Ore di fibrillazione in parlamento per l’inizio ufficiale della
legislatura. Dopo una notte di trattative il centrodestra deve
necessariamente trovare la quadra sui presidenti di Camera e Senato. Sul
nome di Ignazio La Russa c’è un accordo? “C’è una maggioranza”, ha
risposto l’esponente di Fratelli d’Italia Francesco Lollobrigida ai
cronisti, all’ingresso di Montecitorio. “Sembra molto stanco, avrà
dormito un’ora” dice l’inviato di Agorà, il programma di Rai3, che ha
avuto conferme che negli uffici della Camera questa mattina c’è anche
Silvio Berlusconi. Il Cav è a Montecitorio prima di recarsi poi a
palazzo Madama dove cominceranno le votazioni sulla presidenza del
Senato. Il leader di FI incontrerà di nuovo la presidente di Fdi Giorgia
Meloni, arrivata poco dopo a Montecitorio. “Pare che le cose procedano
bene” l’unica frase strappata alla premier in pectore.
In un pomeriggio di un giorno qualunque, ecco quattro buoni motivi
per avere i brividi al solo pensiero di essere il prossimo ministro
dell’Economia. Nella sola giornata di ieri, scorrendo il web o i
notiziari pomeridiani, si apprendeva, nell’ordine: 1) che per l’agenzia
di rating Standard & Poor’s nel 2023 l’Italia può andare incontro a
un calo del Pil dell’1,5%; 2) che il presidente della Bce, Christine
Lagarde, ha iniziato a discutere il ritiro del piano di acquisto dei
Btp; 3) che a Genova la città era bloccata dalla protesta dei lavoratori
di Ansaldo Energia, società a controllo pubblico in piena crisi; 4) che
il cda di Ita, la nuova Alitalia, aveva revocato le deleghe operative
al suo stesso presidente, Alfredo Altavilla. Ecco perché Giorgia Meloni
fa così fatica a trovare un entusiasta all’idea di traslocare in via XX
settembre.
La poltrona più pesante nel governo del Paese è anche la più bollente. E quelli che abbiamo elencato sono solo i temi che ricorrevano ieri. A questi bisogna aggiungere: da un lato il quadro macroeconomico più nero degli ultimi anni, con inflazione e tassi verso le due cifre; dall’altro l’impegno elettorale sul calo della pressione fiscale, elemento ormai identitario della coalizione di centro destra che ha stravinto le elezioni politiche.
Mentre a livello micro, oltre alle grane di cui sopra su Ita e
Ansaldo Energia, il Mef si deve smazzare il dossier dell’aumento di
capitale del Monte dei Paschi, che dovrà essere seguito dalla cessione
della banca, quello del futuro dell’Ilva, partecipata tramite Invitalia,
e le diverse partite aperte in casa Cdp, la Cassa Depositi e Prestiti,
il polmone economico e finanziario controllato all’80%, che opera anche
attraverso l’utilizzo del risparmio postale. Da Cdp dipendono vari altri
dossier caldi, tra le quali l’intero progetto della rete unica in
fibra, infrastruttura strategica per il Paese, più o meno ferma al palo
da tempo, o le autostrade, recentemente rinazionalizzate dopo il
disastro del Ponte Morandi.
La poltrona che tra i più celebri
occupanti ebbe Quintino Sella sempre tra i più citati, dal secondo
governo Berlusconi del 2001 è diventato un superministero, che riunisce
le Tesoro, Finanze e Bilancio. E rappresenta un riferimento fortissimo
rispetto all’operato di un governo e della sua maggioranza che, ormai da
anni, viene giudicata prima di tutto dai risultati economici. Non è un
caso che, dal 2011 in poi, i ministri politici in quella posizione sono
stati solo due, entrambi del Pd: Giancarlo Padoan (dal 2014 al 2018, con
Renzi prima e Gentiloni poi) e Roberto Gualtieri (2019/21) nel Conte
bis. In ogni caso, nel momento più delicato della crisi del debito del
2011 così come in questo dell’era Draghi, in via XX settembre non
potevano che andare super tecnici quali lo stesso Mario Monti (ad
interim, fino alla nomina di Vittorio Grilli) e dall’anno scorso
l’attuale ministro Daniele Franco.
Il tempo del passaggio di consegne dal governo Draghi al
governo Meloni si avvicina. La cerimonia della campanella sarà consumata
tra poco meno di un paio di settimane, per una istantanea destinata a
fare il giro del mondo, con l’ingresso a Palazzo Chigi della prima
premier donna della storia d’Italia. Non ci sarà però una cesura netta e
un sipario che calerà pigramente su un esecutivo a riposo già da alcuni
giorni e impegnato semplicemente nell’ ordinaria amministrazione.
Tutt’altro. Sì, perché quasi inevitabilmente l’incrocio tra il
calendario istituzionale italiano e quello europeo creerà una situazione
di momentaneo dualismo per la quale c’è già chi ha scomodato l’immagine
dei due Papi e chi ha coniato il neologismo dell’esecutivo «Dragoni».
Il
punto è che il prossimo 20 e 21 ottobre a Bruxelles si riunirà il
Consiglio europeo dedicato al problema della bolletta energetica e al
possibile tetto al prezzo del gas e a rappresentare l’Italia ci sarà
Mario Draghi in una veste operativa piena, con Giorgia Meloni che avrà
ricevuto l’incarico ma sarà ancora in una sorta di terra di mezzo,
impegnata nelle consultazioni. Secondo alcune ricostruzioni il
Quirinale, il presidente del Consiglio uscente e la premier in pectore
avrebbero volutamente calibrato i tempi in modo che fossero Draghi e il
ministro Roberto Cingolani a occuparsi di un dossier delicatissimo per
gli interessi italiani, un dossier che i due, insieme ai loro sherpa,
stanno seguendo ormai da settimane.
In
realtà, al di là di questo possibile accordo che avrebbe ovviamente una
sua logica, non ci sarebbero stati comunque i tempi tecnici per avere
un nuovo esecutivo nel pieno delle sue facoltà entro quella data. Quindi
la prospettiva di avere in contemporanea un presidente del Consiglio
incaricato a Roma impegnato a definire la squadra e un premier uscente
operativo a Bruxelles sarebbe slegata da valutazioni strategiche di
opportunità negoziale.
Il calendario d’altra parte parla chiaro.
Difficilmente Giorgia Meloni, Matteo Salvini e Silvio Berlusconi
varcheranno il portone del Quirinale prima di mercoledì 19. Esaurite le
consultazioni e ricevuto l’incarico il giuramento potrebbe arrivare tra
domenica 23 e lunedì 24 ottobre. A quel punto il governo per diventare
pienamente operativo dovrà poi affrontare nei giorni immediatamente
successivi – il termine massimo è di dieci giorni – il passaggio
dell’illustrazione del programma e del voto di fiducia da parte delle
Camere, anche se già con l’atto del giuramento il governo uscente cessa
dall’esercizio delle proprie funzioni e gli si avvicenda il nuovo
governo.
Non è una stagione come le altre. È vero, ogni governo è nato dopo un travaglio più o meno lungo e doloroso,
ogni confronto tra partiti coalizzati evidenzia le distanze e le
differenti esigenze prima di tramutarsi in un’intesa. La storia di
Palazzo è piena di pagine in cui si racconta di candidati alla
presidenza delle Camere silurati nell’urna e di ministri in pectore
silurati mentre erano sulla strada verso il Colle. Ma questa non è una stagione come le altre.
E non ci sarebbe nemmeno bisogno di sgranare il rosario dei problemi
interni e internazionali per indurre le forze di centrodestra ad
accelerare il passo, dando al Paese l’idea che hanno piena contezza del
momento.
Certo, in virtù della liturgia istituzionale (che non è una perdita di tempo ma un sistema di regole democratiche) serviranno ancora un paio di settimane prima di avere un esecutivo nella pienezza delle sue funzioni.
Ma già oggi, primo giorno della nuova legislatura, si misurerà il senso
di responsabilità di chi è stato chiamato a governare, con l’elezione
dei presidenti del Senato e della Camera. Il
voto segreto sarà indicativo del grado di compattezza dell’alleanza,
una sorta di test dal quale si capirà anche la forza propulsiva del
prossimo gabinetto.
La vigilia ha messo in mostra come il centrodestra fatichi invece a dare ancora di sé una rappresentazione politica unitaria e perseveri nei giochi tattici tra leader che sembrano impegnati a disputare il secondo tempo della sfida elettorale. In realtà il 25 settembre ha stabilito quali sono i rapporti di forza e
dunque tocca a Giorgia Meloni valutare le richieste di Matteo Salvini e
Silvio Berlusconi, esercitando però la leadership che il voto le ha
delegato. Così da presentarsi pronta alla convocazione del presidente
della Repubblica, con una squadra che dia l’idea di un governo delle
competenze capace di agire rapidamente.
A 24 ore dalle sedute inaugurali delle Camere per l’elezione
dei presidenti non c’è ancora un accordo sui candidati. Della lista dei
ministri, neanche a parlarne. È in corso uno scontro senza esclusione di
colpi tra Meloni e i suoi due principali alleati, Salvini e Berlusconi.
Il leader leghista, per evitare il peggio (votazioni a vuoto come per
la corsa al Quirinale e franchi tiratori in libertà) ha invocato un
ennesimo vertice di maggioranza.
Dopo che da sabato a oggi ne sono falliti due, uno nella villa di
Arcore del Cavaliere e un altro in quella romana, dove Meloni, che
pretende che le trattative si svolgano in sedi istituzionali, neppure si
è presentata. Quasi quasi verrebbe da chiedersi: ma come, non avevano
vinto, anzi stravinto le elezioni, grazie al successo della stessa
Meloni, che ha trascinato tutta la coalizione, compreso lo sconfitto
Salvini e il “sempreinpiedi” Berlusconi? E non aveva promesso, ancora
Meloni, già nella notte della vittoria, “responsabilità”? E non si erano
subito impegnati nello stesso senso i suoi alleati? E non avevano
ribadito la regola interna del centrodestra che chi prende un voto in
più va a Palazzo Chigi? E allora cos’è successo per macchiare con questa
prima rissa un risultato elettorale così importante?
È accaduto che fin dal primo momento in cui, al cospetto dei suoi
alleati, Meloni ha tentato seriamente di applicare la regola,
comportandosi come premier in pectore del prossimo governo, gli altri
hanno cominciato a storcere il muso. La leader di Fratelli d’Italia ha
provato a tastare il terreno proponendo, come segno di distensione dopo
una campagna elettorale fatta di minacce e insulti, di assegnare una
delle presidenze dei due rami del Parlamento all’opposizione. E quelli:
«Stai scherzando?». Allora ha chiesto per il suo partito la presidenza
del Senato, com’era già accaduto in passato ai tempi dei governi
Berlusconi. Risposta di Salvini: se tu vai a Palazzo Chigi, le Camere
toccano a noi. Meloni, risentita ha detto chiaro: intendo formare un
governo di alto livello. Voi avanzate le vostre richieste, in termini di
ministeri, io cercherò di accontentarvi, ma dev’essere chiaro che chi
va a fare cosa lo decido io. E quando le competenze non ci sono,
chiamerò dei tecnici.
Apriti cielo: Berlusconi, che in pubblico adopera spesso eufemismi,
ha definito la Meloni «arrogante». Salvini, che fa tutto il conciliante,
anche nel proporre di risedersi attorno a un tavolo ha ripetuto che i
ministri della Lega li sceglierà lui: pacchetto chiuso, da non rispedire
al mittente. E quanto alla presidenza del Senato, Calderoli (Lega) val
bene La Russa (FdI), anche se in queste condizioni è evidente che
nessuno dei due verrebbe eletto.
Un terremoto di magnitudo 4.4 è avvenuto nella zona della Costa Ionica Catanzarese (Catanzaro), ed è stato avvertito intorno all’una di notte. Il terremoto è stato localizzato dalla Sala Sismica Ingv-Roma e ha avuto ipocentro a 36 km di profondità ed epicentro in mare in prossimità di Catanzaro Lido. La scossa, che al momento non avrebbe causato danni o feriti, è stata avvertita dalla popolazione che è scesa in strada. Il sindaco Nicola Fiorita dopo la forte scossa di terremoto con un’ordinanza ha chiuso le scuola confermando, però, che “Non si registrano danni”. Numerose le persone che si sono riversate fuori casa.
Umiliati dalla supremazia della realtà sul romanzo moltitudini di
sceneggiatori hanno immaginato ieri di cambiare vita, forse un
chiringuito a Playa del Carmen. Per un giorno intero la disfatta degli
scrittori di fiction dell’orbe terracqueo ha avuto i volti di Liliana
Segre e Ignazio Benito La Russa, e già qui: Lombroso scansati. Passaggio
di consegne a Palazzo Madama: lei vittima dell’Olocausto nazifascista,
lui collezionista di memorabilia del Duce che non celebra il 25 aprile –
data della Liberazione dal nazifascismo medesimo. (Questo è il momento
in cui il moderno produttore restituirebbe infastidito il copione:
troppa trama, eccesso di simboli. Sfoltire, semplificare). Ma andiamo
avanti. Luogo: Italia. Soggetto: nuova legislatura, storica vittoria del
centrodestra. Scena prima: insediamento delle Camere, elezione dei
presidenti. Si fa prima quello del Senato. Presiede la seduta la
senatrice a vita Segre, classe 1930, testimone e vittima dell’Olocausto,
bambina ad Auschwitz. Novantadue anni, storia del Novecento, sta con
chioma candida e profilo da nibbio sullo scranno più alto: compie
piccoli movimenti elegantissimi, calibrati, consapevoli. È un simbolo
assoluto, l’ultima Marianna d’Italia. Lui, Ignazio Benito, colto da un
primo piano nel momento che segna il riscatto di una vita: ride, non sta
fermo nel banco. Era rimasto dietro lo stipite della porta, affacciato a
vedere la campagna elettorale solo con un occhio per tutto il tempo,
intimato di fare silenzio e tenere giù il braccio («Lo sai anche tu che
ti si alza teso in automatico, porta pazienza») ma ora ecco che Giorgia
Meloni non ha più bisogno di occultare la matrice, ha stravinto e vuole
lui alla seconda carica dello Stato, supplente del Presidente della
Repubblica ex articolo 86 della Costituzione, secondo in carica a
rappresentare il Paese: lui, che proprio nuovissimo nel Salvifico Mondo
dei Nuovi non è. I cineasti da ieri in crisi di identità possono vederlo
per esempio in un Bellocchio del ’72, “Sbatti il mostro in prima
pagina”, mentre fascistissimo conciona a un comizio. Poi è stato anche
ministro, certo. Con Berlusconi, naturalmente: la vita scorre, non è che
restiamo tutti fermi alle origini. Tuttavia, qualcosa financo
nell’arredo domestico di quel che siamo stati e resteremo permane:
busti, gagliardetti, cose così. Ma andiamo su Silvio Berlusconi appena
nominato. Ecco che nel copione magistralmente scritto dalla realtà
compare l’immagine di Mao Tze Tung, ma no: la camera stringe ed è
Berlusconi invece, 86 anni appena compiuti con mongolfiera di compleanno
e lancio di palloncini voluti dalla finta ultima moglie Marta Fascina,
naturalmente eletta in collegio blindato. Anche Berlusconi cercava il
riscatto, per quanto minore rispetto al popolo di Casa Pound e residenze
limitrofe giacché lui, Silvio B., al governo ci è già stato e anche
parecchio. Voleva il riscatto dalle sentenze, dall’onta di essere stato
escluso dagli incarichi pubblici per via di certi inconvenienti
giudiziari che neppure i suoi avvocati nominati ministri erano riusciti a
evitargli. Ma invece, guarda a volte che giri fa la vita, invece ora
gli tocca rinunciare al Senato (quanto lo avrebbe voluto, quanto) per
dare alla sua giovane manutentrice il premio produzione che le spetta.
Dicono, gli informati benissimo, che abbia smesso di reclamare per sé la
Seconda Carica in cambio di un posto di peso, al governo, per Licia
Ronzulli: in gioventù infermiera, poi grande ordinatrice di ingressi
diurni e notturni in Villa, custode di confidenze assai intime, infine
braccio destro e anche sinistro, filtro, centralinista, factotum e alter
ego. Capitolo: il Cavaliere e la Donzella, la storia della letteratura a
sostegno. Qui stacco su Gianni Letta, per più di mezzo secolo l’uomo
più influente del Paese, eminenza azzurrina, che violando la sua
leggendaria riservatezza dice, sguardo in camera: «Non sono arrivato a
87 anni per mettermi in lista d’attesa per parlare con qualche ragazzina
di Arcore». Tutto chiaro, dottor Letta. Grazie.
La conversazione tra i due russi sull’andamento della guerra –
diffusa dagli ucraini e rilanciata nei canali di blogger militari
ucraini dimostratisi fin qui più che affidabili – è una delle
intercettazioni finite all’attenzione dei servizi occidentali. Un russo
parla, e dall’altra parte del telefono risponde un soldato russo sul
fronte di Kherson, nel sud dell’Ucraina, dove l’avanzata delle truppe di
Kyiv è diventata sempre meno contenibile per i russi.
Una telefonata che merita di essere riportata, nel giorno in cui
altri report parlano di “sfondamento” in altri quattro villaggi
dell’area settentrionale dell’oblast di Kherson. «Ho sentito che vi
stanno di nuovo circondando, è vero, fratello?». «Ci stiamo ritirando,
ogni altro giorno ci ritiriamo. Non c’è logistica, non c’è niente.
Gli ucraini ci stanno distruggendo (dice l’equivalente di
“fucking”)». «Per quanti chilometri state arretrando». «Beh, per almeno
quindici altri chilometri che abbiamo dato via ai “tedeschi”», dice il
soldato (non si capisce da questa conversazione a cosa si riferisca con
“tedeschi”. Forse alla convinzione dei russi, fin qui non verificata
indipendentemente, che ci siano anche soldati non ucraini che combattono
assieme all’esercito regolare). «So che siete circondati dalla
direzione del Dnipro». «Sì, è così».
Proprio martedì scorso sir Jeremy Fleming, capo del GCHQ britannico,
l’uomo che presiede a tutte le intercettazioni ambientali, digitali e
telefoniche britanniche, si era concesso una valutazione molto precisa
sullo stato delle truppe russe in Ucraina: «Le forze russe sono esauste.
L’uso di prigionieri per rinforzare, e ora la mobilitazione di decine
di migliaia di soldati di leva inesperti, parlano di una situazione
disperata». Fleming ha anche spiegato che non risultano evidenze signal,
al momento, di manovre nucleari dei russi, e se queste manovre ci
fossero, l’intelligence britannica è convinta che riuscirebbe ad
accorgersene.
Adesso escono da fonte ucraina altre intercettazioni su soldati russi, che sembrano confermare la diagnosi sullo stato disastroso delle truppe russe anche al sud. La conversazione tra russi (diffusa dagli ucraini) prosegue così: «Ma che cos’è, una tattica? Perché fate così, Sanya? Io non capisco cazzo». «L’intera linea del fronte si sta ritirando. Ci stanno spingendo». «Ma in che modo?». «In tutti i modi, artiglieria, aviazione, ci stanno fottendo». «Ma scusa, noi non abbiamo artiglieria, aviazione? non capisco, cazzo». «Abbiamo, ma troppo poco. Non a sufficienza». «A Severodonetsk stanno avanzando, qui dove sei tu stanno avanzando, ma che cazzo succede?». Il soldato russo risponde così: «Chi cazzo lo sa! Sono choccato anch’io. Non stiamo mangiando, non ci stiamo lavando, ci stiamo nascondendo in piante da foresta come dei barboni. Ieri abbiamo cambiato posizione due volte… con queste pale del cazzo… tutto quello che fai è scavare come una talpa».
La leader dell’ultradestra francese: «L’equilibrio europeo si sposta sulle Nazioni. Il mio futuro politico? Potrei ricandidarmi»
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE PARIGI
— La leader del Rassemblement national accoglie il «Corriere della
Sera» nel suo ufficio dell’Assemblea nazionale, a due passi dall’aula
dove guida il gruppo di 89 deputati e l’opposizione a Emmanuel Macron.
Signora Le Pen, considera il successo di Giorgia Meloni nelle elezioni italiane un incoraggiamento per la sua lotta politica? «Sì, perché da molti anni ormai assistiamo al grande ritorno delle
nazioni. Da tempo dico che la divisione destra sinistra non esiste più,
sostituita da quella tra “nazionali”, ovvero coloro che difendono la
nazione, e “mondialisti”, che sperano nella cancellazione delle nazioni a
beneficio di strutture sovranazionali come l’Unione europea o altre. Al
di là del Rassemblement national che ha appena festeggiato i suoi 50
anni ed è una specie di fratello maggiore di questi movimenti, anche se è
più giovane del Msi poi Fratelli d’Italia, questa nuova divisione si è
imposta in tutto il mondo e soprattutto in Europa, in Ungheria, Polonia,
Svezia e anche in Francia, con i nostri 89 deputati, e ora in Italia.
Questo avrà conseguenze sul dibattito politico, e sulla natura e la
direzione delle istituzioni europee».
Negli ultimi mesi
avevamo assistito alla nascita di una sorta di trio
Draghi-Macron-Scholz. Crede che si tornerà al classico asse
franco-tedesco o che il centro di gravità della Ue si sposterà? «Credo che il centro di gravità si sposterà a favore dei Paesi
che difendono l’idea nazionale. Il nostro interesse è difendere le
frontiere, il controllo dell’immigrazione, la sovranità delle nazioni e
quindi in particolare quella energetica, e la tutela dell’ambiente con
la reindustrializzazione. Su questi temi gli equilibri si sposteranno a
mano a mano che si succedono le elezioni in Europa. È un lavoro di lungo
respiro, ma i nostri alleati sono sempre più numerosi».
Qualche giorno fa in Italia ci sono
state reazioni vivaci dopo che la premier Elisabeth Borne e poi la
ministra agli Affari europei Laurent Boone hanno parlato di una Francia
che sarà «attenta al rispetto dei diritti» in Italia, riprendendo una
formula di Ursula von der Leyen. «Reazioni vivaci e a giusto
titolo. Si tratta di un’ingerenza insopportabile nelle nostre democrazie
e contraria alla tradizione francese. Noi ci battiamo non solo per
questa o quella idea, ma anche per la libertà dei popoli di scegliere il
loro avvenire politico. È fondamentale».
Se il governo francese
dell’europeista Macron avrà buone relazioni con il governo italiano
della sovranista Meloni, questo potrà normalizzare definitivamente la
sua proposta politica? «Sì, è possibile, ma le cose sono già cambiate. Oggi, sui sei
vicepresidenti dell’Assemblea nazionale, due sono del Rassemblement
national. Siamo il primo partito di opposizione, e per quanto questo
infastidisca i poteri attuali, è un fatto al quale devono abituarsi.
Quindi la Francia deve lavorare con l’Italia quale che sia la tendenza
politica del suo governo. Perché siamo, forse più di altri, due Paesi
fratelli. In ogni caso, non aspettiamo che il potere politico ci accordi
una qualche legittimità, la traiamo dal popolo con il mio 42% al
secondo turno dell’elezione presidenziale e con gli 89 deputati. Numero
che aumenterebbe di certo se domani Emmanuel Macron dovesse decidere di
sciogliere l’Assemblea nazionale e tornare alle urne».
Sta esprimendo un timore o una speranza? «Piuttosto una speranza. Credo che la minaccia di sciogliere
l’Assemblea sia rivolta da Macron ai Républicains (la destra gollista,
ndr) per indurli a collaborare. Noi non la temiamo».
Pensa di candidarsi alle elezioni del 2027? «Non è una questione personale. Avendo già fatto tre campagne
presidenziali, avevo detto che a priori non ne avrei fatta una quarta,
salvo eventi eccezionali. Che cosa potrebbero essere questi eventi
eccezionali? Il fatto che le circostanze si allineino in modo da essere
io e non qualcun altro, anche nel mio stesso partito, ad avere le
maggiori probabilità di vincere. Se fossi in posizione di vincere, mi
batterei per assolvere al mio dovere. Ma non mi precipito adesso. A
momento debito, vedremo chi è il meglio piazzato per accedere al
potere».
Giorgia Meloni si considera di destra
conservatrice, lei ha appena ricordato di avere superato la divisione
destra sinistra. Adesso che Meloni diventerà presidente del Consiglio,
come evolveranno i vostri rapporti? «Sono cinquanta sfumature di patriottismo… Noi non abbiamo mai
cercato cloni in Europa, ma alleati, persone che condividono la stessa
nostra grande visione. Ci sono due rive, quella dei nazionali e quella
dei mondialisti, e Meloni si trova incontestabilmente sulla stessa
nostra riva».
In Fratelli d’Italia si parla di
«offerta generosissima» a Lega e Forza Italia. Oggi il test del voto in
Aula col timore di «qualche sgambetto»
Raccontano in Fratelli d’Italia che la scelta di sentire e vedere separatamente prima Matteo Salvini e poi Silvio Berlusconi sia stata di Giorgia Meloni.
Ma i due appuntamenti non sono bastati a portare ad un accordo
complessivo e ancora si tratta a oltranza. Nonostante infatti quella che
i suoi definiscono «una offerta generosissima»
fatta dalla leader agli alleati — molti i ministeri offerti, ben più di
quelli che sarebbero loro toccati contando i pesi dei tre partiti, e
perfino una cauta apertura sulla possibilità di nominare due
vicepremier, Salvini e Tajani — l’intesa non si è ancora chiusa. Almeno non ancora sulla squadra del governo: i malumori sono soprattutto in FI, la Lega invece dopo vari colloqui a sera è parsa decisamente soddisfatta
del risultato che porterebbe a casa, nonostante quello che non è
boccone facilissimo da ingoiare per Salvini: la scelta di Giorgetti al
Mef, che non ha proposto ma subìto. Sulle Camere invece l’intesa alla
fine è stata trovata: La Russa a Palazzo Madama e probabilmente Molinari a Montecitorio.
Con un dubbio però: tutti voteranno compatti, permettendo a La Russa di
diventare presidente alla prima chiama? La paura, il sospetto di
qualche sgambetto, in FdI è forte, se è vero che lo stesso Berlusconi ha
avvertito che «in FI e Lega ci sono senatori nervosi…».
Ma nei suoi incontri Meloni è stata tranchant:
«Se non vi vanno bene nemmeno le caselle che vi ho proposto — la
sostanza del suo discorso — allora vuol dire che ce l’avete con me, e
non si può fare un governo insieme…». E
per capire se la strada sia sgombra da massi o no ha posto un aut aut:
votare La Russa dando «una prova di compattezza assoluta», ovvero
senza dispersione di voti. Alla prima chiama, con maggioranza assoluta.
Solo così, ha aggiunto, senza sgambetti per indebolirla, si potranno
mantenere le promesse che ha fatto, altrimenti cambia tutto.
Sia Salvini che Berlusconi
ufficialmente hanno detto sì a La Russa, ma solo oggi si avrà la prova
del nove della fedeltà degli eletti all’ordine di scuderia. Perché la
giornata è stata davvero complicata. Il
leader della Lega con Meloni in mattinata si era dimostrato aperto,
aveva anche accettato il no alla sua persona al Viminale,
suggerendole di andare a parlare con Berlusconi per risolvere i problemi
anche con lui. Ma nel pomeriggio aveva ancora alzato la posta, tornando
a proporre Calderoli al Senato. Solo a sera c’è stato il chiarimento
con la marcia indietro pubblica espressa in una nota e ufficiosamente,
che avrebbe abbastanza tranquillizzato FdI.
Con Berlusconi la situazione è più
difficile. Accompagnata da La Russa, Meloni si è trovata di fronte a
richieste che giudica eccessive: il ministero della Giustizia, sul quale
ha detto «parliamone» pur ribadendo che Nordio è «un ottimo candidato,
farebbe benissimo» e Casellati «può essere anche a capo di un altro
dicastero»; il Mise, che invece non vuole concedere. Gli
Esteri, che lei vuole affidare a Tajani. Ma anche altre caselle e
soprattutto quello che ormai è un vero caso: un posto, anche se non di
primissima fila (Turismo accorpato allo Sport) per Ronzulli. Su
questo Meloni non sente ragioni: come ha detto martedì in un incontro
con la diretta interessata che però non si arrende e ribadito a
Berlusconi, ormai la situazione si è talmente esasperata — pure i social
esplodono all’ipotesi, la polemica è in trending topic da giorni — che
cedere farebbe venire meno la sua credibilità. All’inizio avrebbe pure
potuto concederle un ministero minore, ma ora no, non se ne parla
assolutamente.