Le rimozioni pericolose sulle regole dell’Europa
Il 7 febbraio del 1992 venne firmato ufficialmente, nella cittadina olandese di Maastricht, il trattato sui criteri economici per essere ammessi alla Comunità europea, vincolanti poi nell’Unione monetaria. I membri erano solo 12. Tedeschi e olandesi, assai freddi sulla prospettiva di una moneta unica, imposero l’osservanza di regole inizialmente rigide temendo di dover condividere in futuro i debiti degli altri. Paura ancora attuale. Quegli accordi sono stati via via modificati e integrati ma i parametri base — il 3 per cento sul deficit e il 60 per cento sul debito — sono entrati nel lessico quotidiano come esemplificazione numerica dei limiti europei. Espressione del rigore necessario per i Paesi nordici, mordacchia indigeribile per quelli mediterranei. L’inflazione allora era temuta al rialzo e così i tassi d’interesse di valute nazionali.
Oggi la situazione è semplicemente opposta. Era un altro secolo, un altro mondo e ci si interroga se quell’impianto, certamente fragile e incoerente, sia ancora attuale. La crisi però è anche il risultato di regole non rispettate. E di questo si parla poco.Romano Prodi, quando era presidente della Commissione europea, in una intervista a Le Monde, definì il patto di stabilità «stupido ma necessario» perché andava applicato con intelligenza e flessibilità e governato da un’autorità che allora, come oggi, non c’è.
Guido Carli, che al momento della firma era ministro del Tesoro, scrisse che a Maastricht veniva tracciato un confine tra Stato e cittadini, a favore di questi ultimi che non sarebbero stati più chiamati a finanziare, con i loro risparmi, disavanzi di bilancio ed eccessi di spesa pubblica. Citò il Faust di Goethe, Mefistofele che suggerisce al Principe di stampare moneta, senza badare alla quantità. Nel più prosaico lessico dei giornalisti, che all’epoca seguivano gli affari europei, Maastricht venne ricordata per un’intossicazione alimentare collettiva che produsse un generale mal di pancia. I pasti erano indigeribili, il patto lo sarebbe stato più a lungo.
Nell’impianto originale di Maastricht — che superò i referendum francesi e danesi — vi erano alcune indubbie incongruenze. L’ambiguità di chi era costretto ad esserci pur non volendolo (la Germania). L’ambizione di chi non voleva essere escluso sperando che un vincolo esterno avrebbe cambiato le abitudini della politica e del Paese (l’Italia). Contraddizioni rimaste nel tempo che si ripropongono oggi sotto altra forma. È caduta invece l’illusione che attraverso la moneta unica si possa arrivare a un’unione politica. Un’intuizione nobile ma elitaria, peraltro sanzionata subito dagli osservatori più critici dell’Unione monetaria. Il premio Nobel dell’Economia Milton Friedman scrisse nel 1997 che senza un vero Stato alle spalle e una sola politica fiscale, la valuta unica avrebbe prodotto la divisione dell’Unione. Profezia che, riletta alla luce del disprezzo di Trump per l’Europa, fa venire brividi supplementari ma dovrebbe suscitare — come ci auguriamo — qualche salutare reazione difensiva.
Nel suo anno più difficile, dopo lo choc della Brexit, l’Unione affronta un ciclo elettorale denso di incognite. In Italia non sappiamo quando voteremo, meglio alla scadenza naturale della legislatura e con una legge elettorale dignitosa e non suicida, ma la campagna è già in corso. Scomposta. L’Europa è bersaglio dei sovranisti, ma anche di esponenti della maggioranza che si illudono di arrestare l’onda populista replicandone i toni. Forse, l’unico modo di contrastare, sul piano delle idee concrete, questa spinta distruttiva, sta nel coraggio di rilanciare l’iniziativa europea. Dare risposte concrete a bisogni reali. Il rapporto sulla riforma del bilancio europeo, voluto da Commissione, Consiglio e Parlamento, scritto dal gruppo presieduto da Mario Monti, è sul tavolo del commissario Günther Oettinger. Non prevede nuove tasse, bensì ipotesi su come finanziare beni e progetti comuni, come la difesa e la sicurezza, la lotta al terrorismo, la gestione dell’immigrazione.
Le regole europee sono soggette a forti critiche, a volte giustificate, e a diffuse amnesie. In Italia ci scordiamo che al tempo di Maastricht l’impegno era quello di convergere, nella regola del debito, verso il 60 per cento. Il governo Renzi aveva promesso di ridurre significativamente il rapporto con il prodotto interno lordo che invece rimane al 132 per cento. Il tema è stato colpevolmente rimosso per anni dal dibattito pubblico. Forse perché, grazie alla politica monetaria della Bce, lo finanziamo come se fosse quello tedesco. Il Quantitative easing (Qe) è anche un anestetico o meglio un metadone. Gli arcigni censori di Berlino dimenticano, a loro volta, che nel 2003 la Germania e la Francia non rispettarono la regola del deficit. L’Italia, allora presidente di turno e con ministro dell’Economia Giulio Tremonti, decise di bloccare ogni sanzione, nonostante la Commissione, guidata da Prodi, avesse proposto l’inizio di una procedura d’infrazione. Tanto è vero che poi la delibera del Consiglio venne deferita alla Corte di Giustizia europea. Berlino dette un pessimo esempio ma, in appena quattro anni, tornò al pareggio di bilancio.
Maastricht ha fatto il suo tempo? Il dibattito è aperto. Certo, dopo la crisi del 2007 le divergenze fra le economie dell’eurozona sono cresciute. Armonizzarle è impresa ardua. Le rigidità possono avere effetti recessivi. La domanda, soprattutto di investimenti, è debole. Angela Merkel ripropone un’Europa a due velocità. Le cooperazioni rafforzate vanno in questa direzione e fanno parte della storia, ormai sessantennale, dei trattati europei. Ma proviamo ad immaginare per un attimo, come vorrebbero i più accesi critici di Bruxelles, che le regole (in deroga alle quali abbiamo comunque avuto 19 miliardi in due anni) spariscano di colpo. Le leve del bilancio, come d’incanto sovranista, tornino tutte nelle nostre mani. E che cosa facciamo? Ci mettiamo a spendere allegramente tornando a deficit del 10 per cento come nei «favolosi» anni Ottanta nei quali abbiamo compromesso le prossime generazioni? Faremmo per il nostro Paese quello che non accetteremmo di fare mai per le nostre famiglie? Un extra deficit temporaneo può essere salutare se si privilegiano gli investimenti e non si ingrossa la spesa improduttiva.
Ma questa visione antipaticamente austera non sembra animare i propositi dei fautori delle briglie sciolte. Prima di Maastricht nessuno si preoccupava della crescita impetuosa del debito. Si emettevano Bot e via. In ogni caso, i limiti non salterebbero del tutto. Ce li darebbe, senza flessibilità, il mercato finanziario al quale chiediamo, solo quest’anno, circa 450 miliardi per rifinanziare il nostro debito, per circa un terzo in mani estere. La ritrovata libertà sarebbe, dunque, un’amara delusione. Pagata a caro prezzo. Un Paese troppo indebitato non cresce più. Come accade per le aziende in analoghe condizioni: il rapporto di leva nel privato in Italia è doppio di quello tedesco. Inutile girarci intorno. E nemmeno Mefistofele, con un debito fuori controllo, può venirci in aiuto.
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