Il samurai di Fiume

Harukichi Shimoi

andrea cionci
 

A Milano si è chiusa, ieri, l’ultima edizione del Festival dell’Oriente, una grande kermesse internazionale volta a far conoscere ai visitatori italiani (e non solo) lo sconfinato mondo delle tradizioni orientali: dalle arti marziali alla musica, dalla poesia, fino, naturalmente, alla gastronomia.  Ma c’è un personaggio, che – ci permettiamo di suggerire agli organizzatori – potrebbe essere riscoperto per la prossima edizione, dato che fu un assoluto precursore dello scambio culturale fra Italia e Giappone. Si tratta di Harukichi Shimoi, “il Samurai di Fiume”, poeta, letterato, docente universitario e traduttore di Dante e di D’Annunzio, fu persino l’organizzatore della prima trasvolata Italia-Giappone. Per quanto fosse molto piccolo di statura, aveva un coraggio indomabile e, nel 1917, durante la Grande guerra, si arruolò volontario nelle truppe scelte dell’epoca, gli Arditi, combattendo sul Carso e insegnando il karate ai propri commilitoni.

 

Harukichi Shimoi in divisa da Ardito (Gentile concessione de Il Vittoriale degli Italiani)

 

In Italia è stato completamente dimenticato, ma non nella sua patria d’origine, come spiega Giordano Bruno Guerri, Presidente della Fondazione Il Vittoriale degli Italiani: “In Giappone, Shimoi è molto noto fra gli studiosi e le persone di cultura. Io stesso, nel 2014, presi parte a due convegni su di lui, a Tokyo e a Kyoto. La letteratura italiana trasferita da Shimoi nel Sol levante ha lasciato un segno profondo nella cultura giapponese tanto che Yukio Mishima conobbe D’Annunzio per suo tramite e, innamoratosi del poeta abruzzese, decise di imparare l’italiano per leggere le sue opere in lingua originale. Imparò così bene la nostra lingua, tanto da tradurre in giapponese, poi, Il Martirio di San Sebastiano (opera di D’Annunzio del 1910-’11 n.d.r.)”.

 

Harukichi Shimoi era nato Fukuoka nel 1883 da un’antica e nobile famiglia di samurai, e, dopo gli studi in patria, si era trasferito in Italia, trentaduenne, per studiare Dante e insegnare la sua madre lingua all’Istituto Orientale di Napoli.

 

Harukichi Shimoi in divisa da Ardito (Per gentile concessione Il Vittoriale degli Italiani)

 

Poco si sa di come avvenne il suo incontro con il Vate, ma la loro amicizia scoccò sicuramente sotto le armi, mentre i due si trovavano al fronte per dare prova – mettendo a rischio la loro incolumità fisica – di credere fino in fondo all’ideale estetizzante del “poeta guerriero”.

 

Il terreno era fertile per la nascita di questo sodalizio: già durante la sua giovinezza romana, infatti, Gabriele D’annunzio si era innamorato della cultura nipponica, tanto che il Vittoriale è ancor oggi colmo di “giapponeserie”: porcellane, stoffe, kimono, soprammobili etc.

 

Sono tante, e coinvolgenti, le lettere che Harukichi Shimoi scrisse, in perfetto italiano, dal fronte. In esse rivivono le sue avventure, le sofferenze della guerra, con partecipazione profondamente umana e momenti di ispirata poesia: “Massa di gente che si vede vagare nel buio, sul letto vastissimo del Piave veloce – scoppi, cannoneggiamenti, incendi, riflettori che danno di continuo un chiarore sinistro al cielo nero nero – campo zeppo di cadaveri, dove dovevamo passare, muti, calpestandoli […] tutto questo mi sembrava come se m’avessi trovato nell’Inferno di Dante. La solennità, la grandiosità del Poema divino l’ho potuta sentire pienamente in quella sera sul Piave”.

 

Il 3 novembre del 1918, Harukichi Shimoi è fra i primi ad entrare in Trento liberata, con la coccarda tricolore sul petto, e si reca subito a visitare il monumento di Dante: “Mezzanotte era passata, venne la pioggia sottile sottile. Nel cielo oscuro il monumento sorgeva nero e altero. E sul marmo lucido del suo piedistallo si inginocchiò e si inchinò reverente, un piccolo giovane che è venuto dall’Estremo oriente, lasciando lontano i suoi cari, sfidando il mar tempestoso, guidato solo dalle divine parole del Poeta”.

 

Fedele come un vero samurai al suo amico e comandante D’Annunzio, dopo la fine della Grande guerra, lo seguì a Fiume in quell’impresa che ancor oggi, troppo spesso, viene erroneamente identificata come una mera anticipazione della Marcia su Roma, ma che, in realtà, fu un vero esperimento sociale, per certi versi anticipatore delle istanze più rivoluzionarie del ’68.

 

Shimoi fu accolto con entusiasmo dai legionari e di fronte ad essi il Vate pronunciò in suo onore un discorso di benvenuto, augurando un avvenire luminoso al Giappone: “Da Fiume d’Italia, porta d’Oriente, salutiamo la luce dell’Oriente estremo”.

 

Le tappe della trasvolata Roma – Tokyo

 

Per D’Annunzio, il Giappone era, infatti, il luogo dei sogni, la meta inarrivabile per eccellenza tanto che, per raggiungerla, insieme a Shimoi, organizzò, nel 1920, l’impresa del volo Roma-Tokyo alla quale, tuttavia, non poté prendere parte direttamente perché coinvolto nell’impresa fiumana. (C’è anche da ricordare come il Vate soffrisse terribilmente il mal di mare e che un suo primo tentativo di raggiungere per nave il Giappone fu stroncato proprio da questo disturbo. Non a caso aveva promesso a se stesso di raggiungerlo in aereo). Shimoi avrebbe partecipato ugualmente al volo, ma gli ambasciatori giapponesi glielo impedirono: senza il poeta italiano, la sua partecipazione non avrebbe avuto senso.

 

(Il raid venne comunque portato a termine e coinvolse, tra gli altri, i piloti Arturo Ferrarin e Guido Masiero, che furono i soli, tra undici, a giungere a Tokyo. È da ricordare che il solo Ferrarin, con il motorista Gino Cappannini, raggiunse la capitale nipponica dopo 112 ore effettive di volo).

 

 

Trasvolata Roma Tokyo

 

Grandi imprese, ma anche momenti umoristici. Di quelle folli ed entusiastiche giornate fiumane, Shimoi ricorda gli scherzi di D’Annunzio: “Una sera, dopo cena, mi bisbigliò velocemente all’orecchio: “Alzati in piedi e, con voce chiara, affila dieci, venti parole giapponesi, e dì quello che ti pare: buongiorno, arrivederci, grazie. Vedrai che farò sbalordire tutti”. Shimoi recita così frasi slegate, filastrocche, lettere dell’alfabeto e D’Annunzio finge di tradurle all’impronta improvvisando versi su fiori caduti, stille di rugiada e nuvole vaganti, dando a intendere a tutti di conoscere molto bene il giapponese.

 

Giapponeserie di D’Annunzio al Vittoriale

 

Shimoi non fu solo scrittore di lettere, ma anche il latore di quelle del suo comandante. A Fiume, il suo passaporto diplomatico, e i tratti somatici orientali, gli consentirono di aggirare il blocco militare imposto dal generale Caviglia e fare da collegamento tra D’Annunzio e Mussolini (di cui divenne amico) che all’epoca era direttore del Popolo d’Italia e capo dei Fasci di combattimento.

 

Dopo l’esperienza fiumana, aderì entusiasticamente al Fascismo, partecipando alla Marcia su Roma. Questo fu probabilmente fatale alla memoria della sua figura intellettuale, almeno in Italia: il poeta giapponese vedeva nel nuovo movimento la naturale prosecuzione delle istanze risorgimentali. Per quanto riconoscesse nel Fascismo numerosi punti di contatto con l’etica del Bushido, la Via del Guerriero, lo considerava un’esperienza unicamente tricolore, del tutto non esportabile in Giappone.

 

Tornato nella sua terra natale, fu instancabile divulgatore della cultura italiana tanto da promuovere la costruzione di un tempio dedicato a Dante Aligheri, a Tokyo, e da dedicare alle rovine di Pompei una delle sue opere poetiche più note: “Shinto Ponpeo o tou tame ni”. Nel secondo dopoguerra fece amicizia con Indro Montanelli e lo guidò, in Giappone, per diversi suoi reportage.

 

Il cuore di Harukichi Shimoi, ardente di passione per la nostra lingua e cultura, si fermò nel 1954, all’età di settantuno anni. Nonostante l’Italia lo abbia, a torto, o a ragione, dimenticato, proviamo a salutarlo così: “Watashiga ataeta monode juubun des”, la traduzione in giapponese del motto dannunziano “Io ho quel che ho donato”.

LA STAMPA

 

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