L’ultima trincea di Matteo Renzi
Un primo Renzi (Tiziano) che va in Procura, per quasi quattro ore nega ogni accusa e dice: «Mai preso soldi, si è trattato di un evidente caso di abuso di cognome». Un secondo Renzi (Matteo) che va in tv per difendere il primo e lo fa, spavaldamente, a modo suo: «Se è davvero colpevole, deve essere condannato più degli altri per dare un segnale, con una pena doppia… Ma i processi non si fanno sui giornali, si fanno nelle aule del tribunale».
È la sintesi di una giornata molto particolare e – se si vuole – perfino penosa per i protagonisti. Ma l’affare Consip non è una semplice «questione di famiglia», coinvolgendo ministri (Lotti), altissimi ufficiali (il generale Del Sette), manager pubblici, faccendieri, imprenditori: e rischia di trasformarsi in un uragano capace di scuotere il governo, avvelenare le primarie del Pd e appesantire ulteriormente un clima che è già da mesi di rissa continua.
A fronte di tutto questo, la linea scelta ieri da Matteo Renzi è stata nettissima: fiducia nella magistratura ma, fino a prova contraria, tutti innocenti. Nessuna concessione, dunque, a ipotesi di dimissioni del ministro Lotti («Del Rio, Boschi, Lotti… Io non scarico i miei collaboratori»), ferma difesa del padre («È già stato prosciolto una volta»), nessun rinvio delle primarie Pd e nessuna valutazione intorno a quel che potrebbe aiutare il cammino già difficile del governo Gentiloni.
Forse era l’unica linea possibile: vedremo se terrà a fronte delle indagini dei procuratori e delle tensioni che agitano un Paese fiaccato e incattivito nel quale più nessuno sembra disposto a credere all’innocenza di qualcun altro.
Certo, per Matteo Renzi la partita è decisiva: ha di fronte, infatti, quella che si potrebbe classicamente definire la battaglia finale. Oggetto di un fittissimo tiro incrociato, deve guardarsi, contemporaneamente, dai nemici dichiarati e dagli amici che gli voltano le spalle: cosa tutt’altro che semplice, con di fronte – per altro – prima le primarie e poi elezioni amministrative quanto mai complicate.
In un simile quadro, fatto di inchieste, scandali e tensioni crescenti e sempre meno controllabili, due parole – magari controcorrente – andrebbero spese sul concetto di stabilità: ma non di una astratta stabilità di governo (il cui valore sarebbe evidente) bensì di questa stabilità italiana. Si può onestamente presumere che, nelle condizioni date, questo esecutivo possa imprimere la svolta di cui il Paese ha bisogno? O il rischio di una ulteriore separazione della società civile dal cosiddetto sistema dei partiti (già sperimentato con l’esperienza del governo Monti) non è già oggi concretamente maggiore?
Una analisi distaccata della situazione e delle possibili evoluzioni non lascia spazio a ottimismi. È un anno, ormai, che il Paese vive in una campagna elettorale continua, con tutti gli eccessi, la propaganda e la demagogia che questo comporta. Prima le amministrative della primavera scorsa, poi – senza soluzione di continuità – il referendum costituzionale e ora, già all’orizzonte, nuove e importanti elezioni locali che sembrano fatte apposta per tirare la volata al voto per il rinnovo di Parlamento e governo.
Molti, dopo il referendum del 4 dicembre, hanno chiesto a gran voce elezioni anticipate: peccato che, contemporaneamente, nessuno abbia mosso un dito per dotare il Paese di una legge elettorale che le permettesse. La situazione, dunque, rimane bloccata. Uno stallo velenoso dal quale non è poi così difficile immaginare chi potrà trarne il maggior vantaggio.
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