Se la cura diventa malattia

Dicono i numeri che gli appalti gestiti dalla Consip fanno risparmiare mediamente il 24 percento alle casse dello Stato. Tanto che l’ex commissario alla spending review Carlo Cottarelli aveva proposto di estendere quanto più possibile quel meccanismo alle forniture pubbliche. La Consip, società che gestisce gli acquisti centralizzati dello Stato, sta per compiere vent’anni: l’ha voluta Carlo Azeglio Ciampi da ministro del Tesoro di Romano Prodi per mettere con le aste telematiche un po’ d’ordine nella giungla degli appalti. Risparmiando anche un sacco di soldi, perché un conto è comprare cento matite per volta, un conto ben diverso è comprarne centomila tutte insieme. Per non parlare dei maggiori controlli sulla qualità. E soprattutto del contrasto alla diffusione delle metastasi della corruzione, non ultimo dei positivi effetti collaterali impliciti in una centrale unica degli acquisti.

Certo, non mancano neppure le controindicazioni. Che possono risultare anche piuttosto pesanti, come ha spiegato ieri il presidente dell’Anticorruzione. Del resto è intuibile che con una concentrazione eccessiva dell’offerta esista il rischio di «un mercato meno libero», ha denunciato Raffaele Cantone. L’ispezione condotta dai suoi uffici sulla gara precedente, conclusa con l’aggiudicazione dei due terzi dell’intero valore (circa 700 milioni) a due soli soggetti, uno dei quali proprio l’imprenditore arrestato tre giorni fa, aveva già evidenziato questa anomalia sempre reiterata.

Cantone ha sottolineato la necessità di mettere mano allo «squilibrio» nel valore economico dei lotti appaltati, capace di favorire la conquista della fetta più grossa della torta da parte di pochissimi soggetti. Questo perché la Consip ha un ruolo delicatissimo nell’economia nazionale in relazione all’impatto sulla concorrenza, considerati i giganteschi volumi trattati. Oggi questa azienda gestisce acquisti per 48 miliardi di euro, vale a dire oltre metà dei circa 90 miliardi di forniture pubbliche liberamente appaltabili, con la prospettiva di arrivare ben presto a 55 miliardi. Sarebbe dunque igienico tenere il suo ponte di comando il più lontano possibile dalla politica, dai partiti e da scelte personalistiche non adeguatamente ponderate sotto il profilo di capacità, attitudini e competenze. Cosa che non sempre però è accaduta. Ma in un Paese come l’Italia dove il meccanismo delle nomine pubbliche ha sempre funzionato così, purtroppo ci sta.

Quello che invece proprio non ci sta è che un sistema concepito anche per evitare la corruzione scopra il rischio sorprendente di restare inquinato da quel cancro. Speriamo naturalmente che non sia così, e le doverose inchieste della magistratura ci facciano tirare un respiro di sollievo. In caso contrario, si accertino le eventuali responsabilità e queste vengano sanzionate con la massima durezza. Più rapidamente possibile, vista la posta in gioco.

Altrettanto in fretta, però, vanno dissipate le ombre che questa storia ha allungato sulla politica e sul partito che ha in mano il governo del Paese. In particolare la posizione di Tiziano Renzi, il padre dell’ex presidente del Consiglio che ora si candida a riconfermarsi leader del Pd dopo una dolorosa scissione, va chiarita senza alcun tentennamento. Così come il ruolo dei politici di spicco che risultano coinvolti o anche soltanto sfiorati dalla penosa vicenda. Questo nostro Paese non ce la fa davvero più a sopportare la nebbia che avvolge i rapporti spesso inconfessabili fra affari e politica, impedendoci quando votiamo di fare scelte fino in fondo consapevoli. È ora di finirla. Perché sta diventando un problema per la stessa democrazia, il bene più prezioso che abbiamo.

CORRIERE.IT

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