Stati Uniti, Europa e i segnali opposti del presidente Donald Trump
I segnali che la Casa Bianca ha inviato all’Europa negli scorsi giorni sono quasi tutti rassicuranti. Il segretario di Stato Rex Tillerson ha incontrato il ministro degli Esteri russo a Bonn, ma ha avuto anche una lunga e cordiale conversazione a Washington con Federica Mogherini, Alto Rappresentante della Unione Europea per la politica estera. Nel corso di una conferenza stampa a Bruxelles con Donald Tusk, presidente del Consiglio europeo, il vicepresidente degli Stati Uniti Mike Pence ha detto, a nome di Trump, che l’America è «fortemente decisa a continuare la sua collaborazione e il suo partenariato con l’Europa».
Il segretario alla Difesa James Mattis ha esortato i membri della Nato a rivedere il bilancio della Alleanza, ma ha smentito l’ipotesi di una collaborazione militare con la Russia di Putin e ha esortato Mosca a rispettare gli accordi di Minsk sulla Ucraina. Il tono non è quello dell’epoca in cui il presidente era Barack Obama, ma è alquanto diverso dagli interventi pubblici di Donald Trump prima e dopo la sua elezione. Qualcuno pensa che queste revisioni dipendano soprattutto dal cinismo elettorale del Presidente e che preannuncino nuove schiarite, ancora più rassicuranti. Può darsi. Ma vi sono altre circostanze — il bando contro migranti e visitatori musulmani, la campagna contro la stampa «malevola e bugiarda» — in cui il linguaggio del Presidente continua a essere intollerante e provocatorio.
E vi sono persone alla Casa Bianca, fra cui i suoi maggiori consiglieri, che non nascondono i loro connotati razzisti e illiberali. All’origine di queste differenze potrebbe esservi uno spregiudicato gioco delle parti: ai collaboratori che hanno rapporti con il mondo esterno tocca il compito di rassicurare e sopire; agli strateghi della sua politica interna (immigrazione, deregolamentazione di Wall Street, diminuzione delle imposte e progressivo smantellamento della politica sanitaria di Obama) tocca quello di realizzare il programma presidenziale. Quale che sia la risposta a questi dubbi non è tranquillizzante sapere che la potenza più armata del pianeta è guidata da un uomo rappresentato nel mondo da ministri in cui, nella migliore delle ipotesi, è possibile riporre soltanto una limitata fiducia.
Il vecchio ordine internazionale ha urgente bisogno di correzioni e riparazioni. È possibile mettersi all’opera se gli Stati Uniti sono governati da un presidente che sembra immerso in una interminabile campagna elettorale? Esiste un’altra ragione per cui Trump continuerà ad alternare affermazioni contraddittorie. Tutti i presidenti americani hanno critici e avversari, ma questo presidente sa di avere una opposizione che contesta la sua legittimità e spera ardentemente di interrompere il suo mandato con un impeachment: il trattamento che la Costituzione americana riserva ai presidenti colpevoli di tradimento, corruzione e altri reati o trasgressioni. Secondo una indagine recente, ricordata da Nicholas Kristof sul New York Times, gli americani che lo desiderano sarebbero il 46% degli intervistati.
Non è tutto. La elezione di Trump ha indotto molti americani a rileggere un emendamento della Costituzione (il 25 esimo della Quarta sezione, adottato dopo l’assassinio di Kennedy) sulle cause d’interruzione del mandato presidenziale. Fra quelle elencate vi è la possibilità che i maggiori membri del gabinetto presidenziale si accordino per privare il capo dello Stato dei suoi poteri e sostituirlo con il vice presidente. Sembra, a prima vista, la legalizzazione di un colpo di Stato; ma l’emendamento prevede anche che il Presidente si appelli al Congresso e gli chieda se intende confermare con un voto ponderato (due terzi) la decisione del gabinetto presidenziale. Chiacchiere di costituzionalisti frustrati? È possibile. Ma spiegano perché Trump debba guardarsi le spalle e moderare, di tanto in tanto, le sue invettive. Non vuole perdere il proprio elettorato, ma non può continuare a irritare la massa considerevole dei suoi critici. La sola lezione che l’Europa dovrebbe trarre da questi segnali contradditori è quella di andare per la propria strada verso una maggiore unità senza attendere che l’America decida che cosa fare del suo Presidente.
CORRIERE.IT
This entry was posted on venerdì, Febbraio 24th, 2017 at 08:43 and is filed under Editoriali - Opinioni. You can follow any responses to this entry through the RSS 2.0 feed. You can skip to the end and leave a response. Pinging is currently not allowed.