Il ribaltamento pedagogico che rovina la nostra lingua
Ha un che d’involontariamente paradossale l’iniziativa che la Ministra dell’Istruzione Valeria Fedeli ha preannunciato domenica sul Corriere della Sera come risposta al pessimo stato della conoscenza della lingua italiana riscontrabile nella grande maggioranza degli studenti, e appena denunciata da alcune centinaia di docenti universitari. È un’iniziativa tutta iscritta nel ricordo di Tullio De Mauro. «Un ricordo attivo — precisa la ministra — non la memoria muta», e cioè «attraverso lo studio dei suoi scritti»: «partendo dalla lezione di De Mauro chiederemo di capire come tradurre in azioni didattiche concrete l’esigenza di accrescere la padronanza linguistica di studentesse e studenti». Un’iniziativa involontariamente paradossale, ho detto, perché forse la Ministra non sa (e del resto non è tenuta a saperlo: forse invece qualche suo collaboratore sì) che se da due, tre decenni le competenze linguistiche dei giovani italiani si stanno avviando verso la balbuzie twittesca qualche responsabilità, e non proprio minima, ce l’ha avuta proprio anche Tullio De Mauro.
Il quale è stato senz’altro una «figura illustre», come scrive la Fedeli, ma come accadde a molti altri, a partire dalla metà degli anni Sessanta e per almeno tre o quattro lustri fu travolto dal radicalismo politico-ideologico dell’epoca. Un radicalismo che lo portò a sostenere sulla materia di cui si sta dicendo opinioni devastanti e destinate a non restare certo senza effetto dal momento che si sposavano con l’aria dei tempi e perché proprio l’autorevolezza dello studioso che le faceva proprie valeva ad assicurare loro una larghissima diffusione. Valga un piccolo campione: quando alla metà degli anni Settanta, per esempio, De Mauro auspicava «un ribaltamento in senso democratico della pedagogia linguistica tradizionale», la quale «fin nell’insegnamento innocente dell’ortografia — scriveva — obbedisce a un disegno che è un disegno politico, obbedisce cioè al disegno di verificare il grado di conformazione dei ragazzi che passano nelle scuole ai modi linguistici delle classi dominanti». Rivendicata perciò «la dignità dell’inventività, dell’informale, rispetto all’ossequio agli stilemi della lingua scritta», egli ribadiva che «cose innocenti come le scempie e le doppie, scrivere o non scrivere provincie con la i (…) queste cose sono tutte insieme come i topolini della Peste (si riferiva al romanzo di Camus citato poco prima): sono portatori di un virus molto pericoloso. È il virus che uccide spesso irrimediabilmente la capacità di parlare liberamente (…) ma spinge a cercare di essere graditi ai rappresentanti delle classi dominanti, essere omogenei in tutto, fin nei puntini sugli “i” , a ciò che essi desiderano».
Via dunque, aggiungeva, quelle «inutili scorie» dei registri e dei voti individuali, via «lo studio come acquisizione individualistica di nozioni che consentono di emergere nella competizione sociale», che poi non è altro che «una forma di studio che fa diventare “amici del padrone”». Con gli anni pure De Mauro ci ripensò. Anche se a quel che mi consta non trovò mai il modo di tornare su quanto aveva scritto e sostenuto in precedenza. Che nel frattempo, però, era diventato in larga misura suggestione potente per generazioni d’insegnanti, una sorta di ideologia di fondo dell’intera scuola. Producendo alla fine l’auspicato «ribaltamento in senso democratico della pedagogia linguistica tradizionale» che è sotto i nostri occhi. Per porre rimedio al quale non si vede proprio a che possa giovare evocarne uno dei lontani artefici.
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