Archive for Febbraio, 2023

Schiacciata dall’egemonia Usa, così è sparita la sinistra europea

martedì, Febbraio 21st, 2023

MASSIMO CACCIARI

Azzardo un paragone: qualcosa di analogo avvenne a cavallo del secolo, tra Ottocento e Novecento. Il dibattito, lo scontro teorico e politico all’interno delle socialdemocrazie, e in particolare in quella tedesca, tra riformisti e marxismo «ortodosso», non avevano affatto indebolito l’organizzazione e la forza elettorale del partito. Il conflitto non fa male quando è confronto di idee sulla base di quella che non saprei come chiamare se non un’etica comune. Fu l’impotenza di fronte alla Guerra, l’incapacità di contrastare la catastrofe, la conseguente resa alle posizioni nazionalistiche, a determinare la rovinosa sconfitta, che spalancò le porte alla più nera reazione. L’illusione di poterla rimediare, più tardi, «ancorando» la propria strategia agli interessi della rivoluzione di Ottobre, tragica illusione certo, rappresentò in fondo una variante della stessa assenza di visione autonoma, della stessa subalternità politica che si erano già manifestate alla vigilia della Guerra.

Parallelo esagerato? Speriamolo – speriamo che le tragedie alle quali assistiamo non abbiano esiti paragonabili a quelle di oltre un secolo fa. Ma forse che non abbiamo vissuto un radicale mutamento di stato a cavallo tra anni Ottanta e Novanta? Non si è imposta in Occidente, alla fine di quella Guerra a tutti gli effetti che chiamiamo «fredda», una linea egemone, dal piano delle politiche economiche e sociali a quello degli equilibri internazionali, che concepisce come unico Ordine globale realisticamente possibile quello che ha a fondamento, principium inconcussum, la potenza tecnologica, economica e militare americana? Sarebbe stato altrettanto realisticamente possibile, senza per nulla disconoscere la piena vittoria degli Stati Uniti, e quindi il suo ruolo fondamentale in ogni riassetto geo-politico, discuterne le volontà egemoniche, opporre alla strategia che ne derivava una visione propria, autonoma, europea, policentrica e federale dei rapporti internazionali, tessere un gioco politico-diplomatico di mediazione tra i grandi spazi imperiali? Non lo so, nessuno lo sa. Quel che è certo è che le sinistre europee hanno “interiorizzato” la vittoria americana come essa significasse la conclusione della propria storia. Il solo internazionalismo è diventato quello della globalizzazione assunta come destino, e proprio nelle forme in cui essa aveva luogo: quelle del dominio del capitale finanziario, delle grandi multinazionali dei settori strategici, del sistema industriale-militare.

Come già accadde alla vigilia della prima Guerra, inghiottite nella logica amico-nemico che drasticamente essa sembrava imporre, vengono meno le ragioni della lotta politica alle nuove forme di sfruttamento e di disuguaglianza. Come se la mutata composizione sociale le avesse superate o fatte sparire. Come se il contrasto tra lavoro dipendente, escluso da ogni partecipazione ai processi che pure ne decidono il destino, e proprietà dei mezzi di produzione, appartenesse a un leggendario passato. Come se, nei rapporti politici ed economici contemporanei, nulla più esistesse che separa, divide, mutila la persona umana. E il progresso consistesse nel loro naturale sviluppo. Come se i rapporti sociali si fossero «liberati» dall’apparire rapporti tra cose, dominati dal valore di scambio. Certo, tutto andava ripensato: analisi, strategia, organizzazione. E si è pensato invece che la fine della centralità operaia fosse la fine del lavoro dipendente di massa, nelle sue forme anche più servili. Si è pensato a un futuro di generale imborghesimento, che i fatti stanno clamorosamente smentendo. Si è pensato che i processi di globalizzazione in atto non solo non avessero in sé tutti i germi per future possibili guerre, ma anzi ne costituissero il più sicuro antidoto. E perciò andassero seguiti obbedientemente.

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Meloni, missione a Kiev: patto di ferro con Zelensky

martedì, Febbraio 21st, 2023

dal nostro inviato   Ilario Lombardo

SUL TRENO PER KIEV. Negli ultimi centimetri di Europa, prima di salire sul treno che la porta a Kiev, Giorgia Meloni ha l’incedere veloce di chi ha fretta di cercarsi uno spazio nella storia che scorre drammaticamente rapida. Oggi vedrà i sobborghi sventrati dalle bombe di Putin prima di incontrare Zelensky al palazzo presidenziale Mariinskij. Parleranno di armi, di caccia europei, dell’arrivo imminente del sistema antiaereo italofrancese Samp/T, di tutto il sostegno possibile che il governo italiano non farà mancare nonostante le sferzate di Berlusconi e i distinguo dei leghisti di Salvini.

Nella stazione di partenza, ancora in Polonia, gli elmetti che otto mesi fa penzolavano dallo zainetto con il giubbotto antiproiettili non ci sono più. Lo scorso giugno, il tepore della tarda primavera accoglieva la passeggiata nella notte, quasi clandestina, di tre leader europei, e delle loro delegazioni. Draghi, Scholz e Macron erano qui, a compiere insieme, sullo stesso treno, una tratta che avrebbe portato l’abbraccio dell’Europa a Zelensky, meno di quattro mesi dopo l’inizio della carneficina di Putin.
Guerra Russia Ucraina, tutti gli aggiornamenti in diretta

Oggi la fanghiglia sotto i piedi che soffoca il passo della marcia verso il treno, è il ricordo di una neve passeggera. Meloni si guarda anche lei attorno, sotto i lividi lampioni che ogni volta osservano, indifferenti, i capi di governo attraversare la banchina. A giugno gli occhi che spuntavano dalle villette ai lati della strada trasmettevano l’ansia di un popolo di confine che cercava di capire se la guerra si sarebbe trascinata ancora oltre l’estate. Ora è inverno. Il freddo lo senti prima ancora nello sguardo che si è fatto di pietra, ingrigito nell’attesa di una pace che non arriva. I polacchi di confine sono nascosti nella luce di una calma apparente che filtra dalle tende, nella timidezza di chi si affaccia curioso a osservare stranieri in cammino, che trascinano zaini, trolley e telecamere. Il treno è lì, un traghetto che attende in rada di attraversare la notte e l’Ucraina, per trasportare i leader in quella che è diventata la frontiera dell’Occidente. Gelido, il primo vagone in giallo e blu, i colori disperati e orgogliosi che da dodici mesi illuminano i monumenti di una fetta di mondo.

Il viaggio della premier italiana, a lungo rinviato, cade a ridosso del primo anniversario dell’invasione ordinata da Putin, a tre giorni dal 24 febbraio, a un soffio dalla data entro la quale Meloni aveva promesso di venire in Ucraina. Soprattutto coincide con la visita di Biden. L’arrivo a sorpresa a Kiev del capo della Casa Bianca e poi la tappa -prevista – a Varsavia ha un po’ appannato la notizia del passaggio della leader italiana nella capitale polacca. La presidente del Consiglio è in città per una manciata di ore, prima di ripartire verso il cuore dell’Ucraina. Alle 17 ha un appuntamento al palazzo del governo con il primo ministro Morawiecki. Il tempo di incrociarsi con Biden ci sarebbe. I diplomatici ci provano, ma sembra impossibile. Per qualche ora l’incontro non viene smentito. Finché diventa chiaro che non ci sarà. Si sfioreranno, senza vedersi, alle dieci di sera all’aeroporto di Rzezsow mentre Biden è di ritorno e Meloni sta andando a Kiev. La premier attende per quasi un’ora sulla pista, mentre il lungo corteo americano porta il presidente Usa sull’aereo. Il vuoto del mancato faccia a faccia, alla fine, viene riempito da una telefonata di Biden, annunciata qualche giorno fa. Nel pomeriggio l’agenda della premier cambia e spunta un colloquio anche con il presidente Duda, inizialmente non previsto. È l’omaggio all’altro uomo della destra polacca. Sono gli alleati di sempre di Meloni. E le affinità elettive di sovranismo emergono subito, intatte, nelle dichiarazioni congiunte alla stampa dei due leader conservatori. Il patto italo-polacco nasce nel sogno mai svanito dell’«Europa delle patrie» come la chiama Morawiecki, contro «le visioni utopistiche, federalistiche, che centralizzano a Bruxelles» ogni decisione. Parole scolpite da sempre nella mitologia meloniana: «Vogliamo un gigante politico e non un gigante burocratico». Il progetto dei Fratelli d’Europa è al momento una scommessa che poggia su una variabile – una possibile ma al momento difficile alleanza con il Partito popolare europeo per far fuori i socialisti – e un’intesa sentimentale anti-tedesca. La Germania viene citata da Morawiecki ed evocata da Meloni.

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Bonaccini prende il largo. Ma la Schlein spera nella Cgil

martedì, Febbraio 21st, 2023

Laura Cesaretti

Alla fine, come previsto, lo spareggio dei gazebo, domenica prossima, sarà tra Bonaccini e Schlein.

Ieri si è chiusa la lunga tornata dei congressi di circolo (quelli in cui votano solo gli iscritti al Pd), e i numeri ufficiali danno il governatore emiliano in testa con il 52,6% dei voti, la sua ex vice oggi deputata al 34,8%, Gianni Cuperlo al 7,9% e Paola De Micheli al 4,2%. Il dato più significativo, al di là delle percentuali (che più o meno rispettano le aspettative della vigilia) è quello dei votanti: 150mila partecipanti che sono andati a votare al proprio circolo, un numero non proprio trascurabile in tempi in cui partecipazione e democrazia interna ai partiti sono ridotte al lumicino. Per fare un parallelo, le «consultazioni online» (e del tutto incontrollabili) per plebiscitare Giuseppe Conte alla guida del M5s hanno visto una partecipazione dichiarata di appena 50mila iscritti, e dal sofà di casa.

Ora però saranno le urne aperte delle primarie a decidere tra i due nomi in testa, e qui il gioco potrebbe cambiare perché chiunque può partecipare. Lo si capisce anche dalle mosse un po’ agitate dei supporter di Elly Schlein, che devono tentare la rimonta. Il loro portavoce Francesco Boccia tenta di provocare il riflesso di Pavlov del «popolo progressista» agitando la muleta rossa sotto il muso del toro: il nome dell’odiato Matteo Renzi (l’accusa assai sovietica che viene fatta a Bonaccini è quella di essere stato troppo benevolo con lui, e di non aver tagliato la testa di Renzi da tutte le foto come, disciplinatamente, hanno fatto molti altri) e la sua principale – e più efficace – riforma, ossia il Jobs Act.

«Elly vuole il superamento di quell’errore – dice Boccia – lei era in piazza con la Cgil quando tutto il gruppo dirigente che oggi sta con Bonaccini votava il Jobs Act». Il tentativo è chiaro: per tentare di ribaltare i risultati, il campo Schlein si aggrappa alla speranza che la Cgil di Landini (e Camusso) spedisca le sue truppe alle primarie, insieme a un po’ di sinistra movimentista e salottiera eccitata dal nome di Renzi. Funzionerà? Lo si capirà domenica sera. Intanto, Boccia si becca la replica puntuta della bonacciniana Pina Picierno: «Evitiamo di rendere ridicolo il dibattito. Tutti sanno che da Andrea Orlando, a Chiara Gribaudo, fino a Chiara Braga, Roberto Morassut e al responsabile del programma della mozione Schlein, Antonio Misiani, passando per Nico Stumpo fino al segretario di Articolo Uno, Roberto Speranza, tutti, compattamente, votarono a favore del Jobs Act. Si può riflettere su cosa non ha funzionato in quella riforma, ma evitiamo le caricature».

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Il Viminale: sbarchi triplicati. “Da gennaio 12mila migranti”

martedì, Febbraio 21st, 2023

Valentina Raffa

Gli sbarchi non conoscono sosta. Da inizio anno sono arrivati 12.906 migranti, il triplo dell’anno precedente, quando i migranti giunti sulle nostre coste erano 4.701, e 3.728 nel 2021. Numeri destinati a crescere visto il bel tempo che ha favorito partenze continue sia dalla Tunisia che dalla Libia. Il 46,5% degli sbarchi di questo già nero 2023 si è concentrato nell’ultima settimana con 5.636 arrivi. La maggior parte dei migranti proviene dalla Costa d’Avorio. Sono 1.043 persone, che rappresentano l’8,6% degli sbarcati. Seguono i pakistani con il 7,9% (967), al terzo posto i migranti originari della Guinea (925, pari al 7,6% degli approdati). I minori non accompagnati finora arrivati sono 861. Mentre continuano a giungere imbarcazioni stracariche di migranti, l’Italia si trova ad accogliere un altro morto. L’ennesimo. È una donna, deceduta durante la traversata da Sfax, in Tunisia, a bordo di un barchino di 7 metri che è stato soccorso al largo di Lampedusa nella notte tra domenica e ieri da Guardia di finanza e Capitaneria, in assetto Frontex. Sul natante c’erano altri 44 migranti, fra cui 7 donne. Sono originari di Costa d’Avorio, Guinea, Conakry, Senegal e Nigeria. Spetterà alla polizia ricostruire cosa sia accaduto durante la traversata. Per questo, vengono sentiti i compagni di viaggio e sarà effettuata l’autopsia. All’alba di ieri è stato individuato un altro barchino alla deriva con 37 migranti e poi ne sono arrivati altri 207. Tutti sono stati ospitati nel già sofferente hotspot di Lampedusa, da cui la prefettura di Agrigento continua a trasferire gente su terraferma (1.200 migranti tra ieri e oggi) almeno per garantire il turnover. Ieri all’alba nella struttura c’erano 2.168 ospiti e nei giorni scorsi si sono sfiorati i 3mila a fronte di 350 posti. C’è un rischio concreto di replicare la situazione drammatica della scorsa estate, quando i migranti erano accampati fuori dall’hotspot su materassi e giacigli improvvisati per mancanza di posti all’interno. Immagini non proprio edificanti che hanno fatto il giro del mondo, con bagni ai limiti dell’agibilità e spazzatura a palate in ogni dove. Anche la corsa notte molti migranti hanno dormito su materassi all’esterno del centro con coperte termiche. Vista la situazione delicata, il capo del dipartimento per le Libertà civili e l’immigrazione del Viminale, Valerio Valenti, ieri ha effettuato un sopralluogo all’hotspot e al molo Favarolo. Ad accoglierlo, il prefetto di Agrigento Maria Rita Cocciufa e il questore Rosa Maria Iraci. «Il governo dice il sindaco, Filippo Mannino – sta cercando di dare risposte in maniera strutturale e non emergenziale alle esigenze del territorio». Sbarchi non solo a Lampedusa, ma anche in Sardegna.

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Bonaccini-Schlein, il confronto tv. Lei: «Chi porterei con me sul camper? Meloni». Lui: «Io porterei Segre»

martedì, Febbraio 21st, 2023

di Lorenzo Salvia

Il duello su Skytg24 in attesa del voto ai gazebo di domenica 26 per le primarie del Pd. Lui: diritti sociali, non solo diritti civili. Lei: essere buoni amministratori non basta

Bonaccini-Schlein, il confronto tv. Lei: «Chi porterei con me sul camper? Meloni». Lui: «Io porterei Segre»

All’attacco lei, un filo emozionata all’inizio, in modalità forza tranquilla lui. Lo schema di gioco è quello previsto per il confronto tra Stefano Bonaccini ed Elly Schlein, in onda su SkyTg24 .

Si chiamano per nome: «come dice Stefano», «come dice Elly», del resto si conoscono benissimo i due candidati alle primarie del Pd di domenica prossima. Stretta di mano all’inizio, abbraccio alla fine. Ma nel mezzo anche qualche punturina sui (presunti) punti deboli altrui. Un esempio?

«Essere buoni amministratori non è una linea politica», dice Schlein prendendo di mira la cifra politica scelta anche stasera dal rivale. Ma le scintille arrivano sui diritti, con il governatore che stavolta attacca: «Dobbiamo difendere quelli sociali, non solo quelli civili». Pronta la risposta della deputata: «Diritti sociali e civili sono inscindibili: chi è discriminato lo è sul lavoro, a scuola, nella società».

Dopo l’elogio fatto nei giorni scorsi a Giorgia Meloni che tanto ha fatto discutere, Bonaccini corregge il tiro: «Su di lei non do giudizi, lo danno gli elettori. A me interessa battere nelle urne un governo che sta mostrando tutta la sua inaffidabilità», al quale come voto dà 4. Ma Schlein prova a riportarlo comunque sugli elogi di qualche giorno fa per attaccare: «Non sono d’accordo. Questo governo ha colpito i deboli, abbiamo visto la brutalità nel trascinare le persone salvate nei porti più lontani, una logistica dell’orrore».

Sul capitolo anarchici, la domanda è insidiosa: andrebbe a trovare in carcere Alfredo Cospito? «No» dice secco lui. «In questo momento no ma chi ci è stato aveva il diritto di farlo», argomenta lei.

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L’esempio di Biden

martedì, Febbraio 21st, 2023

di Massimo Gaggi

Il vecchio leader dell’era della Guerra fredda ha capito che è ora di esporsi ancora di più in prima persona

L’esempio di Biden
Il presidente americano Joe Biden (Epa)

Cuore, rischio calcolato, ambizione. Sono questi i tre elementi che hanno spinto Joe Biden fino a Kiev (senza soldati Usa a proteggerlo e senza avere il controllo dei cieli) per mostrare tutta la determinazione americana a sostenere l’Ucraina: una missione che diventa simbolo di una battaglia di libertà combattuta, per ora senza grosse defezioni, da tutto l’Occidente. Col presidente americano che sfida Putin notificando il suo viaggio nella città bersagliata dai missili del Cremlino al leader che in passato ha definito «killer senz’anima»: due uomini dell’era della Guerra fredda che si detestano, ma si capiscono.

Per Biden l’Ucraina è qualcosa più di un Paese ingiustamente aggredito da difendere sulla base dei principi etici e giuridici universali della Carta dell’Onu e del diritto internazionale. Kiev è per lui il luogo del cuore e lo ha detto chiaramente ieri arrivando a sorpresa in questa capitale martoriata. Non sono parole di circostanza: agli occhi di un leader che ha dedicato gran parte della sua vita politica al rafforzamento dei rapporti transatlantici l’Ucraina è la frontiera della civiltà occidentale da difendere a tutti i costi per contenere il neoimperialismo russo. E lo è non da oggi ma dal 2014, quando Biden, allora vice di Barack Obama, chiese al presidente di «far pagare cara ai russi col sangue e col denaro» quell’invasione.

Obama, allora, non volle rischiare uno scontro diretto. Toccò, così, a Biden andare a Kiev per salvare il salvabile: riorganizzare il governo ucraino, aiutarlo a dotarsi di un esercito moderno e ben addestrato, tentare di compensare con la tecnologia l’inferiorità economica e demografica rispetto all’aggressore russo. Come ha ricordato lui stesso ieri, da allora Biden ha preso a cuore quella causa: sei missioni in Ucraina da vicepresidente, l’ultima alla vigilia dell’insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca, e una successivamente.

Il contenimento dell’invasione e i contrattacchi ucraini sono stati celebrati come la prova di coraggio di un intero popolo, ma sono anche il frutto di questo lavoro svolto per anni dietro le quinte. Con la guerra Biden è dovuto, però, salire sul palcoscenico: impegnato da un lato a mantenere compatto il fronte politico interno e, all’esterno, a rivitalizzare la Nato. Ma anche attento, nel sostegno all’Ucraina, a non varcare linee rosse che potrebbero fornire a un Putin in grande difficoltà un alibi per allargare il conflitto in modo drammatico.

Fin qui il presidente americano è riuscito nell’impresa, che a Putin sembrava impossibile, di tenere unita l’Europa nonostante i sacrifici imposti da una crisi energetica diventata anche crisi economica. Ed è anche riuscito, negli Usa, a limitare il dissenso a una falange fin qui ristretta di trumpiani filoputiniani.

Gli incontri di questi giorni degli alleati in Polonia e a Kiev non sono però la celebrazione di una vittoria: sono la presa d’atto che, evitato il peggio, ora si apre una nuova fase, se possibile ancor più difficile, tra nuove offensive russe e il rischio che la Cina cominci a sostenere il Cremlino anche militarmente.

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Nuovo terremoto in Turchia, il momento in cui la terra trema ripreso dalla dashcam un’auto

martedì, Febbraio 21st, 2023

La prima scossa con epicentro nella provincia di Hanay alle ore 20 del 20 febbraio

Un nuovo terremoto di magnitudo 6.4 ha colpito la provincia di Hatay, nel sud della Turchia, al confine con la Siria. Diversi gli edifici crollati e le persone rimaste sotto le macerie: sarebbeo almeno 200 i feriti.
In queste immagini, il momento in cui la terra trema la prima volta ripreso dalla dash cam di un’auto: la scossa alle ore 20 del 20 febbraio.
Nemmeno tre minuti dopo, una seconda scossa di magnitudo 5.8 ha colpito le stesse zone. Il terremoto però è stato colpito anche ad Antalya e Adana, circa 200chilometri più a nord.


CorriereTv

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Ian Bremmer: «La guerra in Ucraina sta diventando una guerra tra Usa e Nato da una parte e Russia dall’altra. La posta in gioco si sta alzando»

martedì, Febbraio 21st, 2023

di Viviana Mazza

Il politologo americano: «Le diplomazie non hanno trovato la strada»

Ian Bremmer: «La guerra in Ucraina sta diventando una guerra  tra Usa e Nato da una parte e  Russia dall’altra. La posta in gioco si sta alzando»

DALLA NOSTRA CORRISPONDENTE
NEW YORK – Anche George W. Bush, Barack Obama e Donald Trump quando erano presidenti si recarono in zone di guerra (Iraq e Afghanistan), di solito all’interno di installazioni militari sicure o in territori sotto il controllo statunitense. Abbiamo chiesto al politologo Ian Bremmer, fondatore e capo di «Eurasia», se il viaggio di Joe Biden è paragonabile a quelli dei suoi predecessori.

«È più significativo perché la guerra in Ucraina sta diventando una guerra per procura tra gli Stati Uniti e la Nato da una parte e la Russia dall’altra. La presenza di Biden a Kiev vuole contribuire ad assicurare la sconfitta della Russia — un Paese con un esercito enorme, che dispone di capacità di guerra asimmetrica tra le più notevoli al mondo e di 6.000 testate nucleari. La posta in gioco è alta, il viaggio di Biden l’ha alzata ulteriormente».

In che modo questa visita si inserisce nei piani di Biden di annunciare che si candiderà ad un secondo mandato alla Casa Bianca? Potrà mettere a tacere i critici che dicono che è troppo vecchio?

«Non ci sarà alcun cambiamento. Biden ha 80 anni e la sua età è una questione che desta reale preoccupazione (come lo è pure l’età dell’attuale favorito alla nomination repubblicana, Donald Trump). Durante questo suo primo mandato, Biden ha certamente dimostrato di essere in grado di farsi carico dei doveri della presidenza, ma questo non potrà porre fine alle domande su una persona che, se correrà di nuovo e se vincerà, si troverà a servire come presidente fin dopo il suo 86esimo compleanno».

Trump ha annunciato che domani andrà a East Palestine, una città dell’Ohio in crisi a causa del deragliamento di un treno con materiale tossico. Biden e il suo ministro dei trasporti Pete Buttigieg sono stati criticati per la gestione di questa crisi e i commentatori di destra dipingono il presidente come più interessato ad aiutare Zelensky che a soccorrere una comunità bianca e povera di uno Stato cruciale nelle prossime elezioni. Questo viaggio di Biden può avere anche effetti controproducenti, visto che parte dell’opinione pubblica americana è forse meno convinta oggi di un impegno di lunga durata in Ucraina?
«Marginalmente, sì. La maggior parte dei repubblicani — e in particolare lo speaker della Camera McCarthy e il leader della minoranza al Senato McConnell — hanno chiarito che appoggiano fortemente il presidente Biden nelle sue posizioni politiche sulla Russia. Ma c’è una minoranza rumorosa di repubblicani al Congresso che riceve una attenzione sproporzionata da parte dei media che vuole una politica estera “America First”… e questa posizione sta diventando sempre più popolare tra gli elettori repubblicani. Se Trump otterrà la nomination repubblicana, questa diventerà la posizione politica… e una sfida notevole per l’amministrazione Biden».

Poche ore prima, i russi erano stati informati del viaggio di Biden a Kiev: un modo per evitare possibili incidenti; ma il fatto che ci sia questo tipo di contatti indica anche che esiste qualche speranza di una guerra breve e di una soluzione diplomatica in vista? Questo viaggio rende più facile o più difficile la pace (o non cambia niente)?
«C’è ben poca speranza per la diplomazia, a questo punto. Di recente, anche il presidente francese Emmanuel Macron ha fatto un passo indietro rispetto a questa prospettiva, dicendo che non è il momento giusto. Il presidente cinese Xi Jinping annuncerà a breve il suo piano di pace… ma mi aspetto una scarsa accoglienza da parte dei leader della Nato o degli ucraini. Il viaggio di Biden a Kiev non cambia le cose».

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“Rischio default” Berlusconi dice sì allo stop di Giorgia e apre il confronto. Fi: subito un tavolo

lunedì, Febbraio 20th, 2023

Pier Francesco Borgia

L’obiettivo principale è la tutela di famiglie e imprese. Il superbonus per l’edilizia resta un tema di forte impatto. E, dopo l’approvazione in Consiglio dei ministri del decreto che blocca la possibilità sia di cedere che di scontare i crediti di imposta, da più parti si levano gli appelli a un ridimensionamento della misura per non piegare un settore, quello dell’edilizia, già in forte crisi.

Forza Italia chiede a questo proposito un tavolo di maggioranza. Un confronto da effettuare prima che il provvedimento venga incanalato nei lavori delle commissioni parlamentari, al fine di risolvere velocemente e in modo spedito il tema dei miglioramenti da apportare al decreto. I due capigruppo azzurri di Camera e Senato, Cattaneo e Ronzulli in una nota spiegano: «Chiediamo che sia istituito un tavolo dove siedano i capigruppo di maggioranza prima che il provvedimento venga posto all’attenzione della commissione». «Si potrebbe così ovviare – proseguono – allo scarsissimo tempo dato ai partiti di maggioranza, e agli stessi ministri, per valutare e emendare il provvedimento prima del Consiglio dei ministri che lo ha varato. In appena mezz’ora, Forza Italia è comunque riuscita ad apportare due importanti modifiche. La prima riguarda la responsabilità solidale degli istituti di credito, che grazie a noi saranno chiamati a rispondere solo per il loro eventuale dolo e non anche per quello di chi ha effettuato i lavori. Così da facilitare lo sblocco dei crediti incagliati». Il secondo intervento ha riguardato, spiegano, la riduzione del numero dei documenti da presentare per dimostrare la regolarità degli interventi effettuati. «Questo – aggiungono – in considerazione del fatto che non si può pretendere, oggi, una attestazione che non è mai stata prevista dalle leggi sui Bonus edilizi».

«Da uomo di Stato e di economia – scrive lo stesso Berlusconi sui suoi profili social -, è che sia giustificato e forse inevitabile il percorso del Governo per evitare danni al bilancio dello Stato, che potrebbero addirittura portarci ad una situazione di default. Naturalmente il Parlamento sovrano discuterà il decreto, e, nei tempi richiesti, ove lo ritenesse opportuno, potrà apportare utili modifiche». Nessuna crisi in maggioranza, quindi. Come assicura lo stesso ministro degli Esteri e vicepremier Antonio Tajani. Che conferma le parole di Berlusconi. «Era indispensabile approvare in Cdm quella decisione – spiega – perché con le nuove regole di Eurostat c’era il rischio che i conti pubblici saltassero».

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Critiche e delusione: è iniziato il viale del tramonto per i Ferragnez?

lunedì, Febbraio 20th, 2023

Francesca Galici

Che la crisi sia business o meno, a questo punto poco importa: i Ferragnez da dopo Sanremo si sono resi conto di cosa sia il mondo reale. Soprattutto Fedez, che sembra tornato a essere il bulletto di periferia. Il bilancio dell’esperienza sanremese non può che essere negativo per Chiara Ferragni, perché se nessuno da un lato parla più della sua presenza, oggettivamente impalpabile, sul palco del teatro Ariston, dall’altra la sua presunta lite col marito tiene banco da, ormai, 10 giorni.

Qualcuno, prima che iniziasse il festival di Sanremo, aveva azzardato una previsione: l’evento televisivo sarebbe stato il primo passo di un “glow down” per la coppia, ovvero l’inizio della loro parabola discendente. Ebbene, non solo quella previsione si è rivelata corretta ma si è addirittura avverata prima del previsto. I motivi sono svariati, è sbagliato e fuorviante pensare che tutto nasca e si sviluppi a partire dalla lite sul palco dell’Ariston.

I Ferragnez, anzi, la Ferragni, non è mai uscita da quella bolla che si è costruita negli anni. Una bolla virtuale su misura, a sua immagine e somiglianza, impenetrabile. Mai un imprevisto ha violato la cortina di perfezione che l’influencer ha cercato di raggiungere, mai una domanda scomoda l’ha potuta mettere in difficoltà. Ha sempre fatto in modo di avere il controllo su ogni minimo elemento: su Instagram i contenuti sono differiti, se qualcosa non piace si taglia, si elimina, semplicemente non si mostra. Ed ecco che in questo modo viene costruita la narrazione di qualcosa che, in realtà, non è mai esistita.

Nel momento in cui Chiara Ferragni è uscita da quella bolla, ha rotto l’incantesimo. Lei stessa ha aperto gli occhi al pubblico, ha fatto capire che tutto quello che per anni ha mostrato sui social altro non era business, marketing, narrazione. Insomma, tutto finto. Parte della fanbase si è sentita tradita e quando tra influencer e fan si rompe il rapporto di fiducia, in quel momento inizia inesorabile la parabola discendente.

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