La grande illusione delle coalizioni

Grande coalizione o grande confusione? Le prossime elezioni, quasi certamente, non ci daranno stabilità di governo. A causa della riesumazione della legge elettorale proporzionale. La classe politico-parlamentare, per
le convenienze personali (di tutti) e i calcoli sbagliati (di alcuni), sta per consegnarci a un futuro di ingovernabilità. Le convenienze personali sono chiare. Conviene a tutti la proporzionale. Conviene ai singoli parlamentari che sanno di avere più probabilità di rielezione. E conviene ai partiti: con la proporzionale è difficile che un partito (anche piccolo) possa essere spazzato via. Si resta in gioco comunque, con buone probabilità di influenzare la formazione del prossimo governo o, nel peggiore dei casi, di avere voce in capitolo nella futura attività parlamentare. Con la proporzionale, infatti, grazie alle divisioni sempre presenti nelle coalizioni di governo, anche chi resta all’opposizione dispone, per lo più, di un potere di ricatto e di influenza.Fin qui le convenienze. Poi ci sono i calcoli. Quando si varano nuovi sistemi elettorali alcuni attori immaginano scenari futuri in funzione dei quali scelgono l’uno o l’altro sistema.

Per lo più, tali scenari non si realizzano. Tra tutte le idee balzane che circolano sul dopo elezioni, la più balzana di tutte è quella che immagina la formazione di una «grande coalizione» (sic) fra Forza Italia e Partito democratico (più cespugli vari) imposta dalla forza dei numeri, dal fatto che potrebbe essere l’unica combinazione di governo in grado di fermare i Cinque Stelle.

In sostanza, secondo questo brillante ragionamento, Partito democratico e Forza Italia dovrebbero fare più o meno come i «ladri di Pisa», nemici di giorno e complici di notte. Botte da orbi in campagna elettorale, e poi un accordo di governo a elezioni avvenute imposto dalla necessità. Il tutto favorito dal fatto che con la proporzionale si torna all’epoca in cui le coalizioni di governo si formano dopo il voto, mai prima. L’idea è assurda per tre ragioni. Per formare una «grande coalizione» occorre, prima di tutto, che i partiti coinvolti rappresentino, insieme, almeno il settanta o l’ottanta per cento del Parlamento. Tenuto conto della frammentazione in atto, l’ipotizzata grande coalizione, nella più rosea delle ipotesi, non potrebbe superare di molto la soglia del cinquanta per cento. La seconda ragione è che una grande coalizione può durare solo se i partiti che le danno vita sono organizzazioni solide, coese e con un forte insediamento sociale. Ciò è necessario perché i leader possano imporre ai propri seguaci un’alleanza di governo «innaturale» che, inevitabilmente, diffonde malumori e risentimenti fra militanti ed elettori. Occorrono partiti forti (come la Cdu e la Spd tedesche) o, in subordine, un assetto costituzionale (il semi-presidenzialismo francese) che costringa a tali innaturali connubi. In mancanza di queste condizioni la grande coalizione non può funzionare. I partiti italiani, tutti, sono troppo deboli e internamente divisi, e i loro legami con gli elettori sono troppo fragili, perché siano in grado di impegnarsi nell’impresa. Anche il partito un tempo più forte, il Pd, è oggi debole. Per inciso, ridefinendo, al Lingotto, la struttura della leadership (ticket con Martina), Renzi punta a recuperare parte della forza perduta. Si vedrà poi se il tentativo avrà successo.

La terza ragione è che la stessa possibilità che si formi tale grande coalizione diventa un atout propagandistico formidabile nella campagna elettorale delle forze contrarie. Farebbero un fuoco di sbarramento tale da provocare la sconfitta dei ladri di Pisa. La proporzionale (contro il calcolo sbagliato di Berlusconi e di altri) potrebbe favorire proprio i Cinque Stelle. I quali, giustamente, cominciano a preoccuparsi delle future alleanze di governo. La storia è imprevedibile ma, al momento, fra le varie combinazioni del dopo elezioni — governo di sinistra a guida Pd, governo di centrodestra, grande coalizione, governo a guida Cinque Stelle — l’ultima sembra la più probabile. Destinata a non durare, naturalmente. Poiché la combinazione di proporzionale e di partiti deboli garantisce al Paese solo un futuro di instabilità. Dobbiamo prendercela con la classe politica che non riesce a fare nulla per scongiurare un simile esito? Solo fino a un certo punto. Ci sono in giro responsabilità anche più gravi. Quelle, per esempio, di potenti corporazioni interessate a che la politica resti per sempre debole: una politica debole, infatti, non è in grado di metterle in riga. Ci sono poi le responsabilità di chi perpetua certi aspetti deteriori della nostra tradizione culturale.

Dobbiamo augurarci che l’Europa non si sfasci perché se ciò accadesse, mentre altre democrazie reggerebbero, la nostra sarebbe a rischio. Anche per colpa di alcune indistruttibili (e false) idee di senso comune propagandate da certa «cultura alta». Mi riferisco alla cultura costituzionale italiana, e alla colpa di molti dei suoi più illustri esponenti: avere avallato l’idea secondo cui le democrazie non avrebbero bisogno di governi forti (secondo questa concezione il governo forte sarebbe l’anticamera di un regime autoritario). Una falsità: le democrazie muoiono, quando arrivano i momenti davvero difficili, se i governi sono troppo deboli per fronteggiare la sfida.

CORRIERE.IT

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