Archive for Ottobre, 2022

I mercati e l’ipoteca sul nuovo governo

mercoledì, Ottobre 12th, 2022

Carlo Lottieri

Il messaggio che il Fondo Monetario Internazionale ha fatto pervenire a Roma è chiaro e, sotto vari aspetti, si limita a confermare quanto già si sapeva. Con l’arrivo dell’inverno dovremo egualmente fare i conti con i rigori di crescenti difficoltà economiche. Le bollette ci impoveriranno e non c’è modo di inseguire illusioni demagogiche, immaginando che sia possibile togliere ad alcuni per dare ad altri. Non soltanto per l’Fmi nel 2023 non cresceremo, ma addirittura arretreremo dello 0,2%; e tutto questo in quadro generale che vede in recessione molte altre economie importanti per la nostra, a partire da quella tedesca. In tale drammatica situazione Giorgia Meloni e il centro-destra si ritrovano tra le mani una vittoria elettorale dimezzata, che non lascia loro molti margini di manovra.

Non soltanto non potranno elargire redditi, aiuti e bonus (e questo è un bene), ma potrebbero pure avere difficoltà a ridurre la pressione fiscale nel suo insieme, dato che per loro sarà molto arduo comprimere le uscite e in questo quadro generale è inimmaginabile pensare di dilatare ulteriormente il deficit. La recessione porterà, al tempo stesso, meno entrate fiscali e crescenti domande d’intervento pubblico da parte di disoccupati e di imprese a rischio chiusura. Riuscire a restare a galla non sarà facile, specie se si considera che la situazione politica è complicato e che chi governa deve fare i conti con scadenze elettorali a ripetizione. Se da un lato il prossimo ministro dell’Economia si troverà nell’impossibilità oggettiva di replicare le scelte populiste dei governi egemonizzati dal Pd, al tempo stesso crescerà la dipendenza dall’Europa e soprattutto dalla Banca centrale. Nel momento in cui i conti pubblici e privati sono tanto a rischio, anche a causa del debito pubblico e di quello previdenziale, bisognerà sperare che a Francoforte i banchieri centrali non usino le loro prerogative per inguaiarci ancora di più. Da parte sua, l’esecutivo dovrà fare di necessità virtù, riducendo al massimo i vincoli normativi (abrogare norme, in fondo, non costa nulla) e operando la più ampia liberalizzazione possibile, così da stimolare creatività, investimenti, concorrenza, nuove iniziative. C’è una lista lunghissima di riforme possibili, tali da aprire i mercati, ma è ovvio che nulla è facile, perché ogni restituzione di diritti al comune cittadino implica una sottrazione di privilegi a gruppi assai determinati a difendere lo status quo.

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L’ultimo “regalo avvelenato” di Fico: il Parlamento non può entrare in funzione

mercoledì, Ottobre 12th, 2022

Pasquale Napolitano

La XIX legislatura è pronta a decollare ufficialmente. Le Camere riaprono dopo la cura dimagrante. I deputati a Montecitorio passano da 615 a 400, al Senato gli eletti scendono da 315 a 200. Un taglio che inciderà sul funzionamento delle due assemblee elettive. I regolamenti di Camera e Senato devono essere adeguati ai nuovi numeri per garantire la piena operatività del Parlamento. Il grillino Roberto Fico, presidente uscente della Camera, prepara le valigie. Ma prima di cedere lo scranno lascia al successore l’ultimo regalino: una Camera azzoppata senza i nuovi regolamenti.

Al Senato, invece, il nuovo regolamento che disciplina i lavori d’Aula è stato varato al fotofinish. Non è un dettaglio tecnico: la mancata approvazione dei regolamenti rischia di mandare in panne l’attività parlamentare. A Palazzo Madama le commissioni permanenti sono passate dalle precedenti 14 alle attuali 10, grazie ad un accorpamento delle competenze di alcune: la Esteri con la Difesa, la Ambiente con la Lavori Pubblici, la Industria con la Agricoltura, la Lavoro con la Sanità. I gruppi medio-piccoli avranno uno o due senatori in ciascuna commissione con competenze molto ampie. Per consentire ai senatori di prendere parte alle sedute delle Commissioni e garantire il numero legale è stata introdotto l’obbligo che le Commissioni si riuniscano in parallelo rispetto alle sedute d’Aula e la necessità di costruire un calendario condiviso che permetta di partecipare anche ai senatori che fanno parte di più commissioni.

Alla Camera dei deputati, al contrario, il numero delle Commissioni permanenti rimane invariato: 14. La riduzione del numero dei parlamentari impedirà ai partiti più piccoli di avere una presenza in tutte le Commissioni. Una variabile che metterebbe a rischio numero legale e quorum. Si rischia l’ingorgo in avvio della legislatura. Un’altra modifica dovrebbe riguardare le Commissioni bicamerali, ossia le Commissioni composte da senatori e deputati. Sono commissioni di garanzia importanti come il Copasir, la Vigilanza Rai e l’Antimafia. Non avendone modificato il numero dei componenti, dovranno evitare convocazioni in concomitanza con le sedute delle commissioni permanenti, di Camera e Senato.

Altro nodo da sciogliere è il numero minimo di deputati e senatori richiesto per costituire un gruppo parlamentare. Al Senato il regolamento è stato adeguato al taglio: prima erano necessari 10 senatori, oggi ne bastano 7. Il Terzo Polo con 9 senatori riuscirà a costituire il gruppo, se non fosse stato modificato il criterio non avrebbe avuto alcuna possibilità. La lista Sinistra italiana-Europa verde con 4 senatori non potrà costituire un gruppo e confluirà nel Misto. La nascita di un gruppo attribuisce la possibilità di prendere parte alla conferenza dei capigruppo, che decide i lavori d’Aula, oltre ai fondi per staff e personale.

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Gas, Cingolani rassicura: “Abbiamo messo in sicurezza il Paese, sarà un inverno tranquillo, ma avremo problemi sui prezzi. Piombino è centrale”. Gentiloni avverte: “Ue a rischio recessione”

mercoledì, Ottobre 12th, 2022

In una fredda mattinata d’autunno il Ministro della Transizione ecologica, Roberto Cingolani, partecipa ai «Green Talks» di Rcs Academy e parla dell’inverno che attende l’Italia, stretta tra la guerra e la crisi energetica derivante e che ha messo sotto pressione il Mite dallo scorso febbraio. L’obbiettivo di completare il 90% degli stoccaggi è stato raggiunto ormai due settimane fa, riuscendo nell’obiettivo di svincolarsi dalla dipendenza russa, ridotta al 10%, e salvaguardando le case degli italiani nei prossimi mesi: «Dovremmo essere in grado di fare una stagione invernale tranquilla. Gli stoccaggi hanno superato il 90%, avremo problemi sui prezzi, ma se il 20 si conclude bene sul price cap, avremo risolto la situazione. Purtroppo non toglieremo la sofferenza a famiglie e imprese». A confermare le dichiarazioni di Cingolani, ci pensa anche il presidente di Eni, Andrea De Scalzi, che traccia il resoconto sulle nuove forniture italiani dopo l’indipendenza da quelle russe: «Il gas algerino vale adesso il 35% delle importazioni – ha detto – e salirà al 38% l’anno prossimo, rispetto al 12% originario. Questo vuol dire che contribuisce quasi come il gas russo in precedenza, nel 2023 l’Algeria arriverà a 27 miliardi di metri cubi e prima la Russia arrivava a 29 miliardi. E’ essenziale che l’Algeria continui così, noi andiamo là ogni dieci giorni per verificare che tutto vada bene, oggi abbiamo messo in produzione altri due campi». 

L’attuale ministro ha parlato anche della nave rigassificatrice di Piombino, una questione che è stata tratta con asprezza dal dibattito politico e che è stata tra le cause della caduta del governo di cui faceva parte, presieduto da Mario Draghi: «Fondamentale che i rigassificatori vengano messi in funzione il prima possibile perché ne va della sicurezza nazionale. E’ urgentissimo che dall’inizio dell’anno prossimo ci sia almeno il primo rigassificatore, quello di Piombino, ed entro inizio 2024 il secondo. Oggi abbiamo dimezzato la nostra dipendenza dal gas russo. L’indipendenza totale è prevista nella seconda metà 2024, sostanzialmente quando saranno piazzati i due nuovi rigassificatori». Ma sulle tempistiche i tempi sono incerti anche per lui: «Sicurezze non ne ho, è un’eredità che lascio e spero che tutti si rendano conto che la sicurezza energetica nazionale dipende da quello. Se abbiamo il Gnl e abbiamo la nave, e non saremo in grado di utilizzarlo sarà un vero e proprio suicidio; qualcuno dovrà prendersi la responsabilità». La data del 2024, quella tracciata da Cingolani per l’indipendenza dal gas del Cremlino non è casuale, in quanto già nelle scorse settimane, il tenutario del Mite aveva detto che non sarebbe stato questo l’inverno più complicato, ma bensì il prossimo (2023-24). Fondamentale, quindi, la costruzione delle navi. 

Un pensiero anche per la sua avventura politica che definisce complessa perché «a parte l’invasione degli alieni ci sono state tutte le emergenze possibili, ma il Pnrr non si è mai fermato». A chi gli chiede, invece, se continuerà a fare politica la risposta è netta: «C’è un tempo per i tecnici e uno in cui il Parlamento si deve riappropriare delle proprie prerogative e fare delle scelte politiche. E il mio tempo da questo punto di vista è finito». 

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“Soldati russi esausti, i missili stanno per finire, i costi per Mosca sono sbalorditivi”. Ma non ci sono intercettazioni su manovre nucleari. Il discorso del capo della cyber intelligence UK

mercoledì, Ottobre 12th, 2022

Jacopo Iacoboni

La Russia sta esaurendo le armi per la sua guerra in Ucraina e i costi per il Cremlino sono «sbalorditivi», sia per quanto riguarda i soldati persi sia per gli equipaggiamenti persi. è quanto riferisce in un (raro) discorso pubblico uno dei capi delle spie britanniche, Sir Jeremy Fleming, direttore del GCHQ, l’equivalente della Nsa americana, l’agenzia che guida lo spionaggio cibernetico e la signal intelligence.

Il direttore del GCHQ – in un discorso al think tank Rusi martedì 11 ottobre – sostiene diverse cose che meritano essere raccontate a analizzate. Innanzitutto, le forze armate ucraine stanno «ribaltando la situazione», una valutazione che riguarda sia il campo di battaglia fisico sia il cyberspazio. Il processo decisionale di Putin viene definito «imperfetto». A detta di sir Fleming, «le conquiste territoriali della Russia sono state annullate», mentre «i costi, in termini di persone ed equipaggiamento, sono impressionanti. Sappiamo – e lo sanno anche i comandanti russi sul campo – che i loro rifornimenti e le loro munizioni si stanno esaurendo».

Chi è il generale Armageddon schierato da Putin in Ucraina e la sua tattica da carnefice

L’uomo che presiede a tutte le intercettazioni ambientali, digitali e telefoniche britanniche si spinge a una serie di valutazione di notevole rilevanza: «Le forze russe sono esauste. L’uso di prigionieri per rinforzare, e ora la mobilitazione di decine di migliaia di soldati di leva inesperti, parlano di una situazione disperata». E ancora: «Anche la popolazione russa ha iniziato a capirlo. Stanno vedendo quanto Putin abbia sbagliato a valutare la situazione. Stanno fuggendo dalla leva, rendendosi conto di non poter più viaggiare. Sanno che il loro accesso alle tecnologie moderne e alle influenze esterne sarà drasticamente limitato. E stanno percependo l’entità del terribile costo umano della sua guerra di scelta».

Ucraina, Petraeus: “In caso di uso nucleare da parte russa gli Stati Uniti potrebbero intervenire”

Un elemento assai importante è che il GCHQ non vede segnali di preparativi della Russia all’uso di un’arma nucleare. Fleming non esclude nulla, naturalmente, ma la signal intelligence non ha fatto emergere indicazioni preoccupanti su questo, e il Regno Unito è convinto che, se qualcosa accadesse, le spie se ne accorgerebbero: la Gran Bretagna si aspetterebbe di vedere degli indicatori se la Russia stesse iniziando a prendere in considerazione l’impiego del suo arsenale nucleare nella guerra con l’Ucraina. Fleming ha anche sottolineato che qualsiasi discorso sull’uso di tali armi è altamente pericoloso. «Spero che vedremo degli indicatori se inizieranno a percorrere questa strada», ha riferito. «Ma siamo davvero chiari su questo punto: se stanno prendendo in considerazione questa possibilità, sarebbe una catastrofe come quella di cui molti hanno parlato».

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Giorgetti, il nodo del Tesoro

mercoledì, Ottobre 12th, 2022

Ilario Lombardo e Luca Monticelli

ROMA. Giancarlo Giorgetti ha raccontato spesso agli amici della Lega che quando nel 2018 gli capitò di ricevere l’offerta di sedere da ministro dell’Economia nel governo gialloverde, fu preso talmente tanto dai tormenti che andò a chiedere alla madre cosa ne pensasse. Fu lei, con tutto l’intuito che può avere una madre, a dirgli di lasciar perdere. Erano i giorni della grande paura: l’Europa si interrogava su dove avrebbe portato la presa del palazzo dei populisti in Italia. A Matteo Salvini e Luigi Di Maio, che cercavano disperatamente un candidato al Tesoro per il governo Lega-M5S, dopo la bocciatura di Paolo Savona da parte del Quirinale, il leghista spiegò di non avere le competenze necessarie per sedersi alla scrivania di Quintino Sella. E oggi? Con alle spalle un’esperienza da ministro dello Sviluppo economico nel governo di Mario Draghi quelle competenze le ha acquisite? Giorgetti, sorseggiando un caffè di prima mattina alla buvette, risponde sorridendo: «Ho imparato a fare il ministro dello Sviluppo economico…». Insomma, il vicesegretario leghista sembrerebbe sfilarsi ancora una volta dalla corsa al dicastero dell’Economia: «Per stare al Tesoro – dice – ci vuole uno standing internazionale». Una frase che, arricchita dalle chiose di chi lo conosce bene, non chiude completamente la porta a questa possibilità.

Ci credono poco, i leghisti che Giorgetti lo frequentano da anni. Dicono che se non lo ha fatto quattro anni fa, quando il mare dell’Economia globale era più tranquillo, perché farlo ora che si sta andando incontro a una tempesta, con la recessione che sembra ormai certa? La prima risposta è quella più banale, ma è anche quella che ti dà chiunque nel centrodestra: perché Giorgia Meloni non riesce a trovare nessun altro.

E allora Giorgetti sarebbe «la mossa della disperazione», come da Forza Italia e dalla Lega dicono, senza troppo nascondere la soddisfazione di vedere la leader di Fratelli D’Italia in difficoltà. Il no di Fabio Panetta, membro del board Bce, candidato alla carica di governatore di Bankitalia, e il no del ministro uscente Daniele Franco, che ieri Meloni ha visto assieme ai responsabili economici del partito – anche lui in gara per lo stesso posto a Via Nazionale –, tengono di fatto bloccato l’intero cantiere del governo.

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La Russia: “Putin disposto a incontrare Biden”. Ma è giallo sulla mediazione di Musk

mercoledì, Ottobre 12th, 2022

Anna Zafesova

Riconoscere i territori ucraini invasi da Mosca come russi, lasciare alla Russia la Crimea e il Donbass e trasoformare l’Ucraina in un Paese neutrale: queste sono le condizioni della “pace” che Vladimir Putin vorrebbe proporre al mondo. Secondo il politologo americano Ian Bremmer, il presidente russo avrebbe esposto le sue richieste a Elon Musk, promettendo anche il ricorso alla bomba atomica nel caso l’Ucraina decidesse di riprendersi la Crimea con strumenti militari. Il magnate di Space X ha subito smentito di aver negoziato con il capo del Cremlino prima di aver lanciato, qualche giorno fa, i suoi controversi tweet che proponevano di cedere a Putin territori ucraini, e la Casa Bianca ha subito ricordato che in ogni caso Musk «non rappresenta il governo degli Stati Uniti». Nonostante la smentita, l’offerta che Putin avrebbe fatto a Musk corrisponde più o meno al contenuto dei messaggi inviati da Mosca in altre direzioni: il Cremlino sta cercando un negoziato, ma pone come condizioni imprescindibili di uscirne con nuove annessioni territoriali.

La Bielorussia di Lukashenko in guerra con Putin: i possibili risvolti di un’alleanza contro l’Ucraina

Politologi ed esperti vicini al governo russo stanno scommettendo sul summit del G20 che si terrà tra un mese in Indonesia, e ieri il ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov non ha escluso che potrebbe essere l’occasione di un possibile incontro tra Joe Biden e Vladimir Putin: «Se ci arriva la richiesta di un vertice, la prenderemo in esame». Non esattamente le parole giuste per descrivere un’apertura diplomatica, ma intanto un altro personaggio che parla spesso a nome della Russia, il premier ungherese Viktor Orban, auspica «un accordo tra americani e russi», riproponendo la vecchia idea di Mosca che l’Ucraina sia soltanto una “marionetta di Washington”, invadendo la quale Putin avrebbe lanciato una sfida alla leadership statunitense. I segnali sono molteplici, e il primo a lanciare una offerta di negoziato è stato lo stesso presidente russo, alla cerimonia della “annessione” delle regioni di Kherson, Donetsk, Luhansk e Zapirizzhia, dieci giorni fa: si è dichiarato pronto a discutere, a condizione che i territori occupati dalla Russia rimangano “fuori dalla trattativa”. Che il Cremlino vorrebbe mandare avanti con l’aiuto di Recep Tayyip Erdogan, con il quale Putin si incontrerà nelle prossime ore al vertice asiatico ad Astana. Il presidente turco ha parlato di “scogli e trappole” sulla strada del cessate il fuoco, e ieri una telefonata tra i ministri della Difesa di Mosca e di Ankara ha confermato che una trattativa è in corso.

Nonostante il suo esercito stia perdendo terreno, Putin vuole fissare delle conquiste territoriali che gli permettano di presentare una guerra fallimentare come una vittoria. Il nuovo comandante delle operazioni russe Sergey Surovikin – al quale Putin ieri ha fatto personalmente gli auguri di compleanno – ha intensificato gli attacchi dall’aria anche per mancanza di risorse sulla terra. Il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg ha dichiarato che la Russia usa gli attacchi dall’aria come “segno di debolezza” dopo aver subito batoste in terra, facendo infuriare Dmitry Medvedev che gli ha dato del «parvenue con cervello rammollito». Dal vocabolario dell’ex presidente russo però sono sparite ieri le minaccie nucleari: forse un altro segno di “distensione”, dopo che Stoltenberg ha riconosciuto che non ci sono segni dei preparativi russi a un attacco, promettendo comunque esercitazioni della Nato di “deterrenza atomica”.

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Garofoli: «Ora l’Italia è più pronta a reagire. Per governare serve un metodo»

mercoledì, Ottobre 12th, 2022

di Monica Guerzoni

Il sottosegretario alla presidenza del Consiglio è l’uomo del Pnrr che rassicura: «Siamo nei tempi, sono in corso centinaia di gare pubbliche»

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Magistrato, presidente di sezione del Consiglio di Stato e attento custode del suo profilo istituzionale, il sottosegretario alla presidenza Roberto Garofoli è il regista dei Consigli dei ministri, l’uomo del Pnrr e il coordinatore di quella «transizione ordinata» che Draghi ha raccomandato alla sua squadra.

Con Draghi in Cdm avete brindato alla fine del mandato. Bilancio?
«In questi 19 mesi il Paese ha dovuto fronteggiare emergenze severe e impostare il lavoro inedito del Pnrr, vitale per attenuare i divari e le disuguaglianze, nonché per rilanciare il sistema sociale, educativo, economico».

Che Italia avete trovato quando è caduto Conte?
«A febbraio 2021, quando il governo Draghi si è insediato, la crisi pandemica era ancora terribilmente grave, molte filiere produttive ferme, la campagna vaccinale da organizzare. Le forze politiche, il Parlamento, tutti i livelli istituzionali sono stati concentrati sui gravi problemi di cittadini e imprese. Poi, quando l’Italia era sul sentiero della piena ripresa, è arrivata la guerra. L’unità nazionale è stata un indubbio fattore di vantaggio».

Quale eredità lasciate all’esecutivo che verrà?
«Con le crisi e le emergenze il Paese deve esser pronto a fare i conti. Come scrisse con parole profetiche Ulrich Beck all’indomani della tragedia di Chernobyl, le società occidentali sono sempre più “società del rischio”. Il deterioramento dello scenario geopolitico e la dimensione dei problemi impongono politiche e azioni comuni, come è stato con la risposta europea alla crisi pandemica. Occorre innalzare la capacità nazionale di dare risposte tempestive ed efficaci ed è indispensabile avere un metodo di governo e strutture istituzionali adeguate».

Il metodo Draghi sarà replicabile da parte di un governo politico presieduto da Giorgia Meloni?
«Il Pnrr ha imposto un cambio di approccio, pretendendo che l’azione pubblica sia improntata a logica di risultato e prontezza operativa. L’una e l’altra sono e saranno necessari in futuro, nel perseguire gli obiettivi del Pnrr, nel controbilanciare gli effetti dell’inflazione, nell’affrontare un contesto economico in deterioramento».

Meloni pensa che sul Pnrr si possa fare meglio…
«La Commissione Ue ha riconosciuto che il Paese è in linea con i tempi. Il Piano prevede che le aggiudicazioni con la conseguente messa a terra intervengano nel 2023. Sono in corso centinaia di gare pubbliche».

C’è il rischio che si sprechino i miliardi del Pnrr?
«Occorre proseguire nel coordinare e monitorare tutto questo. Sono state già approntate importanti misure di supporto tecnico-operativo in favore degli enti territoriali. D’accordo con l’Anci, è stato sperimentato un modello che consente ai Comuni di richiedere a grandi stazioni appaltanti dello Stato di progettare e appaltare per loro. Si sta replicando questo modello per altre linee progettuali».

La macchina dello Stato sarà in grado di attuare le riforme imposte dal Piano di aiuti Ue?
«Nel lavoro di contrasto alla pandemia e poi nel Pnrr si è compreso quanto sia necessario irrobustire alcuni pezzi dell’apparato pubblico, fiaccati da anni di spending e di deboli politiche dedicate. Per il Paese è fondamentale innalzare l’adeguatezza del sistema istituzionale, amministrativo e giudiziario».

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Governo, la battaglia sul ministero del’Economia: l’idea Giorgetti non basta per l’intesa con la Lega

mercoledì, Ottobre 12th, 2022

di Marco Cremonesi

Accordo lontano con Meloni, Salvini non rinuncia a Senato o al ministero dell’Interno

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La novità arriva con una nota, pochi minuti dopo mezzogiorno: «Per la Lega sarebbe motivo di grande soddisfazione e orgoglio occuparsi con un ruolo rilevante anche di Economia e Finanze». È il segno che per il Mef, il cruciale ministero all’Economia e alle Finanze, tutto è ancora in alto mare. E lo stesso vale per la guida delle Camere: a 72 ore dall’insediamento del nuovo Parlamento — e dall’elezione dei due presidenti — nulla è ancora sicuro.

La nota leghista è un segno di discontinuità rispetto alle ultime settimane: mai, dopo le elezioni, c’era stata una rivendicazione leghista per i ministeri economici, men che meno per il Mef. A chi chiedeva il perché, la risposta era sempre una variazione su questo tenore: «Con i chiari di luna in arrivo, meglio tenersi a distanza». E invece, ieri, la novità: «È un onore — si legge nel comunicato — che in queste ore arrivino nuovi e significativi riconoscimenti che testimoniano la centralità e l’affidabilità della Lega». Così, la nota ufficiale. Il fatto è che negli ultimi giorni sul ministero all’Economia circolava un ragionamento: se i super tecnici sondati da Giorgia Meloni preferissero non cambiare mestiere e non salire sul ring di un incarico governativo, un candidato plausibile sarebbe Giancarlo Giorgetti . Ieri, la proposta è arrivata da Ignazio La Russa: «Anche il generale delle forze armate potrebbe fare. Giorgetti potrebbe fare tutto, è un mio amico».

La designazione chiuderebbe la questione di assegnare un ministero di peso alla Lega e Giorgia Meloni — che ieri ha anche visto il ministro uscente Daniele Franco — avrebbe un interlocutore assolutamente credibile ai tavoli economici che contano. Unico problema: probabilmente Salvini pensava — e pensa — ad architetture di governo del tutto diverse. E così, dalla Lega, al di là della nota ufficiale, filtra gran freddezza: «Il Mef non è né una nostra richiesta né un nostro desiderio — dice un leghista d’alta fascia —. Se non hanno altri nomi, prego. Ma fuori quota: dovrebbe essere in più rispetto a quello che ci spetterebbe». Anche perché «non vogliamo finire come con Draghi, dove le scelte erano del premier ma poi le pagavamo noi».

Nella Lega, peraltro, mettono la partita governativa in questi termini: «O Viminale o Palazzo Madama. O ministero dell’Interno o presidenza del Senato». I salviniani non hanno alcuna intenzione di rinunciare a entrambe le cariche. Una delle due sarebbe il riconoscimento del ruolo fondante della Lega nell’esecutivo venturo. È vero però che ieri, per quanto riguarda la presidenza del Senato, non si è andati avanti di un metro. Perché i due principali interlocutori al tavolo di ieri mattina — Roberto Calderoli e Ignazio La Russa — sono anche i due candidati. Meglio rinviare il tema al confronto diretto tra i leader, ieri molto caldeggiato da Salvini. Che ieri mattina ha anche visto — a uno a uno — alcune figure centrali del partito: Giorgetti, Lorenzo Fontana, il capogruppo Riccardo Molinari, l’ex ministra Giulia Bongiorno. Quasi un «tenetevi pronti».

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Governo, alleati divisi. Meloni oggi farà una «proposta generosa» a Salvini e Berlusconi

mercoledì, Ottobre 12th, 2022

di Paola Di Caro

Si tratta su Ronzulli e presidenze. FI chiede il Mise con le deleghe sulle tv e la Giustizia

Una giornata frenetica, un tourbillon di incontri, vertici a due (Salvini e Berlusconi), sherpa in continuo contatto, crisi di nervi, rassicurazioni e, alla fine, la situazione resta difficilissima, i nodi per la squadra non sono sciolti — anzi sono sempre più intricati —, i rapporti tra gli alleati sono tesissimi. Tra Silvio Berlusconi e Giorgia Meloni, raccontano, sarebbero addirittura «al minimo storico». Ma la premier in pectore, in serata, sparge ottimismo: «Le cose vanno molto bene. Poi leggo curiose ricostruzioni che saremmo “in ritardo” nella formazione del governo: immagino sappiate che non abbiamo un incarico. State tranquilli, quando lo dovessimo avere, non perderemo un minuto di tempo per fare il governo. Sono molto ottimista». Si sta «lavorando» sulla presidenza delle Camere e «non vedo grossi problemi», aggiunge, annunciando che con Berlusconi e Salvini oggi «penso che ci vedremo».

Si va verso un vertice, quindi, indispensabile per sciogliere il ghiaccio e sbloccare una situazione impantanata. E Meloni oggi, raccontano, farà di tutto per risolvere la situazione: ha in mente una «proposta generosa» verso gli alleati, che dovrebbe venire incontro alle loro richieste: quelle della Lega, con un numero congruo di ministeri almeno in parte richiesti, e per FI: se insistono per avere la Ronzulli, un posto si troverà, ma a scapito di altri possibili ministri. Non Tajani, che la leader di FdI vuole agli Esteri. Lei stessa in serata aveva avvertito: «Coinvolgeremo le persone più adatte: nessuno si illuda che cambieremo idee e obiettivi rispetto a quelli per i quali siamo stati votati. Il nostro sarà il governo più politico di sempre».

Un modo per dire no a diktat degli alleati, ma anche che non ci saranno troppi tecnici nel suo governo. Quello che, evidentemente, ieri non è stato così chiaro o convincente per Berlusconi e Salvini, in un senso o nell’altro. Eppure i tentativi di arrivare a un’intesa sono stati tanti. In mattinata ci hanno provato gli sherpa: in via della Scrofa, La Russa e Lollobrigida, Molinari e Calderoli, Ronzulli e Barachini (e non più Tajani, pur essendo il coordinatore) hanno provato a mettere punti fermi. Ma invano.

FdI vuole la presidenza del Senato, da affidare a La Russa, con Molinari alla Camera, e conta che l’accordo sia a un passo; la Lega — nonostante insista per Calderoli a Palazzo Madama — potrebbe accettare ma conta il peso della seconda carica dello Stato almeno come «due ministeri», ovvero serve una rappresentanza al governo maggiore e più di spicco per loro.

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FdI vola, M5S verso il sorpasso al Pd: il sondaggio che gela i dem

martedì, Ottobre 11th, 2022

Luca Sablone

Ciò che conta è ovviamente il risultato finale delle elezioni politiche di domenica 25 settembre, ma i sondaggi post voto sono molto utili per fotografare come la situazione politica sta cambiando alla luce del responso delle urne. In linea di massima i rapporti di forza tra i partiti iniziano a mostrare un cambiamento di rilievo, con i pesi delle singole forze politiche che sono mutati. La differenza tra coalizioni resta molto netta, visto il vantaggio siderale del centrodestra sulla sinistra.

Boom FdI, il Pd crolla

L’ultimo sondaggio di Swg per La7 dà l’idea di una situazione molto chiara: Fratelli d’Italia resta saldamente la prima forza politica del nostro Paese, guadagnando un buon 0,7% rispetto alla scorsa settimana e raggiungendo quota 27,5%. La vetta più alta nella storia del partito guidato da Giorgia Meloni. Tendenza del tutto opposta per il Partito democratico, che invece continua a perdere voti e crolla al 17,5%, lasciando per strada lo 0,6% di preferenze. Il Pd sprofonda sempre di più e il Movimento 5 Stelle ne approfitta: il M5S sale dello 0,5% e si porta al 17%. A questo punto il sorpasso è a un passo e potrebbe materializzarsi in pochi giorni.

In una settimana la Lega cresce lievemente, portando a caso lo 0,1% e attestandosi all’8,3%. Perde consensi il Terzo Polo formato da Azione e Italia Viva: l’asse tra Carlo Calenda e Matteo Renzi scende dello 0,3% e va all’8%. Piccola flessione per Forza Italia, che cala dello 0,2% e si colloca al 7,4%.

Infine si trovano le formazioni politiche con minore consenso: in ordine vi sono Verdi e Sinistra italiana al 3,8% (-0,2%), +Europa di Emma Bonino al 3,1% (-0,2%), Italexit con Gianluigi Paragone al 2,4% (in crescita dello 0,2%) e Noi moderati di centrodestra all’1% (-0,2%). Le altre liste hanno un peso del 4%, in aumento dello 0,2%. Il 32% non si esprime.

Le coalizioni

Il quadro delle coalizioni resta sempre ben definito. Il centrodestra mantiene una posizione di vantaggio profonda: l’area formata da Fratelli d’Italia, Lega, Forza Italia e Noi moderati può godere del 44,2% delle preferenze. Il contesto è assai diverso per il centrosinistra: tenendo in considerazione Partito democratico, Verdi-Sinistra italiana e +Europa, la coalizione si ferma al 24,4% dei voti. Una distanza di circa 20 punti percentuali dal centrodestra. Un abisso.

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