Archive for Giugno, 2023

Fiorello e Vespa, Rai a due teste

lunedì, Giugno 12th, 2023

Massimiliano Panarari

Fiorello e Vespa, Rai a due teste

Una Rai bicefala. E dietro le due teste (e sotto il vestito…) niente. O poco, pochissimo altro, a concedere il beneficio del dubbio. Certo, è estate, che tradizionalmente – a differenza di quanto diceva il Riccardo III shakespeariano – identifica la «stagione del nostro scontento» (televisivo). E i palinsesti della nuova stagione, che verranno presentati a Napoli il 7 luglio, attendono quindi ancora di avere il loro “posto al sole”, ma al momento il menù mediale non si caratterizza di sicuro per la varietà. Se ne sono andati i pezzi da novanta, con il nuovo corso di “Rai Tolkien”. Fabio Fazio, Lucia Annunziata, Massimo Gramellini. I vuoti da colmare sono giganteschi. Che si fa? Per ora è buio pesto. Ma nel frattempo, uno strano palinsesto provvisorio prende forma. E ruota appunto tutto intorno a una coppia che ha riempito l’etere. Ovvero, Fiorello e Bruno Vespa che non sono neppure gemelli diversi – e in effetti sarebbe difficile pensare a due figure più differenti. Il mattatore campione di ascolti che proprio in Rai più di qualcuno non voleva. E il grande cerimoniere dell’informazione politica nella tv pubblica, ritornato molto in auge perché di recente – suscitando una caterva di mal di pancia – si è messo a sussurrare nell’orecchio di Giorgia Meloni ricevendo parecchio ascolto. Un tandem che più diverso non si può, e, a ben guardare, mostra una sola cosa in comune. Fiore e «Bru-neo» (copyright Dagospia), nei rispettivi generi, rappresentano altrettante versioni di “usato sicuro” – e, dunque, la loro inflazione e sovrappresentazione sugli schermi può venire interpretata anche come una spia della difficoltà da parte della neogovernance di destracentro (o, per meglio dire, di destra-destra) di imprimere un segno della propria “grande trasformazione”. Un “nuovo corso”, ma con volti antichi (e consolidatissimi). E, dunque, nessuna traccia dello sbandierato rinnovamento che, per il momento, non è pervenuto. Del resto, verba volant, (alcuni) conduttori manent. D’altronde, si sa, la (contro)rivoluzione e l’instaurazione di una rinnovata egemonia culturale richiedono tempo – Berlusconi ci mise qualche decennio, infatti. Allora, visto che in questo caso – a differenza di quanto avvenuto per varie nomine – il Blitkrieg non rende, si fa ricorso al sempreverde.

Assai interessante – oltre che contraddittorio e paradossale – si rivela, difatti, l’«affaire Fiorello». Non in senso politico, dato che il fuoriclasse Fiorello è trasversalissimo e l’esponente per eccellenza dell’idea che l’intrattenimento nazionalpop(olare) non possiede colore, né orientamento. In questi giorni, reduce dai trionfi di Viva Rai2, viene portato in giro in stile “madonna pellegrina”. Venerdì mattina è andata in onda l’ultima puntata di “VivaRai2”, alla solita ora, 7,15 del mattino. Trionfo, saluti e all’anno prossimo? Non proprio. Nello stesso giorno, il mitico Ciuri è prima ospite al Tg1 delle 13,30, poi torna la sera al “Tg2Post” delle 20,50. Il giorno dopo, sabato, si replica. Fiorello è di nuovo mattatore al Tg1 delle 13,30, dove per 12 minuti esatti lo intervista la conduttrice Sonia Sarno, che alla fine improvvisa anche un balletto insieme allo showman, sulle note di “La notte vola” di Lorella Cuccarini (nel recente passato scopertasi anch’essa sovranista, ma questa è sicuramente una coincidenza non voluta). Non basta: al Tg1 delle 20 si bissa, altro lungo servizio sul Fiorello già andato in onda alle 13,30, condito con i gustosi fuorionda per i corridoi di Saxa Rubra (e compresi i travolgenti abbracci del neo-direttorissimo Marco Chiocci). Finito? Nossignori. Ieri, domenica, serve rinfrescare la memoria. Così, al Tg1 delle 20, ricompare Rosario, in un servizio breve che anticipa lo “Speciale Tg1” delle 23,35. Indovinate dedicato a chi? Ma di nuovo a lui, naturalmente! Fiore, si sa, è una forza della natura, un ciclone a cui, tuttavia, come alcuni ricorderanno, non è stato affatto immediato trovare una collocazione in Rai prima che il suo ultimo programma sbancasse l’audience. E una parte delle resistenze più robuste venivano proprio dalla redazione del telegiornale della prima rete: ergo, quest’ultimo passaggio ha anche il sapore di una specie di riparazione ex post.

L’altro componente della “strana coppia di fatto” che i nuovi vertici di viale Mazzini stanno spalmando a reti unificate è, invece, personaggio iperpolitico (e politicistico) per antonomasia, nonché un navigatore di lunghissimo (e qui l’aggettivo, che ci si creda o no, è comunque “per difetto”) corso della televisione di Stato – che, infatti, procedeva già a vele spiegate quando imperava il partito-Stato che rispondeva al nome di Democrazia cristiana. Tramontato il quale, Vespa ha comunque ballato alla grande in tutte le stagioni, brevettando e, via via, mettendo a punto attraverso il format di Porta a Porta quella sorta di “Terza Camera” che si è convertita nell’appuntamento obbligato (e anelato) di gran parte del mondo politico – e specialmente di quello di centrodestra divenuto ora di destracentro. Dove, anche gli elementi della scenografia, a partire dal famoso campanello, ne fanno l’indiscusso padrone di casa. Fino all’apoteosi delle scorse ore, con il conduttore-vignaiolo che, col “Forum in Masseria” di Manduria, ha ospitato a casa sua (in questo caso in senso davvero letterale) l’esecutivo al gran completo (con l’aggiunta di Giuseppe Conte). Anche stavolta, il climax cade di venerdì. Per l’intera giornata i Tg, a reti unificate, mandano servizi su quanto accade nella festosa masseria pugliese, tra dibattiti e dichiarazioni dei ministri.

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Il Mes può attendere (ma il Pnrr no): le aperture di von der Leyen a Meloni

lunedì, Giugno 12th, 2023

di Federico Fubini

Il Mes può attendere (ma il Pnrr no): le aperture di von der Leyen a Meloni

Il gelo di Giorgia Meloni in questi giorni sull’ipotesi di una ratifica italiana alla riforma del Meccanismo europeo di stabilità significa il contrario di ciò che appare: anziché mettersi ai margini dei giochi nell’Unione, la premier italiana si sente così al centro da potersi permettere di eludere le questioni che la mettono in imbarazzo. L’approvazione parlamentare del Mes è uno di questi, perché farebbe emergere le ambiguità di una maggioranza ancora percorsa da radicate correnti antieuropee. la visita

Ma se Meloni sente di poter tenere duro su questo punto, in parte è per la stessa ragione che ha portato Ursula von der Leyen più volte in Italia in questi mesi e ieri a Tunisi con la premier. La presidente della Commissione è in corsa per succedere a se stessa e avrà fatto i conti. Per avere la fiducia dell’europarlamento, la cristiano-democratica tedesca ha bisogno di un’affidabile maggioranza di (almeno) 376 voti. Quella attuale di Strasburgo — popolari, più socialisti democratici e liberali macroniani di Renew — all’ultimo sondaggio di Der Föderalist a fine maggio avrebbe 391 voti, un margine che non mette von der Leyen al sicuro dai franchi tiratori annidati soprattutto fra i socialdemocratici tedeschi. Di qui l’idea di un allargamento della maggioranza (non di un ribaltamento a destra), che rende corteggiati i «Conservatori e Riformisti» europei presieduti da Meloni. All’ultimo sondaggio questi contano su 79 eurodeputati, quarta forza a Strasburgo. Il fatto che siano alieni dalla percepita intransigenza dei Verdi, che in questa fase li rende invisi all’industria e ai centristi tedeschi, è un punto per i meloniani. Del resto la cooptazione della destra nel consociativismo europeo non sarebbe una novità: già nel 2019 Legge e giustizia, il partito al potere a Varsavia e alleato di Meloni, votò per la Commissione von der Leyen (assieme ai 5 Stelle).

C’è poi un’altra ragione che permette alla premier di continuare a bloccare il Mes: gli altri governi trovano il veto italiano un fastidio evitabile, ma non così importante (almeno fino alla prossima crisi bancaria, quando la rete di sicurezza del Mes potrebbe servire).

Nodi da sciogliere

Se però in Italia si concludesse che gli equilibri con il resto dell’Unione sono sotto controllo, il risveglio potrebbe essere brusco. In primo luogo perché l’ingresso trionfale di Meloni nel consociativismo porterebbe altri nodi. Il primo è ovvio: la legge dei numeri e dei rapporti con Berlino impedisce l’esclusione dei socialisti dalla maggioranza di von der Leyen, dunque la premier italiana dovrebbe spiegare perché a Roma governa con i sovranisti della Lega e a Bruxelles con il partito democratico (oggi) di Elly Schlein. Non solo. L’appoggio a von der Leyen nel 2019 non ha impedito a Legge e giustizia di vedersi bloccare i fondi europei per le ripetute violazioni a Varsavia dei principi di una democrazia liberale. l’intervista

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Migranti, una crisi che divide

lunedì, Giugno 12th, 2023

di Maurizio Ferrera

La vulnerabilità rispetto agli arrivi dipende dalla posizione geografica: più alta per i Paesi del Sud, Italia e Grecia in testa. Quindi è diverso l’approccio al problema

Migranti, una crisi che divide
Immigrati sbarcati a Lampedusa (Ansa)

Seppure con molte difficoltà, le crisi dell’ultimo quindicennio (euro, Brexit, pandemia) hanno portato a un significativo rafforzamento della solidarietà europea. Ricordiamo il sostegno ai Paesi in difficoltà da parte della Banca centrale europea o la compattezza con cui Bruxelles ha gestito la Brexit, tutelando l’interesse comune Ue. E pensiamo al Next Generation Eu, l’ambiziosa strategia per la ripresa e la resilienza, con le sue sovvenzioni a fondo perduto finanziate da debito comune.

L’unica crisi che non ha sinora trovato uno sbocco unitario è quella migratoria. Deflagrata nel 2016 con la massiccia ondata di profughi siriani, l’emergenza non si è mai risolta: tutti gli sforzi per gestire i flussi tramite un sistema integrato a livello europeo sono miseramente falliti. Nel 2020 la Commissione europea ha proposto un Patto sull’immigrazione: procedure uniformi e più rapide alle frontiere esterne, condivisione degli oneri tramite i ricollocamenti cross-nazionali e cooperazione con i Paesi di origine. Dopo l’invasione di Putin, la buona gestione dei rifugiati ucraini faceva ben sperare. Invece l’accordo di giovedì scorso fra i ministri degli Interni si è limitato a pochi e modesti ritocchi del sistema attuale.

L’unica innovazione è un embrionale meccanismo di solidarietà, che prevede una quota di ricollocazioni obbligatorie oppure — se un Paese è contrario — il versamento di ventimila euro per ogni migrante rifiutato.

Perché è così difficile raggiungere una soluzione comune? L’immigrazione sfida un elemento costitutivo dello Stato moderno: il potere di controllare chi entra nello spazio nazionale e può goderne i benefici (diritti, lavoro, welfare). L’integrazione europea è riuscita nel tempo ad abolire quasi interamente le frontiere interne e a liberalizzare la circolazione di merci, capitali, servizi e persone. Per spostarsi in Europa i nostri nonni dovevano chiedere il visto, i nostri figli non si accorgono nemmeno di attraversare le linee di confine entro l’area Schengen, e quando si trovano in un altro Paese Ue hanno gli stessi diritti dei nativi. Raggiungere questo risultato straordinario non è stato facile. Lo ha mostrato la Brexit: gli inglesi l’hanno appoggiata perché impauriti dalla supposta «invasione» di cittadini est europei (polacchi, rumeni) dopo che i loro Paesi erano entrati nella Ue fra il 2004 e il 2007.

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Arena climatica e voto europeo. Destre in marcia, sinistre ferme

lunedì, Giugno 12th, 2023

MASSIMO GIANNINI

Il futuro arriva così, con un cielo arancione, scrive Paul Krugman sul New York Times, alla fine di una settimana inutilmente cruciale per il Pianeta. Lunedì la Giornata mondiale dell’Ambiente, giovedì la Giornata mondiale degli Oceani. In mezzo, uno stillicidio inquietante di piccole catastrofi locali, che suggeriscono un’incipiente Armageddon globale. Lo skyline della Grande Mela infuocato dalla fuliggine di un mastodontico incendio nel Canada. E poi il disastro epocale della diga Khakovka che allaga mezza Ucraina, e quasi ricorda la devastante alluvione che ha appena sommerso la Romagna. E infine Greta Thunberg che ormai ventenne prende il diploma e si congeda idealmente dagli scioperi dei Fridays for Future.

La Rivoluzione Verde non è un pranzo di gala. Ancora non ce ne rendiamo conto, ma sarà proprio questo il vero campo di battaglia delle prossime elezioni europee del 2024: l’Agenda Ambientale, i suoi obblighi, i suoi costi industriali, occupazionali, sociali. Lo conferma Matteo Salvini, che come sempre sente l’odore del sangue e va subito a caccia. Stavolta la sua preda è “quell’ubriacone” di Hans Timmermans, vicepresidente della Commissione Ue e fiero fautore del blocco delle auto a benzina e diesel tra 12 anni: un’idea “da ricovero coatto”, tuona il Capitano leghista, aprendo le ostilità contro la “maggioranza Ursula” proprio a partire dal Global Warming. Un’emergenza che imporrebbe l’accelerazione di scelte drastiche già indicate dalle Conferenze di Rio e di Kyoto, di Parigi e di Glasgow. Ma la sporca guerra di Putin ha stravolto piattaforme politiche già vaghe ed esitanti. In un mondo diventato improvvisamente più chiuso e più piccolo, i governi fanno i conti con la super-inflazione e le nuove dipendenze energetiche (ieri succhiavamo gas russo, domani pomperemo terre rare cinesi).

Scoprono il prezzo da pagare alla transizione ecologica. E dunque, mentre rinnovano l’impegno formale al contrasto dei cambiamenti climatici, riscrivono i rispettivi Green Deal in base al proprio interesse nazionale.

Antonio Tajani, ministro degli Esteri nel governo dei Fratelli meloniani, conosce a fondo le logiche comunitarie dopo gli anni da commissario e poi da presidente del Parlamento. Dopo la tre giorni italiana dell’alleato Manfred Weber, non ha dubbi. Lasciate perdere il fascismo e l’antifascismo, lo scontro tra liberalismo e autoritarismo, la contesa tra le triadi Dio-Patria-Famiglia e Pride-Gender-Lgbtq+. Di qui al voto della prossima primavera la vera faglia tra destre e sinistre in Europa saranno le norme sulla Casa Green, sul blocco delle auto a benzina e diesel, sui fertilizzanti in agricoltura, sul Nutriscore, cioè il sistema di etichettatura dei prodotti alimentari. Questioni concrete, che riguardano la vita pratica di tutti i giorni e le persone in carne e ossa: famiglie, consumatori e imprenditori. Su queste si giocherà la partita del consenso.

Francesco Rutelli ex ministro della Cultura ed ex sindaco di Roma, conosce ancora più a fondo le mutazioni ambientali e le relative implicazioni politiche. E nel suo illuminante “Il Secolo Verde” (appena uscito da Solferino) le spiega come meglio non si potrebbe. Le agende nazionali e personali fanno i conti con nuovi conflitti strategici e con scelte materiali che cambiano radicalmente le nostre società. Le domande ricorrenti, tra le opinioni pubbliche del Continente, sono sempre le stesse: “È giusto obbligarci a rendere le nostre case più efficienti dal punto di vista energetico”, in nome del solito “arrogante dirigismo dell’Europa?”. “Dobbiamo per forza buttare le vecchie caldaie a metano, per montare impianti fotovoltaici che costano fino a 10 mila euro?”. Oppure: “Per ridurre le emissioni in città serve davvero ridurre la velocità delle auto a 30 chilometri all’ora?”. “Dobbiamo per forza rottamare le macchine a benzina, e comprare quelle elettriche che non costano mai meno di 25 mila euro?”. Per ora le risposte oscillano tra il sacrificio ineluttabile degli ambientalisti militanti (tendenza Carlo Marx: il capitalismo che inquina si abbatte, non si riforma) e il maleficio inaccettabile dei negazionisti impenitenti (tendenza Groucho Marx: perché devo fare qualcosa per i posteri, cos’hanno fatto questi posteri per me?).

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Saied, al tavolo col dittatore: così la potente Europa si umilia a chi in Tunisia ha scatenato la caccia al migrante

lunedì, Giugno 12th, 2023

DOMENICO QUIRICO

Per definire di che stoffa è fatta una politica estera, italiana ed europea, passare in rassegna i nemici non basta. Quelli sono definiti con efficacia, stramaledetti ad ogni balzo della Storia: Putin, ovviamente, il nuovo Hitler con le atomiche, il cinese Xi con i miliardi in cassaforte e le perfide fellonie spionistiche di TikTok, e poi ayatollah e califfi. Più complicato l’identikit con gli amici, gli alleati, i partner. Perché qui tutto si fa opaco, diventa faccenda cincischiata. Guardiamo, per esempio, all’altra sponda del Mediterraneo. Chi sono gli amici? Occorre una pausa intensa per sillabare alcuni nomi che affliggono, qualcosa scricchiola nelle nostre idee chiare e distinte.

L’egiziano al Sisi, meticoloso collezionista di oppositori in galera e non solo, reincarnazione antropologica del pensionato Mubarak con la vivacità autocratica che l’età e l’abuso aveva tolto al raiss. La consolidata gang petrolifera algerina, di pretoriani e affaristi. Poi ci sono i libici: qui ancora stentiamo a trovare l’amico con la a maiuscola, il Gheddafi bis che ci garantisca petrolio e non migranti. E poi c’è lui, Kais Saied, il tunisino, destinatario di visite ormai quasi quotidiane, incalzanti, non solo più italiche ma prestigiosamente europee. A lui si rivolgono promesse di amicizia e sostegno in una prosa sempre più prensile: “insostituibile alleato”, “riferimento indissolubile e antico”, guida di un Paese in difficoltà ma che non può fallire se non al prezzo di reciproche e collettive catastrofi, Dio ci scampi. Una segatura di moine, complimenti, preoccupazioni affettuose a cui abbiamo convertito, da Roma, perfino quegli scetticoni di Bruxelles. E lo definiamo un trionfo diplomatico.

Già Saied: personaggio incandescente sulla tiepida “corniche” di Cartagine, forse un po’ frettolosamente etichettata come l’unica rivoluzione araba riuscita e provvista di Costituzione, laicità, diritti. E invece spunta lui, tra ex terroristi islamici convertiti alla bustarella democratica e maneggioni di pura epoca benalista: un politico insofferente alla rivoluzione del pluralismo a vantaggio della vecchia solfa della gestione solitaria del potere, ovviamente camuffata come “ascoltare il popolo, liquidare i politicanti eccetera…”.

Dovremmo fiutare subito le promesse olfattive dell’aspirante tiranno populista. Spigolando sulla disperazione di un Paese in miseria e saccheggiato da una classe politica corrotta e incapace si è costruito, a passo svelto, un potere assoluto a suo immagine e somiglianza. Ben Ali, il grottesco micro tiranno sgambettato dalle sassaiole dei ragazzi di rue Burghiba nel 2011, se fosse ancora vivo, si sarebbe lustrato gli occhi, invidioso di fronte a tanta meraviglia autocratica.

Allora, a guardar bene Saied, dovremmo, noi europei, insaccarlo sveltamente e senza esitazioni nell’elenco dei nemici, da isolare e soffocare: nemici della democrazia, del diritto umano, penale e costituzionale, dell’occidente tutto, con le sue sacrosante impunture legalitarie. Appena un girone sotto Putin, e solo perché le sue possibilità internazionali di nuocere sono, per ragioni di dimensioni, più modeste. Ma in questo campo è la natura del potere tirannico in sé e per sé che deve determinare la condanna, non le sue dimensioni. Noi siamo questo: combattiamo i tiranni, “senza se e senza ma”. Con le dovute eccezioni. E infatti… eccoci qua in delegazione, a scrutare speranzosi l’aggrottar di ciglia del micro raiss con certificati di giurista eccelso e fare intimidatorio, a lusingarlo per lucrarne qualche modesto riverbero di assenso, a riempirgli le saccocce di euro; deprecando, addirittura, la mancanza di “sensibilità” del Fondo monetario che gli vorrebbe imporre condizioni e vincoli, che insolenza! in cambio dell’assegno anti bancarotta.

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La Tunisia gela Meloni e la Ue: no al baratto soldi-migranti

lunedì, Giugno 12th, 2023

dal nostro inviato Francesco Olivo

Una dichiarazione congiunta per poi arrivare a un memorandum. E poi un nuovo strappo del padrone di casa: «Non accettiamo i migranti in cambio di soldi». L’Unione europea si presenta al palazzo presidenziale di Cartagine con un po’ di soldi, 150 milioni di euro per le disastrate casse tunisine, altri 100 per il controllo dell’immigrazione irregolare. Solo in caso di un accordo con Washington l’Ue è pronta ad intervenire pesantemente per evitare il fallimento dei conti pubblici nel Paese mediterraneo.

Dietro al linguaggio diplomatico, ci sono un fatto e alcune incognite. Giorgia Meloni è tornata a Tunisi cinque giorni dopo l’incontro con il presidente Kais Saied, stavolta accompagnata da due partner considerati strategici, in vista del Consiglio europeo di fine giugno che, nelle intenzioni italiane, si dovrà occupare di migranti: la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen e il capo del governo dei Paesi Bassi Mark Rutte. Il presidente tunisino, poche ore prima dell’arrivo dei tre, aveva già messo le mani avanti: «Non saremo la guardia di frontiera di altri Stati». Concetto ribadito in un comunicato diffuso quando gli ospiti avevano già lasciato il Nordafrica: «La soluzione che alcuni sostengono segretamente di ospitare in Tunisia migranti in cambio di somme di denaro è disumana e inaccettabile, così come le soluzioni di sicurezza si sono dimostrate inadeguate, anzi hanno aumentato le sofferenze delle vittime della povertà e delle guerre».

L’incontro avviene lontano degli occhi della stampa, nel palazzo presidenziale di Cartagine i giornalisti non vengono ammessi e le dichiarazioni finali dei tre leader europei vengono diffuse in streaming senza alcuna possibilità di fare domande e nemmeno di poter assistere a strette di mano e saluti, in ossequio a una esplicita decisione della presidenza tunisina. Come già accaduto martedì scorso, Meloni evita poi di incontrare i giornalisti all’interno dell’ambasciata italiana, forse per evitare imbarazzi con ospiti poco sensibili alla libertà di stampa.

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Ucraina, distrutta un’altra diga. “I russi vogliono fermare la controffensiva”

lunedì, Giugno 12th, 2023

Un altro attacco a una diga dopo la distruzione di quella di Kachovka. A denunciarlo sono gli ucraini, in particolare Valerii Shershen, portavoce delle Forze di Difesa del fronte di Tavria, che ha rilasciato una dichiarazione a Ukrainska Pravda. Secondo quanto riferito si tratta di una diga sul fiume Mokri Yaly, nell’Oblast’ di Donetsk, la cui distruzione avrebbe causato inondazioni su entrambe le sponde del fiume. “Sul fiume Mokri Yaly, gli occupanti hanno fatto saltare una diga, che ha portato a inondazioni su entrambe le sponde del fiume. Tuttavia, questo non influisce sulle operazioni offensive delle Forze di Difesa del Fronte di Tavria”, ha detto il portavoce al giornale ucraino. L’attacco si inserisce in una serie di raid mirati a compromettere le strutture idroelettriche per rallentare la controffensiva dell’Ucraina, spiega Shershen.

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Roberto Speranza scioglie Articolo 1 e torna nel Pd di Elly Schlein

lunedì, Giugno 12th, 2023

Pierpaolo La Rosa

È un Partito democratico che sempre di più scivola a sinistra, dopo lo scioglimento di Articolo Uno, la sua trasformazione in una associazione, ed annessa confluenza appunto nel Pd. Una confluenza che arricchisce il già tortuoso sistema di correnti interne dem, quella sancita ieri e l’altro ieri, presso lo stabilimento ex Whirlpool di via Argine, a Napoli, dall’Assemblea nazionale del soggetto politico fondato nel 2017, tra gli altri, da Pier Luigi Bersani e Roberto Speranza. Quest’ultimo ha accolto, ieri, Elly Schlein, con un caloroso abbraccio, il tutto condito da un lungo applauso dei presenti. E la leader Dem ha subito indicato quale sia la direzione da seguire: «La destra fa la destra e noi dobbiamo ricominciare a fare la sinistra, perché questo ci chiedono le persone».

La segretaria del Pd «ha dato sicuramente un orientamento molto più netto sulla questione sociale, sulla difesa della sanità pubblica, della scuola pubblica, del lavoro», ha sottolineato l’ex ministro della Salute, «abbiamo fatto una scelta molto chiara e netta di cui siamo orgogliosi, con Schlein, per costruire un nuovo Partito democratico che parta dalla questione sociale e dal lavoro. È bello che oggi siamo qui in questo posto, che è un posto del lavoro, dove c’è stata una grande battaglia per difendere la dignità delle persone. Il nostro primo atto dentro il nuovo Pd è esattamente venire in questo luogo simbolico». Speranza ha, inoltre, riaffermato le ragioni alla base della decisione assunta da Articolo Uno: «Il punto non è unire pezzi di gruppo dirigente, il punto è recuperare tante persone che hanno perso fiducia nella politica e nella sinistra, perché non hanno trovato la sinistra dove deve stare, dove ci sono le diseguaglianze, dove ci sono le difficoltà e le crisi del mondo del lavoro. Io credo che Elly abbia questa forza, possa portare la sinistra dove la sinistra deve stare».

Una vera e propria dichiarazione d’amore, subito corrisposta dalla leader dem. «Oggi è il giorno di un ricongiungimento familiare. Avremo molto bisogno di voi nella sfida che ci aspetta col Pd, finisce una storia, ma ne inizia un’altra», ha segnalato nel suo intervento Schlein, che ha ringraziato Speranza per avere affrontato «una pandemia sconosciuta a mani nude», e ha poi rivolto parole al miele anche verso Bersani, che l’aveva preceduta sul palco: «Oggi è una grande emozione aver ascoltato quello che è stato il mio segretario, oggi da sua segretaria. Se sono qui, è grazie al tuo e al vostro impegno di questi anni. Non lo scordo, perché in questi anni abbiamo tenuto un punto fermo insieme», l’omaggio all’ex numero uno del Partito democratico. Omaggio ribadito da Schlein in un post su Instagram, suggellato alla fine da un «bentornato».

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La mamma di Kata, scomparsa a Firenze: «Presa da qualcuno che conosceva, ai carabinieri ho detto chi è»

lunedì, Giugno 12th, 2023

di Jacopo Storni

«Lancio un appello a tutti, alla comunità peruviana ma anche a tutti i cittadini di Firenze: è la mia bambina, riportatemela»

Kata scomparsa a Firenze a 5 anni, la mamma: «Presa da qualcuno che conosceva, ai carabinieri ho detto chi è»

Katherine si aggira per il cortile fatiscente dove è stata vista sua figlia per l’ultima volta. Incontra le operatrici dell’associazione Penelope, che lavora sul fronte delle persone scomparse. Scrive il suo nome in stampatello su un foglio, poi parla con i carabinieri. E poi scoppia a piangere, si copre il volto con le mani. Indossa un cappellino nero con la scritta Armani, la visiera abbassata per nascondere gli occhi. Ha un giubbotto di jeans e i pantaloni grigi di una tuta, le scarpe da ginnastica. Esce e rientra nel palazzo. Cammina per le strade del quartiere urlando a squarciagola il nome della figlia scomparsa. Ma nessuno le risponde. E allora piange ancora. Non dorme da oltre 24 ore.

Poco prima di pranzo, ieri mattina, ha un lieve malore e viene trasferita al pronto soccorso dell’ospedale Santa Maria Nuova, dove viene sedata e dove incontra uno psicologo messo a disposizione dai servizi sociali del Comune.

Quando ha visto per l’ultima volta sua figlia Kata?
«Io lavoro come commessa al supermercato Carrefour e sabato mattina l’ho salutata come ogni mattina mentre uscivo per andare a lavorare.
Quando poi sono tornata dal lavoro sabato pomeriggio non ho trovato la mia bambina».

A chi l’aveva lasciata?
«L’avevo lasciata a una amica di cui mi fido».

Chi l’ha vista per l’ultima volta?
«È stata proprio questa mia amica ad averla vista per l’ultima volta, era con la sua figlioletta a giocare, nei corridoi e nel cortile del palazzo. Da quel momento ancora non abbiamo più notizie. Forse me l’hanno portata via, è impossibile che lei si sia persa da sola. Penso che qualcuno che conosceva l’abbia presa. Ho detto ai carabinieri chi possono essere queste persone».

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Alluvione in Romagna, di chi è la colpa

lunedì, Giugno 12th, 2023

di Milena Gabanelli

In Romagna dal 1 al 17 maggio sono caduti 5 miliardi di metri cubi d’acqua, con 32 mila sfollati, 15 morti, 8 miliardi i danni quantificati finora. I modelli climatici stabiliscono che un evento di questa portata si verifica ogni 200 anni. Ce ne sono stati due nel giro di 15 giorni. Vuol dire che la difesa del territorio andrà interamente riprogettata perché non sappiamo cosa ci attende. Nel mentre i romagnoli spalano e cercano di tornare a una normalità, ma non sanno quando ripartirà la ricostruzione perché il Commissario, che la deve gestire, ancora non c’è. L’area colpita vale 10 miliardi di export, 130 mila imprese, 443 mila occupati e 38 miliardi di valore aggiunto. Ma il disastro è solo la conseguenza di un fenomeno estremo o ci sono altre responsabilità? Vediamole una per una.

Il confronto improprio

Mentre la popolazione veniva evacuata con i gommoni, sui giornali e nei talk politici e opinionisti hanno subito fatto il paragone con l’alluvione a Vaia (Veneto) del 2018: «lì sono piovuti 700 mm d’acqua, in Romagna fra i 300 e i 600 mm, ma il Veneto non si è allagato perché aveva costruito i bacini di laminazione, mentre in Romagna solo in parte». Il primo a dire che i due eventi in comune hanno solo il fatto che non si era mai visto nulla di simile è stato proprio il presidente del Vento Zaia. A Vaia il temporale, durato 3 giorni, si è abbattuto in quota (con un uragano che ha distrutto 42 milioni di alberi) dove nascono i grandi fiumi in grado di accogliere molta acqua: il Piave, il Tagliamento e l’Adige, con un canale scolmatore che riversa nel Garda. In Romagna i 500 mm sono caduti in poche ore, in due eventi ravvicinati, sulle colline e su decine di torrenti e piccoli fiumi con difficoltà di deflusso in pianura e le onde dell’Adriatico alte 3 metri a fare da diga. E su un terreno che era diventato cemento dopo due anni di siccità. «Se tutte le vasche di contenimento in progettazione fossero state tutte operative avrebbero potuto limitare un po’ i danni, ma non trattenere quelle quantità» sostengono tutti i geologi e ingegneri idraulici sentiti. Ma quante casse erano operative?

Le opere fatte e quelle da fare

Nella provincia di Forlì-Cesena: due casse sul Fiume Savio, otto sul Ronco; quattro vasche di laminazione nel punto di confluenza del Montone e del Rabbi; sul Montone quattro casse in progettazione e non ancora finanziate dallo Stato. In provincia di Ravenna: due casse sul Fiume Senio e su una il proprietario ha fatto ricorso. Delle 14 opere realizzate a 6 mancano i lavori che consentono la fuoruscita nei periodi di siccità, ma sono da considerare in questo caso tutte operative proprio perché in grado di accogliere acqua. Sempre in provincia di Ravenna, sul Lamone e Santerno, si sta cercando di capire dove farle perché sono aree completamente insediate e, sia le vasche che le casse, occupano spazi che vanno dai 10 ai 30 ettari. Vuol dire espropri di terreni, di attività e indennizzi. Considerando le incertezze dei profondi eventi climatici, chi decide cosa? La Regione programma, il ministero dell’Ambiente dà i soldi in base a criteri di priorità, poi l’attuazione passa in capo all’Agenzia Sicurezza Territoriale e Protezione Civile regionale che delega il suo ufficio provinciale che, a sua volta, deve avere l’ok dal Comune interessato. E qui dipende dagli interessi che ci sono in ballo e dal gradimento dei comitati.

Sviluppo, abusi e condoni

La Romagna una volta era una palude, poi è stata bonificata e sulla ex palude si è costruito lo sviluppo. Dagli anni ‘40 in poi ogni metro quadrato si è trasformato in attività agricola, allevamenti, capannoni e abitazioni. Attorno un reticolo di canali e 26 torrenti che si riempiono quando piove e poi vanno in secca. L’ultima grande alluvione risale al 1939, quando esondò il fiume Senio. Nessuno se la ricorda più, e si è costruito anche dove non si doveva. Un esempio per tutti: proprio sul Senio, a Faenza, 20 anni fa al posto di un capannone che lavorava le pelli è sorto uno bel condominio con 45 garage interrati. A maggio a Faenza si sono rotti anche gli argini in muratura e nella «casa sul fiume» l’acqua è arrivata fino al primo piano. Il cemento è da sempre il motore dell’economia, sostenuto dai condoni sugli abusi. Il governo Berlusconi ne ha fatti ben due, nel 1994 e nel 2003. Nel 2018 il governo Conte 1 (M5S – Lega) vara un altro condono in una zona fragilissima, Ischia, che nel novembre 2022 subisce una frana devastante che provoca 12 vittime. Funziona così su tutto il territorio italiano e, quando si verifica un evento drammatico, la corsa è a scaricare le colpe su qualcun altro. «I disastri arrivano ormai a ritmo accelerato e tutti dovremmo aver capito che ben poco hanno di “naturale”, poiché la loro causa prima sta nell’incuria, nell’ignavia, nel disprezzo che i governi da decenni dimostrano per la stessa sopravvivenza fisica del fu giardino d’Europa e per l’incolumità dei suoi abitanti»: questo scriveva sul Corriere della Sera Antonio Cederna il 3 gennaio del 1973.

La visione unitaria

Nel 1989, dopo tante alluvioni, finalmente una legge nazionale (la 183): il territorio viene diviso in 13 grandi bacini idrografici, ognuno con il proprio Piano, in modo da avere una visione unitaria dei corsi d’acqua e loro affluenti dalla sorgente alla foce. Controllo e interventi sono affidati alle Autorità di bacino, ministeri dei Lavori pubblici e Ambiente. Il principio è questo: la difesa del suolo è compito dello Stato ed è l’Autorità di bacino a stabilire quanta acqua si può prelevare per uso agricolo, quanto e dove cavare sabbia e ghiaia e dove non si può costruire. Alle Regioni resta la competenza per i loro fiumi interni. Contro la parte urbanistica hanno fatto ricorso tutte le Regioni. La Corte Costituzionale li ha respinti, ma la sentenza è stata totalmente ignorata. Come sappiamo nell’elezione di un presidente di Regione, Provincia e sindaco di un Comune non c’è arma più potente del piano urbanistico.

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