Renzi: «Evitiamo la scissione ma no ai ricatti. Non andate, discutiamo»
Matteo Renzi, è ancora possibile salvare il Pd?
«Certo. Il Pd è fatto da milioni di elettori, migliaia di iscritti. Il Pd appartiene al popolo, non ai segretari. Faccio un appello ai dirigenti: bloccate le macchine della divisione. Non andatevene, venite. Partecipate. Le porte sono aperte, nessuno caccia nessuno. Ma un partito democratico non può andare avanti a colpi di ricatti. Apriamo le sedi dei circoli e discutiamo. E, finalmente, torniamo a parlare di Italia».
Lei dice che sarebbe incomprensibile provocare una scissione per il calendario; ma lo stesso vale anche per lei. Perché non fare primarie in autunno e votare tra un anno?
«Perché l’ha chiesto la minoranza, su tutti i giornali, per un mese. Ci sono ancora le petizioni che girano su Internet. E l’ha votato la direzione 107-12: una comunità deve rispettare le regole interne. Abbiamo proposto il congresso a dicembre, e ci è stato chiesto di rinviare. Allora abbiamo proposto la conferenza programmatica, e ci è stato detto che sarebbe stata inutile senza le primarie. Ci siamo attrezzati per le primarie, e hanno detto: o congresso o scissione. Allora abbiamo accettato di fare subito il congresso, tornando alla casella iniziale. E adesso ci dicono che è meglio la conferenza programmatica? Stiamo facendo il congresso perché ce l’hanno chiesto loro. Due settimane fa erano in tv per promuovere la raccolta di firme per chiedere il congresso e adesso chiedono di rinviare il congresso? Basta polemiche, vi prego. Non c’è luogo più democratico del congresso per parlare del futuro dell’Italia».
Ma mentre voi vi dilaniate negli scontri personali — e quando ci si è scontra si è sempre in due —, il mondo va tutto da un’altra parte. Non crede che la scissione spalancherebbe le porte alla destra o a Grillo?
«Appunto. In America c’è Trump, l’Europa rischia di sgretolarsi se vince la Le Pen, i grillini sono alti nei sondaggi nonostante gli imbarazzanti risultati di Roma, Berlusconi e Salvini sono pronti a riprendersi la scena. Domando: chi ci va dai militanti della Festa dell’Unità a spiegare perché si deve rompere il Pd?».
Allora perché non fa lei un passo per evitarla, la scissione?
«Io voglio evitare qualsiasi scissione. Se la minoranza mi dice: o congresso o scissione, io dico congresso. Ma se dopo che ho detto congresso loro dicono “comunque scissione”, il dubbio è che si voglia comunque rompere. Che tutto sia un pretesto. Toglieremo tutti i pretesti, tutti gli alibi. Vogliono una fase programmatica durante il congresso? Bene. Ci stiamo. Martina, Fassino, Zingaretti, hanno lanciato proposte concrete. Vanno bene. Però facciamo scegliere la nostra gente: davvero qualcuno ha paura della democrazia?».
Insomma, quali sono i tempi?
«I tempi non li decide mica il segretario! Tanto meno il segretario uscente. C’è uno statuto. Ci sono delle regole».
Bersani dice che non può più stare nel Pdr: partito di Renzi.
«Non scherziamo. Il Pd non è un partito personale. È più forte dei singoli. Prodi, Veltroni, Bersani, Renzi: i leader passano, il Pd resta. Ma essere un partito democratico significa accettare anche il dibattito. Il confronto. La democrazia interna. La minoranza deve sentirsi a casa. Ma sentirsi a casa non significa che o si fa come dicono loro o se ne vanno».
Ma lei quando si voterà sarà candidato premier? O potrebbe davvero lasciare il passo a Delrio o allo stesso Gentiloni?
«Non so se e quando tornerò a Palazzo Chigi. Lasciarlo mi è costato molto, ma era giusto e doveroso. Ho perso il referendum e mi sono dimesso da tutti gli incarichi, caso più unico che raro per un politico. Ma non posso dimettermi da italiano. E non voglio. Ci si dimette da una poltrona, non ci si dimette dalla speranza che tutti insieme vogliamo portare avanti. Milioni di italiani chiedono una politica che non sia solo contro qualcuno. Che non sia solo contestazione, ma sia fatta di proposte. Io ci sono e sono in campo. Con umiltà e tranquillità. Ma anche con coraggio e determinazione. Siamo in tanti. Milioni di persone. Non sufficienti a vincere un referendum, d’accordo. Ma in grado di cambiare tante cose. E non rinunceremo a farlo».
Umiltà? È sicuro di non avere nulla da rimproverarsi? Il suo indice di gradimento è in calo, forse perché da l’impressione di cercare una rivincita dopo il referendum, di usare toni arroganti.
«Ho passato due mesi a fare autocritica. Chi mi dipinge come uno assetato di rivincita non mi conosce: voglio solo che chi crede in una politica diversa non si senta abbandonato, altrimenti sarei già andato a fare altro. Vivo una fase bellissima. Chi mi stava vicino per interesse si è allontanato. Sto leggendo, studiando, imparando tante cose. Viaggio e parlo con i cittadini comuni, cosa che chiuso nel Palazzo non potevo più fare. Sto coltivando i progetti che ho sempre avuto nel cuore, dalle startup all’università. Ho più tempo per me e per i miei. Ho servito il mio Paese per tre anni, dopo aver guidato la mia città per cinque: non posso chiedere di più».
Quindi? Quando si va a votare?
«E chi lo sa? La data del voto interessa solo gli addetti ai lavori. La gente vorrebbe sapere cosa pensiamo di tasse, burocrazia, lavoro, infrastrutture, innovazione. Non è interessata al quando, ma ai contenuti. Non sarò io a decidere la data, non sono più il presidente del Consiglio».
Questo significa che si può arrivare alla fine della legislatura?
«In teoria, certo. In pratica deciderà il presidente della Repubblica, sulla base della situazione politica».
Gentiloni come sta lavorando? Perché ha fretta di mandarlo a casa?
«Ma di cosa parla? Mandarlo a casa? Ma perché queste banalità? Il governo ha una grande responsabilità. Su tutte: gestire bene gli eventi internazionali. A Roma dobbiamo rilanciare per politiche di crescita e contro l’austerity. A Taormina difendere le ragioni di una società aperta, inclusiva, contro la spirale protezionistica. Vedevo i dati di ieri: l’export italiano nel 2016 è cresciuto di oltre l’8%, l’avanzo commerciale sfiora i 52 miliardi. La società aperta è un valore anche dal punto di vista economico, non solo culturale. Diamo tutti una mano all’Italia, diamo tutti una mano al governo. Gentiloni merita il nostro sostegno sempre, non “provvedimento per provvedimento” come sosteneva qualcuno fino a qualche giorno fa».
Siamo proprio condannati al proporzionale? E il premio di maggioranza va dato alla lista o alla coalizione?
«È ovvio che dopo la sconfitta al referendum è molto più difficile garantire un equilibrio tra governabilità e rappresentanza. Del resto lo avevamo detto. Siamo tornati ai riti della prima repubblica. Vediamo se il Parlamento sarà in grado di approvare o no la legge elettorale. Spero di sì. Fosse per me, sarebbe il Mattarellum».
Ma non ci sono i voti.
«Ho fiducia nei parlamentari, possono farcela. La mia priorità adesso non è il Palazzo. È girare l’Italia, scovare talenti da coinvolgere in politica, trovare nuovi modi per aiutare chi è in difficoltà».
Emiliano dice che non ha avuto tempo di riceverlo neppure per parlare dell’Ilva.
«Michele ne dice tante. Sull’Ilva sbaglia bersaglio. Ho fatto tre incontri a Taranto, stanziando più di un miliardo per la città. Ho visto i sindacati, i pediatri, i magistrati. Eravamo in prefettura e c’era anche lui. Poi ci siamo visti venti giorni prima del referendum, a Chigi, noi due. Ma Michele è così, gli voglio bene anche per questo. Dieci giorni fa minacciava le carte bollate per fare il congresso, adesso chiede di rinviare. Però è simpatico».
D’Alema la accusa di essersi messo al servizio dell’establishment e non dei deboli.
«D’Alema nutre nei miei confronti un rancore personale che è evidente. Non voglio più polemiche. C’è stato un tempo ormai lontano in cui lui ha rappresentato la speranza di fare le riforme in Italia: adesso conduce solo battaglie personali. Di solito il suo obiettivo è distruggere il leader della sua parte quando non è lui il capo. Ci è riuscito con Prodi, Veltroni, Fassino. Vediamo se ce la farà anche stavolta. Io spero di no, ma lo decideranno i votanti alle primarie».
L’economia italiana è ferma, e questo non se l’è inventato D’Alema.
«Si può fare di più, sempre. Ma abbiamo preso un Paese in crisi e lo stiamo rimettendo in moto. Quando siamo arrivati il Pil era a meno due, adesso è più uno. Abbiamo 600 mila posti di lavori in più, certificati. L’Expo e il Giubileo sono stati due eventi riusciti nonostante le polemiche. Anche se non cresciamo ancora come gli altri, siamo tornati in campo positivo. Ci sono meno tasse e più diritti, dopo i mille giorni. E nella lotta all’evasione abbiamo raggiunto quasi i 20 miliardi».
Allora perché lei ha perso?
«Ho perso un referendum che doveva essere tecnico e si e trasformato in politico. Ma ci sono milioni di italiani che ci credono ancora. Occhio a sottovalutarne la forza».
E se invece avesse ragione il suo amico Farinetti, che le suggerisce di andare qualche tempo all’estero?
«Voglio bene a Oscar. Ma lui è il primo a sapere che se me ne fossi andato dall’Italia sarebbe stato un gesto egoista e diseducativo. Non lascio l’Italia, combatto per cambiarla. Io non mi arrendo. Sono tornato cittadino tra i cittadini, non sono parlamentare, non ho paracadute. Ma ho energia e grinta. E c’è tanta gente che non si rassegna a pensare che la politica sia solo abbattere il nemico».
In caso di scissione, la gente non capirebbe gli scissionisti, ma non capirebbe neanche lei.
«Continuo a lavorare fino all’ultimo secondo perché la scissione non ci sia. Noi lanceremo le nostre idee, i nostri sogni. A cominciare dal Lingotto, dove discuteremo di cosa ha funzionato e cosa no nel cammino del Pd. Abbiamo scelto il Lingotto, non una Leopolda. E ho chiesto a una personalità come Chiamparino, amico spesso critico, di aiutarci a verificare la profondità della discussione. Ma ora basta discutere di problemi del gruppo dirigente, di simpatie o antipatie. Rimettiamo l’Italia al centro. Parliamo di quelle che La Pira chiamava “le attese della povera gente”. Non delle ansie del gruppo dirigente».
Mentre stiamo parlando, i siti danno la notizia che suo padre è indagato per traffico di influenze, nell’inchiesta Consip che coinvolge anche Luca Lotti.
«Mio padre è già passato da una vicenda analoga tre anni fa. Dopo venti mesi è stato archiviato. Spero che finisca nello stesso modo per questa indagine sul traffico di influenze. Ma in ogni caso, da uomo delle istituzioni, dico come allora che la mia prima parola è di fiducia totale nella magistratura italiana e di rispetto per il lavoro dei giudici. Guai a chi fa polemica, gli inquirenti hanno il dovere di verificare tutto. E fanno bene a farlo».
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