L’Europa senza identità che rinuncia a storia e valori
Troppo spesso accadono in Europa cose che fanno pensare a un’inspiegabile volontà di suicidio, il cui significato sembra essere solo un cupo desiderio di autoannientamento. Ho in mente ad esempio due episodi recenti, debitamente riportati dai giornali (uno anche dal Corriere e abbastanza diffusamente), ma passati sostanzialmente inosservati. Quasi si trattasse di due insignificanti fatterelli di cronaca.
Il primo episodio riguarda il Real Madrid, la celebre squadra di calcio spagnola. I cui dirigenti, abbiamo letto, volendo stipulare un contratto con una società degli Emirati per la commercializzazione in quell’area di prodotti con il marchio della propria squadra (incasso previsto 50 milioni di euro), ma consapevoli d’altra parte, così hanno detto, che «ci sono alcuni luoghi sensibili ai prodotti che mostrano la croce», non hanno trovato di meglio che togliere la croce dalla corona che fino a ieri campeggiava sul simbolo storico della loro società.
Il secondo episodio è avvenuto invece a Parigi. Qui, all’inizio di febbraio, nella prestigiosissima sede del centro di ricerca di Sciences Politiques è stata annullata all’ultimo momento la conferenza che doveva tenere David Satter, un ex corrispondente in Russia delFinancial Times, sull’argomento del suo ultimo libro: il cui titolo, Meno sai e meglio stai: la via russa al terrore e alla dittatura sotto Yeltsin e Putin, non sembra richiedere molte delucidazioni. Motivo accampato dalla direzione (smentito però da un gran numero di esempi passati): la mancanza di un contraddittorio ufficialmente previsto.
Nel primo caso, dunque, il potere del denaro, nel secondo il potere e basta (con l’uso spregiudicatamente intimidatorio che è abituato a farne il Cremlino). Nel primo caso l’avidità, nel secondo la paura. Da una parte tutto questo e dall’altra due istituzioni assai diverse tra loro — un club di calcio e un’università, la massa e l’élite — ma proprio perché così diverse rappresentative dell’insieme cui entrambe in realtà appartengono. L’insieme di vicende, di storie, di tradizioni, di eccellenze, di valori, anche di realtà nazionali, che sommate e intrecciate tra loro hanno fatto nel tempo l’Europa quella che è. O forse bisognerebbe dire l’Europa che è stata. Quell’Europa cioè che era animata dalla consapevolezza della propria assoluta peculiarità non disgiunta da un sentimento di orgoglio per i traguardi straordinari — in tutti i campi: dalla scienza al benessere materiale all’emancipazione delle persone — che quella peculiarità era stata capace di raggiungere.
È vero: anche a prezzo di ingiustizie e dolori non solo al proprio interno ma specialmente inflitti ad altri popoli. Ma che cosa mai è stato costruito di durevole nel corso dei millenni da qualunque altra civiltà, da qualunque altra grande costruzione politico-culturale, che potesse dirsi immune dalla medesima obiezione? Salvo prova contraria, però, solo quella che ha visto la luce in questa parte del mondo è riuscita a conseguire risultati di progresso e di libertà potenzialmente fruibili da tutti, e infatti prima o poi da tutti emulati, perseguiti, imitati. Cancellare la croce (e poi per cosa? per mettere le mani su 50 milioni di euro!), impedire la libertà di parola per non dispiacere al vendicativo padrone della Russia, significa precisamente rinunciare all’intera vicenda che ha portato ai non spregevoli risultati di cui sopra. Significa rinunciare alla propria storia, alla propria identità.
Ma è per l’appunto questo ciò che da qualche decennio sta accadendo nelle nostre società. Dove gli orientamenti prevalenti nei mass media, nell’opinione «illuminata», nell’intellettualità più influente, nell’intrattenimento colto ma anche in molti sistemi scolastici (basti pensare ai programmi delle scuole italiane) si sono abituati a considerare la dimensione identitaria come una dimensione da esorcizzare. L’identità è apparsa qualcosa che legando al passato avrebbe portato con sé qualcosa di oscuramente atavico. Qualcosa che avrebbe condotto inevitabilmente al pregiudizio etnico, ad una compiaciuta autarchia culturale ostile al progresso, all’esclusione più o meno persecutoria di ogni diversità. Ha avuto in tal modo via libera una modernità culturale tanto superficiale quanto pervasiva, indifferente quando non ostile verso ogni valore consolidato.
Di un tale orientamento anti-identitario dal sapore vagamente nichilistico la principale vittima è stata il passato, cioè la storia (anche la religione, ma qui il discorso dovrebbe essere in buona parte diverso e spingersi in ben altre direzioni). E ci ha messo del suo, complice giuliva quanto inconsapevole, pure l’Unione Europea con la sua Commissione. Infatti quest’ultima, non solo non ha compreso che anche al fine dell’auspicata trasformazione della stessa Unione in un vero soggetto politico bisognava cercare di favorire a livello di massa la formazione di un’identità europea; ma neppure ha capito che a tal fine la conoscenza della storia del continente, della sua grandezza e delle sue contraddizioni, del multiforme significato ideale della sua vicenda, erano strumenti indispensabili. Ha preferito invece muoversi in tutt’altra direzione. La burocrazia dell’Unione e i gruppi politici nazionali in essa dominanti — entrambi subalterni ai tic e ai tabù del mainstream culturale — hanno deciso che non già la storia ma il diritto, anzi «i diritti»!, dovevano essere l’insegna di Bruxelles. Non la concretezza del passato iscritta dappertutto nella vita del presente ma l’astrattezza formale dei diritti e dei doveri. Non la memoria che lega tra loro gli individui in un organismo orientato ai valori ma il rapporto pattizio tra i singoli in vista del rispetto delle regole necessarie alla tranquilla convivenza. Non l’identità ma l’universalità. Questa è la strada imboccata da tempo dall’Europa. Dove ci sta portando cominciamo a vederlo: all’abdicazione delle élite e alla protesta rabbiosa delle masse.
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