Lucio Caracciolo
Mario Draghi è stato molto chiaro nel suo discorso a Boston:
l’Ucraina deve vincere la guerra contro la Russia. La sua sconfitta o un
“pareggio confuso” aprirebbero scenari insopportabili per l’Europa e
per il mondo. Il trionfo di Kiev le spalancherebbe le porte dell’Unione
europea e le consentirebbe di mettersi “in viaggio” verso la Nato.
Infine, segnalerebbe alla Russia e ai suoi sostenitori che la stagione
dell’espansione imperiale è chiusa. Per sempre. Su questa base, tocca
dunque definire la vittoria. Che cosa può significare questa parola oggi
per l’Ucraina? In termini strettamente militari, la resa degli ultimi
marinai russi a Sebastopoli dopo avere autoaffondato la flotta. A
conclusione della penetrazione ucraina in Crimea e nelle quattro regioni
annesse e più o meno occupate da Mosca. Bandiera bianca subito
sostituita dal kievano bicolore blu-oro.
Sigillo della
riconquista integrale dei territori invasi dalla Russia, come da linea
fissata da Zelensky dopo che le trattative per un “pareggio confuso”,
avviate dalle parti nel marzo 2022, furono messe nel cassetto da Kiev su
pressione inglese e americana – ammesso che i russi fossero davvero
disposti a firmare la “pace”.
In vista di questo obiettivo,
conviene ricordare che la guerra ha almeno due dimensioni, non
necessariamente parallele: sul piano tattico, i combattimenti fra russi e
ucraini, con questi ultimi oggi totalmente dipendenti dall’aiuto
militare, finanziario e propagandistico americano, molto meno europeo;
su quello strategico lo scontro fra America e Russia. La resa di
Sebastopoli – senza nemmeno un Tolstoj a raccontarla – significherebbe
non solo la vittoria di Kiev su Mosca ma soprattutto il successo
dell’America sulla Russia. Con cambio di regime al Cremlino e probabile
disintegrazione dello Stato russo. Non c’è dubbio che Kiev voglia le due
vittorie. Così come è certo che tutta l’avanguardia antirussa della
Nato, centrata sulla Polonia, ne gioirebbe. Il problema è che Washington
vuole la prima, mentre non pare affatto convinta dell’utilità della
seconda. In ciò seguita in ambito Nato da Francia e Germania per
convinzione strategica, dall’Italia e dal Regno Unito perché schierate
con gli Usa a prescindere, dalla Turchia quale soggetto imperiale
autonomo che contribuisce a tenere in piedi l’antico nemico russo perché
subisca il più a lungo possibile i danni della guerra che volle
scatenare.
Quanto alla vittoria ucraina sul campo, il Pentagono
e la Cia non ci credono, almeno per l’anno in corso. E il prossimo è
ipotecato dalla campagna presidenziale: Biden non intende esporsi alle
bordate repubblicane contro l’impegno in Ucraina, sempre meno popolare
con il passare del tempo. Riguardo alla seconda, gli americani
saluterebbero il tracollo del regime, molto meno le sue probabili
conseguenze. Perché il surrogato di Putin non sarebbe necessariamente
migliore dell’originale. E soprattutto per il rischio molto concreto di
disintegrazione dello spazio russo. Con accompagnamento di guerre civili
all’ombra di seimila testate atomiche e penetrazione della Cina in
Siberia. Nell’establishment americano c’è chi sostiene valga la pena
accettare il rischio. Ma la maggioranza resta affezionata alla “dottrina
Eisenhower” fissata nel 1953, per cui non c’è nulla di peggio della
vittoria totale in una guerra totale contro Mosca. Perché implica lo
scontro atomico. E perché il vincitore avrebbe la scelta fra occupare e
gestire il vinto – con ciò scadendo a classico impero-caserma, contro la
sua natura liberale – o lasciare che se ne occupi, a suo modo, il
super-nemico di oggi e di domani: la Cina. La divaricazione strategica
fra Kiev e Washington è cartografata nella mappa della Russia spartita
che il capo del controspionaggio ucraino, generale Kyrylo Budanov,
esibisce alle spalle del suo tavolo di lavoro. Con mezza Siberia
assegnata alla Cina, massimo rivale del suo maggiore sponsor.
Alla
vigilia dell’invasione Biden aveva fissato il limite del sostegno
americano all’Ucraina: «Gli Stati Uniti non vogliono fare la guerra alla
Russia». Principio cui non ha abdicato. Con l’aggiunta di un codicillo:
se Putin intende fare una “incursione minore”, sopporteremo. Purché si
fermi lì. Due affermazioni che oggi si svelano troppo impegnative, se
non imprudenti. La seconda, meno rilevante, perché rivelatrice del
retropensiero per cui gli ucraini avrebbero dovuto subìre la “incursione
minore” (tradotta estensivamente in putinese quale “operazione militare
speciale”, ovvero golpe armato a Kiev) per consentire ai grandi un
pareggio non troppo confuso. La prima, fondamentale, perché togliere dal
tavolo la tua pistola alla vigilia dell’aggressione russa, e confermare
in guerra di non volerla usare lasciando che lo facciano gli ucraini
finché gli darai le pallottole per caricarla, significa mettere in conto
la non-vittoria, se non la sconfitta, di chi combatte anche per te e
per i tuoi valori. Sicché oggi, mentre Kiev si sta dissanguando anche
per l’America e per l’Occidente, Washington si dissocia dalle incursioni
minori in Russia di commandos collegati all’Ucraina e da analoghi atti
“terroristici”, compreso il lancio di missili e droni verso il
territorio della Federazione Russa.