivo. Libero
al martedì, al lavoro al venerdì. O viceversa, senza paletti. In una
filosofia che trova un compromesso tra i vecchi modelli organizzativi e
quella grande fame di riappropriazione del proprio tempo che ci hanno
lasciato i lockdown e che ha spinto fenomeni come la great resignation
americana, le dimissioni di massa figlie di una concezione della vita in
cui il lavoro ha sceso diversi gradini della scala di priorità.
ROMA – Pare siano stati i modi di Ignazio La Russa a
innervosire Silvio Berlusconi. Soprattutto il tono con cui il senatore
di Fratelli d’Italia, accanto alla leader Giorgia Meloni durante il
vertice ad Arcore di sabato, ostentava, con un pizzico di sarcasmo, la
generosità di chi dall’alto del 26 per cento di consensi è pronto a
lasciare qualcosa agli alleati che hanno preso meno di un terzo dei voti
di FdI. Raccontano che Berlusconi si sia addirittura alzato dalla
poltrona, infastidito. E ancora ieri dentro Forza Italia si commentavano
le indiscrezioni del partito sulla reazione del presidente azzurro, e i
suoi giudizi successivi all’incontro. Uno su tutti: «Questa signora
(riferito a Meloni, ndr) pensa di trattarmi come fossi un rimbambito», è
la frase attribuita al Cavaliere dai suoi fedelissimi.
Le crepe dentro il centrodestra, a due giorni dal battesimo del nuovo
Parlamento, dovrebbero impensierire la premier in pectore. Ogni giorno
che passa diventa sempre più evidente l’insofferenza degli alleati nei
suoi confronti. Per i veti, il metodo, la passione improvvisa per i
tecnici. Domani Meloni, Berlusconi e Matteo Salvini si rivedranno e
dovranno accordarsi almeno sulle presidenze di Camera e Senato, per non
arrivare privi di un nome l’indomani, alla prima seduta della nuova
legislatura. La presidente di FdI non intende cedere su Ignazio La
Russa. Lo vuole sullo scranno più alto di Palazzo Madama. Salvini però
non molla. E continua a chiedere la seconda carica dello Stato per
Roberto Calderoli. È una trincea anche molto tattica – il Senato è una
pedina fondamentale per trattare sui ministeri – oltre che utile a non
rompere equilibri interni al partito che dopo il voto sono diventati
molto più fragili. Ottenere Palazzo Madama, per Salvini vorrebbe dire
anche evitare di scegliere chi andrà alla presidenza della Camera, tra
Giancarlo Giorgetti, il numero due della Lega che le tante
incomprensioni hanno allontanato dal segretario, e Riccardo Molinari,
capogruppo uscente, dato per favorito.
Il segretario del Carroccio dà per scontato che Meloni cederà sui
vicepremier e sembra ormai deciso a prendere per sé le Infrastrutture.
Nonostante qualche dubbio su un posto di comando che risulta abbastanza
scomodo per chi guida un partito, Salvini lo considera comunque un
ministero più strategico dell’Agricoltura, che vorrebbe lasciare
all’amico Gianmarco Centinaio. Non c’è più l’Interno nell’orizzonte del
leader. Al Viminale però dovrebbe finire il suo ex capo di gabinetto, il
prefetto di Roma Matteo Piantedosi, un nome a lui molto gradito. Nella
short list leghista poi restano altre due caselle. Una, nel partito, la
danno per certa: gli Affari regionali, cruciale per realizzare
l’autonomia. La seconda richiesta è il Turismo, magari integrato con lo
Sport. Alla Lega, però, potrebbe rimanere solo il secondo se Berlusconi
si impunterà con Meloni per avere Licia Ronzulli all’interno della
squadra di governo.
Le due non si amano ma il presidente azzurro è stato categorico: «Lei
deve esserci». Il Turismo potrebbe essere il compromesso, anche se la
futura presidente del Consiglio continua a non digerire l’idea e a
Ronzulli preferirebbe Anna Maria Bernini.
Il 230° giorno della guerra in Ucraina inizia con il ritorno a
Kiev delle sirene anti aereo, dopo che i massicci raid russi di ieri
sono costati la vita a 14 persone nella capitale e in altre città. Lo
riferiscono vari giornalisti stranieri sul posto. Il Kyiv independent ha
dato notizia invece di raid nella notte su Zaporizhzhia: nel mirino
«un’infrastruttura della città», già duramente colpita nei giorni scorsi
con attacchi che hanno fatto oltre 40 morti tra i civili. Vista la
nuova escalation del conflitto, oggi è prevista una riunione urgente del
G7 sull’Ucraina. Gli Stati Uniti annunciano l’invio di nuovi pacchetti
di armi a Kiev: Biden si è impegnato a fornire a Zelensky anche «sistemi
avanzati di difesa aerea». Lo riferisce la Casa Bianca in una nota
sulla telefonata. Biden «ha anche sottolineato il suo continuo impegno
con alleati e partner per continuare a imporre costi alla Russia,
ritenendo la Russia responsabile dei suoi crimini di guerra e e delle
sue atrocità». L’Assemblea Generale dell’Onu, poi, si è espressa a
favore del voto palese sulla risoluzione promossa dall’Ue che condanna
il tentativo della Russia di annettere quattro regioni dell’Ucraina. La
Russia continua a sostenere che la Nato escogiti da tempo «piani per
sconfiggerci o indebolirci e ha scelto l’Ucraina per questo scopo». La
decisione della Bielorussia di unire le proprie truppe con quelle di
Putin viene, a detta dei leader dei due Paesi, da questo timore. Nel
frattempo, il russo più ricco della Silicon Valley, Yuri Milner, ha
dichiarato di aver rinunciato alla cittadinanza russa dopo l’invasione
dell’Ucraina. Lo ha annunciato sul suo account Twitter spiegando che la
procedura è stata completata ad agosto. Il miliardario ha raccontato che
lui e la sua famiglia hanno lasciato la Russia nel 2014 dopo
l’annessione della Crimea. Quando la Russia ha attaccato l’Ucraina
all’inizio di quest’anno, ha condannato «la guerra della Russia contro
l’Ucraina, suo vicino e Paese sovrano».All’indomani dei raid russi su
Kryvyi Rih, restano ancora intrappolati sottoterra 98 minatori in una
delle miniere di carbone della città natale del presidente ucraino
Volodymyr Zelensky. Lo riferisce l’agenzia di stampa ucraina Ukrinform,
secondo cui i minatori sono rimasti intrappolati a causa del blackout
seguito ai bombardamenti. In totale, ieri erano rimasti bloccati 854
lavoratori in quattro miniere.
Gli aggiornamenti ora per ora
08.35 – Raid notturno su Zaporizhzhia, almeno un morto Almeno
una persona è morta a seguito dei nuovi raid russi condotti nella notte
su Zaporizhzhia. Lo ha reso noto il capo dell’amministrazione militare
regionale, Oleksandr Starukh, secondo cui 12 missili S-300 hanno colpito
strutture pubbliche, tra cui una scuola, un dispensario medico e un
rivenditore di auto.
08.32 – Segnalate esplosioni nella regioni Odessa e Vinnitsa Dopo
che è risuonato l’allarme aereo in tutta l’Ucraina, la stampa ucraina
riferisce di esplosioni nella regione di Odessa e Vinnitsa. «Sono state
segnalate esplosioni nella regione di Odessa, Ci sono notizie di
esplosioni a Vinnitsa», si legge nel canale Telegram di Unian.
Missile contro missile, gli ucraini usano un razzo terra-aria per annientarne uno russo diretto verso un bersaglio
08.23 – Kazakistan valuta ritiro diplomatici da Kiev Il
ministero degli Esteri kazako sta valutando di evacuare completamente
il personale dell’ambasciata in Ucraina. Lo ha dichiarato Aibek
Smadiyarov, rappresentante ufficiale del ministero degli Esteri del
Kazakistan, come riporta Interfax. «La questione non riguarda la
chiusura dell’ambasciata ma l’evacuazione dei nostri dipendenti», ha
spiegato. «Questo problema sarà risolto nei prossimi giorni.
L’evacuazione sarà molto probabilmente completa», ha detto Smadiyarov.
08.15 – Suonano le sirene. Kiev avverte, “Rischio attacchi” Sono
risuonate di nuovo le sirene in Ucraina, stamane: lo riferiscono i
media ucraini. Intanto i servizi di emergenza hanno inviato messaggi di
allerta a tutti i telefoni cellulari del Paese avvertendo che potrebbero
verificarsi attacchi nel corso della giornata. Ventiquattro ore dopo
che la prima pioggia di missili russi, che ha colpito anche Kiev,
l’allarme raid aereo è stato attivato per tutta l’Ucraina, tranne che
per la Crimea che è occupata dai russi.
08.00 – Kiev: salgono a 19 le vittime dei raid russi di ieri in Ucraina. Servizio di emergenza: i feriti sono 105 È salito
ad almeno 19 morti e 105 feriti il bilancio degli attacchi missilistici
sferrati ieri dalle forze russe sul territorio dell’Ucraina: lo ha reso
noto il Servizio di emergenza statale del Paese, secondo quanto riporta
il Kyiv Independent.
L’Italia affronterà da sola l’inverno più duro della sua
storia recente. Il contesto geopolitico in cui ci siamo finora
accomodati è in via di accelerata implosione e riconfigurazione.
Immaginare in questa fase, di cui non si vede la fine, grandiosi slanci
di solidarietà o anche solo di progettazione europea e occidentale
significa vivere fuori del tempo. Come se il biennio del virus e della
guerra non fosse mai stato, come non fosse ancora in corso, con esiti
imprevedibili su entrambi i fronti. Un biennio che sta cambiando il
nostro modo di vivere e di pensare. All’insegna dell’incertezza.
Consideriamo solo fra i principali mutamenti strategici in corso
quelli che impattano specificamente sul nostro Paese. La guerra
d’Ucraina ci ha sconnessi dal fornitore energetico principale, la
Russia, in modalità forse definitiva. Stiamo cercando e in parte
trovando alcune alternative immediate, tra cui spicca l’algerina, o
prospettiche, come il ricorso al mercato del gas naturale liquido –
utopie sul nucleare a parte. Scelta non solo energetica, ma geopolitica:
si tratta di sostituire la Russia con il Mediterraneo e con l’America.
Poiché il nostro principale partner economico e industriale, la
Germania, soffre di una crisi strutturale financo superiore alla nostra
ed è in modalità strettamente nazionalistica tanto da curarsi sempre
meno di vestire di gialloblù le sue direttrici strategiche, ne consegue
che parte delle sofferenze tedesche saranno rovesciate su di noi. Vale
soprattutto per la nostra industria del Nord, che vive
dell’interdipendenza con i produttori tedeschi.
Nel nuovo contesto la potenza dei singoli attori è nuda. Determinata
anzitutto dai rapporti di forza in campo economico – a cominciare dalla
disponibilità o meno di margini fiscali per politiche di sostegno – e
militare. Il nostro debito colossale, che avevamo messo tra parentesi in
regime di grandiosi aiuti europei ovvero tedeschi (Pnrr), pesa ormai
come un macigno e limita i nostri margini di negoziazione nell’Eurozona.
Ulteriormente ridotti dall’avvento di un ministero guidato da una
personalità che, a sentire alcuni «partner» europei, vorrebbe revocare i
diritti civili e incrinare le basi della nostra democrazia. Tanto da
dubitare che l’Italia disponga ancora dell’arma di ricatto che
consiste(va?) nel suo rango sistemico in qualità di Paese «troppo grande
per fallire». Siamo molto più esposti alle tendenze dei mercati e ai
giudizi delle agenzie di rating.
Quanto alla potenza militare, a differenza di quasi tutti i Paesi del
mondo non stiamo riarmando né attrezzandoci culturalmente alla guerra
cui partecipiamo non troppo indirettamente, svolgendo funzioni rilevanti
in ambito Nato, specie sul fronte mediterraneo. Nel frattempo, la
Germania ha stabilito che nei prossimi anni sarà la prima potenza
militare europea – parola di Scholz. Basterebbe solo questo a rendere il
cambio di stagione. Non fosse sufficiente, ricordiamo che la Polonia
sta dotandosi di armamenti di punta grazie alla decisione americana di
farne la lancia atlantica nel rovesciamento dell’impero russo. E
l’Ucraina è oggi forse la seconda potenza militare convenzionale
d’Europa.
Nulla lascia peraltro presagire che la Russia sia disposta alla resa,
ovvero al suicidio, anche se il dialogo più o meno sotterraneo tra
Mosca e Washington apre la prospettiva di un cessate-il-fuoco nei
prossimi mesi. In queste condizioni, la nostra ecosfera politica, sempre
meno influente e ogni giorno più delegittimata, non può permettersi di
parlar d’altro né di incupirsi in teatrini polemici fra partiti o loro
residui.
Claudia Porchietto, responsabile nazionale delle Attività produttive
per Forza Italia, lancia le proposte degli azzurri per contrastare il
caro-bollette e non solo.
Come bisognerebbe intervenire sul caro bollette?
«Che
ci sia in atto una forte azione speculativa è molto chiaro e credo sia
il momento di intervenire sulla metodologia di determinazione del
famigerato Pun, prezzo unico nazionale, vale a dire il prezzo
all’ingrosso dell’energia elettrica, che viene acquistata sulla borsa
elettrica italiana. Un metodo che permette delle marginalità molto alte,
che alimentano la speculazione già in partenza ed impattano sul prezzo
finale. È necessario che il nuovo governo si sieda al tavolo con le
rappresentanze dei produttori di energia sia da fonti rinnovabili sia
tradizionali, perché l’impatto delle rinnovabili che dovrebbe
contribuire ad abbassare i prezzi, in realtà, con questi metodi di
definizione del Pun, viene neutralizzato e noi continuiamo a pagare
troppo cara l’energia».
Dobbiamo davvero preoccuparci per il fabbisogno energetico invernale?
«Credo
che il ministro Cingolani abbia fatto un buon lavoro sugli
approvvigionamenti per questo inverno e probabilmente riusciremo a
reggere l’onda d’urto ma siamo tutti consapevoli che non torneremo
sicuramente ai costi energetici di soli 12 mesi fa. Il processo di
costruzione di rigassificatori e gli stoccaggi saranno gli asset
fondamentali per l’Italia. Il nuovo governo dovrà dare il via immediato
alle autorizzazioni per i nuovi impianti, senza se e senza ma. Anche con
commissari ad hoc nel caso ci siano problemi sui territori. Un piano
straordinario per l’energia deve essere varato entro il primo mese di
governo».