Nel ghetto ribelle di Malmö, dove vacilla il modello Svezia

andrea malaguti
inviato a Malmö

L’uomo è aggressivo. «Che cosa stai facendo?». È un tipo flaccido, nervoso, occhialuto, attorno alla trentina, con un cappello di lana calcato sulla testa. Un eritreo probabilmente. Così dirà, poco dopo, la signora intervenuta a placare gli animi. Si avvicina. «Perché stai scattando fotografie?». Ma che domanda è? Non si possono scattare fotografie davanti al City Gross Center di Malmö?

 «Per ricordarmi il posto, come fanno i turisti. Non è un luogo pubblico, questo?». Il flaccido lo esclude. «Qui non scatti un bel niente». Chiama un amico. Un tipo enorme. Si mette male. L’unica cosa è scusarsi (ma di che poi?) e andare via. Ma i due non mollano. Vengono in mente i ragazzini di certe piazze in mano alla camorra, che controllano la zona affinché nessuno disturbi gli affari. Solo che questi sono più adulti. «Posso passare?». Il loro corpo dice di no. Il senso di straniamento è forte. Negozi con manichini velati e alle spalle della commessa scatole di reggiseni e mutandine, parrucchieri afghani, merciai siriani, iracheni che giocano a carte sui tavolini di plastica.

 

 

Sono le undici del mattino. Nessuno sembra avere un lavoro. «Devo chiamare la polizia?». La domanda, difensiva e di per sé non particolarmente astuta, non provoca nessuna reazione. I due sembrano intenzionati a dar seguito alle minacce. E’ a quel punto che arriva la signora svedese. Sessantenne. Solida. Piuttosto decisa, benedetta lei. «Ha mai visto la nostra biblioteca?». Surreale. «No». Sorride col dolcezza. «Venga, la porto io, è di fianco a quei negozi». I due fanno un passo indietro. Lei saluta con la mano. «Chi sono?». «Eritrei. Rifugiati. Disoccupati. Vivono qui. E pensano che questo posto sia loro. Presidiano il territorio. Odiano i giornalisti e chiunque scatti fotografie. Hanno molti torti. Ma si sentono come allo zoo. Dopo che Trump ha parlato della Svezia come un Paese ormai nelle mani dell’Islam, arrivano reporter da ogni parte del pianeta. Ieri una tv russa ha pagato dei bambini a Stoccolma perché simulassero dei disordini. La tensione è forte, cerchi di capire». Il circo che si confonde con la vita, ma per chi viene da fuori, è questo il benvenuto di Rosengård – il quartiere di Zlatan Ibrahimovic – nuovo simbolo dell’integrazione sbagliata nel Paese che non sbaglia mai.

 

Scontri, violenze sessuali, molestie, antisemitismo, baby gang e voglia di sharia nel versante settentrionale della Svezia felix. Possibile ribaltare un quadro così cupo? E se fallisce la Svezia, che speranza resta a gli altri? È il cibo perfetto per il sovranismo xenofobo dilagante. Ecco perché Malmö è importante.

 

Area off limits

A Rosengård il tasso di disoccupazione è al 35%, quattro volte superiore al resto della città. Una «no-go-area», secondo la propaganda estremista, «una zona fragile» secondo la polizia, dove si parlano 28 lingue, gli immigrati sono il 40% della popolazione e l’aspettativa di vita – nonostante il sistema di welfare più solido della terra – è di otto anni più bassa rispetto alla zona occidentale della città, quella del porto, del benessere, della fede incrollabile negli esseri umani. «Il governo e la stampa di sinistra vi raccontano balle. Dicono che il problema immigrazione non esiste. Invece è lì. Grosso come una casa». Il blogger di estrema destra Paul Joseph Watson dice alcune cose vere. Ma di sicuro non dice la verità. Che come sempre è molto più complessa.

 

Sensi di colpa

All’aeroporto di Copenaghen l’Europa finisce. Certamente finisce Schenghen. Per attraversare i quindici chilometri del ponte di Orseund che uniscono la Danimarca alla Svezia, bisogna mostrare un documento d’identità. Due volte. Salendo sul treno e appena passato il confine. È come fare un salto indietro di vent’anni. Il governo di Stoccolma ha chiuso le porte dopo l’ondata migratoria del 2015. Arrivarono 160 mila richiedenti asilo. Il Paese stava per esplodere. Fisicamente e psicologicamente. «È stata una scelta dolorosa. E io l’ho capita pur senza condividerla», dice Nils Karlsson, vice sindaco verde di Malmö.

 

Filosofo, politologo e insegnante di etica all’Università, sorseggia un caffè americano in un albergo dietro la stazione Centrale. I pensieri sembrano ronzargli in testa furiosamente. «Noi svedesi ci portiamo dietro i sensi di colpa della Seconda guerra mondiale, quando chiudemmo i confini agli ebrei. Da allora pensiamo che le persone abbiano il diritto di scegliere dove vivere. Dobbiamo insistere. Anche se i Trump del pianeta vogliono che falliamo. Potrei sostenere che Malmö è più sicura della gran parte delle città sulla terra e direi solo la verità. Ma nascondere i problemi non serve. La soluzione c’è». Quale?

 

«Capitale degli stupri»

I problemi di Rosengård sono simili a quelli di Rinkeby, periferia riottosa di Stoccolma, dove martedì hanno ammazzato un uomo a colpi di pistola in una guerra tra gang. Due giorni dopo altri due morti. A Malmö, invece, l’ultimo omicidio è di mercoledì. Anche per questo il capo della polizia, Stefan Sinteus, ha inviato una lettera aperta alla città. «Aiutateci, perché da soli non ce la facciamo più». La sera è meglio restare a casa. E quando la ministra per l’integrazione, Yla Johansson, rispondendo a Nigel Farage che aveva definito Malmö «la capitale europea degli stupri», ha reclamato alla Bbc la diminuzione dei reati sessuali, i partiti di destra le hanno sbattuto in faccia le statistiche ufficiali. Le violenze sessuali nel 2016 sono state 6700 (oltre 10 mila le molestie), contro le 5920 dell’anno precedente. La maggior parte delle vittime sono donne con un’età compresa tra i 16 e i 24 anni. E allora Yla? Lei si è difesa dicendo che in Svezia le norme sono particolarmente restrittive (è vero) e che le statistiche vanno guardate a distanza di anni. Ma dieci anni fa gli stupri erano 4300. C’è nesso con l’immigrazione?

 

Ronie Berggren, deputato del partito di estrema destra Democratici Svedesi, dice che il nesso è chiaro. «Solo che il governo si rifiuta di abbinare le statistiche alla nazionalità di chi commette il crimine. La sappiamo tutti la verità. Tranne loro, che vivono nei quartieri ricchi e bianchi e cianciano di integrazione universale. Io ero iscritto ai Democratici cristiani. Me ne sono andato. Cercavo un partito anti islam e anti Europa. Non ho niente contro l’immigrazione in generale. Ma rifiuto l’immigrazione che calpesta i nostri valori». Scontro di culture, dice. Gli pare che i nuovi arrivati vivano al ritmo di un metronomo predisposto sempre sul tempo sbagliato. «Questa non è la mia Svezia».

 

La scrittrice e analista politica Annika Enroth Rothstein è più dura di lui. «È arrivata un’immigrazione che odia gli ebrei. Che ha trasferito in Svezia lo scontro mediorientale. Far finta di non vederlo è colpevole. L’estrema destra sta crescendo esponenzialmente senza neanche bisogno di fare campagna elettorale. È una cosa che mi spaventa a morte». Vergognose manipolazioni per attaccare un Paese che non ha eguali nel mondo, come sostiene il giornalista inglese naturalizzato svedese, Neil Shipley, o la presa di coscienza di una crisi senza precedenti? E non enfatizzare ciò che accade per non alimentare il razzismo è un comportamento necessario o indebitamente masochistico?

 

Antisemitismo

Il centro culturale ebraico della città è al numero 11 di Kamrergatan. Una strada chiusa. Una porta blindata azzurra. Un palazzone squadrato. «Quello che succede a Malmö succede in Svezia», dice il portavoce del centro, Fredrik Sieradzki, mentre racconta che la comunità di Malmö è piccola, molto forte e con qualche difficoltà. «Annika Enroth Rothstein non ha torto quando dice che alcuni ebrei stanno lasciando la città. Un po’ è colpa della tensione. Un po’ del fatto che a Stoccolma è più semplice trovare lavoro. Nelle scuole i nostri studenti sono spesso oggetto di aggressioni. L’antisemitismo è pervasivo. C’è risentimento da parte dei giovani che arrivano dal Medio oriente. Molti di loro si sono spostati solo geograficamente, ma mentalmente continuano a ragionare nello stesso modo. C’è bisogno di dialogo. È anche per questo che è arrivato il nuovo rabbino da Gerusalemme».

 

Il nuovo rabbino si chiama Moshe David HaCohen ed è a Malmo da due settimane. Poco per fare un’analisi, abbastanza per immaginare un percorso. «Io sono afflitto da una malattia incurabile: l’ottimismo. E ho un altro grande vantaggio: non credo ai giornali. Ma credo molto al confronto». Buona fortuna.

 

Una generazione

Nell’albergo dietro la stazione Nils Karlsson finisce di bere il caffè americano. «La soluzione?». Esatto. Esiste? «Esiste. È la stessa di sempre. Quella che ha reso diverso il nostro Paese, vale a dire una visione a lungo termine. Ci vorrà una generazione per rimettere a posto le cose, ma ci riusciremo come è già successo in passato. Serviranno confronto, scuole e soprattutto lavoro. Il lavoro fa la differenza. E il mercato a Malmö sta vivendo un momento favoloso. Ma chi arriva da noi oggi non ha abbastanza competenze. Gliele dobbiamo costruire. Con pazienza. Una visione a breve termine è stupida e inutile». E l’antisemitismo? «C’è. Proprio perché chi arriva non ha opportunità. Non riesce a integrarsi. Così continua a parlare la lingua d’origine, a guardare la televisione del proprio Paese, a coltivare gli stessi rancori. So che a volte la nostra gente si sente straniera a casa propria. Stiamo investendo molto per cambiare le cose. E la polizia sta facendo un lavoro favoloso». A Rosengård, però, gli uomini e le donne sembrano schiacciati in un vicolo cieco. Al di sotto di una certa soglia gli esseri umani diventano solo sistemi di sopravvivenza. E, in attesa di una nuova vita, i sistemi di sopravvivenza se ne fregano del male che fanno agli altri.

LA STAMPA

 

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