Il piano giudiziario e quello politico

CLAUDIO TITO

N TUTTE le inchieste che riguardano o toccano esponenti politici, esistono sempre due piani di valutazione diversi: quello giudiziario e quello politico. Piani diversi ma non per forza distinti. Le indagini, gli interrogatori, le prove e le controprove. Le responsabilità di tutti gli indagati devono essere stabilite dai giudici.

Si tratta di un percorso che si conclude con il processo. Dovranno essere solo e soltanto i magistrati a stabilire — con la massima rapidità possibile — se l’imprenditore Romeo o Tiziano Renzi, il padre di Matteo, sono colpevoli di qualche reato. La giustizia farà autonomamente il suo corso come è giusto che sia. Questa è la fisiologia di ogni Stato di diritto.

Ma poi c’è il secondo livello. Che individua il suo nucleo su una osservazione: la rilevanza penale non sempre coincide con l’incidenza politica. Questo secondo piano di valutazione ha un carattere che non è determinato, bensì è definito dalle inchieste. Nessuno può far finta di niente quando un ministro della Repubblica e il genitore del principale leader politico del Paese vengono inseriti nei registri di una procura. In quel preciso istante prende corpo la necessità di rispondere al Paese proprio in virtù dei voti ricevuti e richiesti agli italiani, e di quelli ottenuti in Parlamento. L’ex segretario del Pd, allora, dinanzi a documenti ufficiali dei pm che descrivono un contesto opaco in cui si sarebbero mossi parenti e amici — al di là del fatto se quella opacità si configurerà o meno come reato — non può limitarsi a dire di avere fiducia nella magistratura. È scontato che chi ha avuto l’onore di guidare il governo del Paese abbia fiducia nel potere giudiziario. In gioco non c’è solo una sorte processuale. C’è qualcosa di più. L’ex presidente del consiglio ha il dovere di spiegare o almeno di sottoporre ai suoi elettori e ai militanti del Pd un chiarimento.

Per un semplice motivo: in questi mesi il più grande partito della sinistra italiana e anche d’Europa si gioca larga parte del suo destino. Deve affrontare un congresso dopo un’ennesima scissione. Poi deve rendere conto agli elettori con le elezioni politiche. Arriva a questi due appuntamenti con una evidente fragilità. Gli effetti del referendum del 4 dicembre assomigliano ad una eco che si abbatte all’infinito sul Pd. Il governo Gentiloni non gode di una forma migliore. Del resto è l’esito di una sconfitta e viene ancora adesso percepito come una navicella di salvataggio che deve condurre l’Italia e una sinistra ferita verso la prossima tornata elettorale. L’insieme di questi fattori indebolisce ulteriormente il sistema-Paese. E infatti in questo contesto anche a livello internazionale la nostra immagine si appanna sempre più.

Per di più, come in un quadro che sembra disegnato ad arte per spianare la strada ai nuovi populismi della destra nostrana, i Democratici si ritrovano sballottati dai venti di una specie di tempesta perfetta: le inchieste, lo scontro sui vitalizi dei parlamentari, le polemiche sul tesseramento “comprato” e la condanna dell’ex alleato Denis Verdini. Sono tutte tessere di un mosaico che imprigiona il centrosinistra in una sorta di paralisi che la inibisce trasferendo vigore ai demagoghi di turno.

Ma proprio per questo l’inchiesta Consip non può essere affrontata solo come un caso giudiziario. Matteo Renzi è chiamato politicamente a darne conto. A spiegare che non ha nulla a che vedere con quel grumo di affari e tangenti al centro dei sospetti dei magistrati. Che se mai il suo nome è stato utilizzato, è avvenuto a sua insaputa e comunque senza alcuna conseguenza concreta sugli appalti assegnati dalla Consip. Che il padre di un presidente del consiglio non può permettersi il lusso di incontrare e frequentare chiunque.
Perché, appunto, non è in discussione l’esito diPerché, appunto, non è in discussione l’esito di

un processo che non lo riguarda personalmente. Ma la posta è perfino superiore. Quella di non assestare un ulteriore colpo a un Paese sempre più esposto ai tifoni del populismo. Il dovere dell’ex segretario democratico, dunque, è di chiarire e non di restare in silenzio.

REP.IT

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