Se il problema dei migranti è non chiamarli “clandestini”
L’anti-dizionario del politicamente corretto da oggi contempla una nuova parola. La grammatica della neolingua evolve in maniera inflessibile e inesorabile.
Occorre adeguarsi. Nel Mondo Nuovo dell’utopia negativa sono i vocaboli che cambiano la società, non la società che usa i vocaboli.
Da questa mattina è vietato usare il termine «clandestino». Lo richiede, anzi lo impone, una lettera aperta pubblicata ieri su Repubblica – organo ufficiale del pensiero unico egualitario – da un gruppo di vigilantes della psicopolizia linguistica, un Politburo interdisciplinare composto da politici, intellettuali, uomini di spettacolo (tra cui Luigi Manconi, Nicola Lagioia, Alessandro Bergonzoni), che denuncia come nel «Memorandum d’intesa sulla cooperazione nel campo del contrasto all’immigrazione illegale» sottoscritto dall’Italia e dal governo di riconciliazione libico compaia più volte «come sinonimo di migrante non regolare», il termine «clandestino». La parola – come strilla il titolo della lettera aperta – va cancellata. Perché? Perché il termine è «giuridicamente infondato»; perché «contiene un giudizio negativo aprioristico, insinuando l’idea che il migrante agisca al buio, come un malfattore» (che invece è solo una inevitabile conseguenza dell’etimologia, derivando «clandestino» dall’avverbio latino «clam», «di nascosto», indipendentemente da qualsiasi giudizio di valore, ndr); perché «suggerisce un’immagine dell’immigrato come nemico». Ecco l’utopia al negativo. Convincersi che la sostanza di un pericolo, o di una diseguaglianza, o di una ingiustizia, possa migliorare sostituendo semplicemente la parola che la indica. È noto: cambiare un termine del dizionario di uso comune è molto più facile che educare il cittadino a mutare un habitus mentale.
Ci risiamo. Il Grande Fratello che vuole normalizzare l’uso del linguaggio nel nome del totalitarismo ideologico non dorme mai. Ora è nel mirino la parola «clandestino». Eliminiamola, ci dicono i fanatici del grammaticalmente corretto, e il problema si risolverà più facilmente. «Clandestino» non va bene. È offensivo. È scorretto. È una parola che indica il male. Non chiamiamolo clandestino: usiamo «richiedente asilo», o «rifugiato», o «vittima della tratta», o «migrante», e se il modo in cui è entrato in un altro Paese è illegale (nel cassone di un tir, o nella stiva di un barcone, di solito al buio, di nascosto, e forse è per questo che si una il termine clandestino), al limite scegliamo l’espressione «emigrato irregolare». Meglio ancora: giochiamoci una litote. «Non regolare». Più soft.
La lettera aperta dello Stato Maggiore della Lingua Unica di Repubblica è troppo poco. Serve un Protocollo generale contro le dissimmetrie grammaticali e sintattiche da fare adottare alle amministrazioni pubbliche, agli iscritti all’Ordine dei giornalisti, nei documenti ufficiali.
Attenuare, cassare, sfumare, cambiare. Sono i modi grammaticali prediletti dalla neolinguistica democratica. Coniare nuove parole che introducono concetti migliori e cancellare vecchie parole per modificare visioni del mondo sgradite. Se si abolisce una parola che «insinua» una infrazione della norma e la si sostituisce con una neutra, sarà più semplice cambiare la legge e normalizzare l’infrazione. Questo come obiettivo massimo. E, come minimo, scaricando il peso semantico da un termine all’altro (la casistica è infinita: negro-nero, gay-omosessuale, donna delle pulizie-colf, mamma e papà – Genitore 1 e Genitore 2…), avremo rinfrancato la coscienza e rispettato la privacy. Gli emigrati irregolari continueranno ad arrivare schiacciati sul fondo delle carrette del mare, o legati sotto il rimorchio dei camion, ma almeno non li avremo offesi. Grammaticalmente il ragionamento non fa una piega.
IL GIORNALE
This entry was posted on giovedì, Febbraio 9th, 2017 at 09:39 and is filed under Immigrazione. You can follow any responses to this entry through the RSS 2.0 feed. You can skip to the end and leave a response. Pinging is currently not allowed.