Le “casette” a L’Aquila salvano gli sfollati di Amatrice
Cade la neve su Amatrice, cade lieve sulle macerie e non fa rumore, mentre va a posarsi nel ventre della terra squarciato dal sisma.
Sono ancora oltre 11 mila gli sfollati, assistiti dalla Protezione Civile, dopo i terremoti che hanno devastato il centro Italia, tra agosto e ottobre dell’anno che se ne va. Per loro la normalità non è arrivata con queste feste. E non arriverà ancora a lungo. Più di mille persone continuano a vivere nei palazzetti, nei centri polivalenti, nelle aree attendate allestite nei Comuni. Quasi trecento le persone collocate fra container, moduli abitativi prefabbricati rurali emergenziali e camper allestiti in questi mesi. In questi giorni in cui neppure le temperature rigide hanno pietà, per quella gente a cui il terremoto aveva già tolto tutto, a fare più indignare dell’incapacità di gestire il disagio è l’ipocrisia di una classe politica vittima cieca della sua stessa arroganza. La memoria corre veloce al 2009, al dramma de L’Aquila e ai cento giorni che occorsero al governo Berlusconi per consegnare le famose «casette», come tutti le conoscono.
5.653 abitazioni, 4.449 in muratura, 1.204 in legno per circa 25mila sfollati. La sinistra, allora, accusò il premier Berlusconi di voler costruire una «città ghetto», del rischio che diventassero soluzioni definitive, di non avere a cuore la ricostruzione del centro storico del capoluogo abruzzese. Sette anni dopo, quella soluzione è stata presa ad esempio da Matteo Renzi, nel piano previsto per la ricostruzione di Norcia e Amatrice. Peccato per la celerità, sarebbe bastato prendere a esempio anche quella, invece di lasciar trascorrere cinque mesi – con l’inverno e la neve di mezzo – prima di consegnare (a gennaio, forse) le prime casette di legno adatte alle temperature della montagna. Ma c’è di più. Quasi quattrocento persone, dopo i sismi di agosto e ottobre del centro Italia, hanno trovato collocazione nientemeno che negli alloggi del piano «Case» e nei «Map» (i moduli abitativi provvisori) de L’Aquila. Proprio quelli voluti da Berlusconi e da Bertolaso. È questa, la parte della storia che non si racconta. Non si è detto dei centinaia di appartamenti tutt’ora perfettamente funzionanti ed efficienti. Tanto da resistere indenni ai sismi di agosto e di ottobre. Si è preferito, dopo Amatrice, trasferire gli sfollati a centinaia di chilometri da casa, per esempio a San Benedetto del Tronto, investendo sulle strutture ricettive sulla costa, invece di sfruttare i moduli abitativi del territorio aquilano, già a disposizione dello Stato, a soli quaranta chilometri dal reatino. Quelle «new town», i 19 moduli attorno al capoluogo abruzzese, sono ancora oggi un’oasi di vita in una città fantasma che stenta a ripartire. Ammettere che ciò che allora fu fatto per l’Aquila è stato un modello da prendere come esempio, costava fatica. Come costa fatica, oggi, ai tanti aquilani, che vivono ancora nelle «casette» e che non hanno alcuna intenzione di lasciarle, mandar giù l’ipocrisia di una sinistra, di un governo, di una classe politica che non è riuscita a fare di meglio, quando è toccato a lei. Il tempo è galantuomo, ma non con tutti.
IL GIORNALE