Primarie Pd, l’incubo del 50% che rischia di affossare Renzi
«Orlando è un figlio del partito? Meglio figlio del partito che figlio di mignotta». L’espressione icastica di Goffredo Bettini, già dominus ed eminenza grigia della leadership di Veltroni, raffigura bene le motivazioni per le quali pezzi crescenti di apparato Pd (Bettini incluso) si stanno spostando su Andrea Orlando, dopo aver seguito Matteo Renzi.
Per «partito» si deve intendere, naturalmente, il Pci. E da questo punto di vista Orlando discende sicuramente dai sacri lombi, tant’è che a benedirlo sono stati Napolitano e Sposetti. Mentre Renzi a quella storia è (orgogliosamente) estraneo. Un’anomalia, che un numero crescente di esponenti della classe dirigente post-Pci (e satelliti) vorrebbe archiviare, approfittando anche del polverone giudiziario scatenato sul caso Consip, con singolare tempismo, proprio mentre si apre la difficile partita delle primarie. Che presentano un’incognita: per vincerle, Renzi deve non solo arrivare primo ma anche superare la quota del 50% degli elettori. Altrimenti, la palla passa all’Assemblea nazionale (eletta tramite liste collegate ai candidati), e lì i giochi possono diventare pericolosi. Se per esempio Orlando arrivasse secondo, dopo Renzi, è facile prevedere che Michele Emiliano sarebbe pronto, in nome del «Morte a Renzi», a far convergere i propri delegati sul nome del ministro della Giustizia, per eleggerlo segretario. Orlando è disponibile al pactum sceleris con l’ex pm che ne ha appena chiesto le dimissioni da ministro? Per ora i suoi negano: «Figuriamoci se si mette d’accordo con Emiliano», ma di qui a fine aprile la strada è lunga.
E intanto Orlando allunga la lista dei sostenitori: cuperliani, lettiani, veltroniani, ministri come Anna Finocchiaro, dirigenti come Zingaretti a Roma e Majorino a Milano. Ma a Napoli perde la «sua» Valeria Valente, sfiduciata da capogruppo in Comune per il caso tesseramento.
Orlando tiene a presentarsi non solo come il «figlio del partito», ma come il candidato del mitologico «Ulivo» prodiano, tanto da aver presentato a sostegno della propria candidatura solo 1.996 firme (su 16mila raccolte) per evocare la data di nascita del vegetale politico in questione. Simbolo che coglieranno in pochi, ma che magari potrebbe intenerire il cuore del vecchio Prodi e spingerlo a benedire un candidato che lo omaggia assai più dell’irriverente Renzi, che non ha mai dato molta corda alle ambizioni ora presidenziali, ora libiche dell’ex premier.
In casa renziana la preoccupazione c’è: il polverone Consip, cavalcato senza contegno da Emiliano, ha tolto benzina ai sondaggi, che prima lo vedevano tra il 70 e il 60% e ora sono sopra il 50%, sì, ma non abbastanza da rassicurare. Il partito a sua volta, secondo il sondaggio del Tg La7, perde lo 0,4% sulla scia dell’inchiesta e si ferma al 27,6%.
I big del Pd che lo sponsorizzano, da Franceschini a Martina, litigano sulla formazione delle liste a supporto di Renzi. Mentre voci maligne cercano di mettere zizzania anche nel «giglio magico», raccontando di una Maria Elena Boschi irritata con Renzi per il sostegno senza se e senza ma a Luca Lotti. Voci recisamente smentite dagli interessati, ma che alimentano la tensione. Intanto Renzi punta tutto sull’evento al Lingotto, il prossimo weekend, per il lancio della sua candidatura. E rinsalda l’asse con Gentiloni, alla cui azione di governo dedica grandi elogi: «Ha fatto un ottimo intervento a Domenica In evidenziando come l’obiettivo da perseguire tutti insieme sia continuare nella riduzione delle tasse. Noi ci siamo». E, sottinteso, si va avanti fino al 2018. Le elezioni anticipate sono archiviate, e Renzi si prepara a giocare di sponda con Palazzo Chigi nei prossimi mesi.
IL GIORNALE