Meglio mettere i programmi in soffitta

Non impiccatevi alla stesura di ambiziosi programmi di medio–lungo periodo. Questo è il disinteressato consiglio che mi viene spontaneo dare alle forze politiche che sembrano non poter fare a meno della ideazione, redazione, lancio e sostegno di ardite proposte programmatiche.

La cosa si capisce: siamo ormai in campagna elettorale e il dichiarare i propri intendimenti è passaggio obbligato di chiunque voglia candidarsi alla guida del Paese. Non bastano infatti più gli annunci di riforme settoriali, visto che quelle appena fatte non hanno suscitato convinti coinvolgimenti. Non bastano più le elargizioni a pioggia di bonus non inquadrabili in opzioni e disegni di sviluppo e di governo. E non bastano più le indicazioni di aggiustamento strutturale su cui si costruiscono le leggi di bilancio (quasi sempre orientato più alla stabilità che al movimento). Può darsi che in futuro le autorità comunitarie continueranno a chiedere altre riforme; ma è difficile che siano sollecitazioni funzionali a chi dovrà chiedere voti indicando un’azione politica significativa.

Di qui la quasi febbrile tentazione a scrivere un programma, metterlo sul tavolo, confrontarlo con le altre parti e presentarlo successivamente agli elettori, come piattaforma di intenzioni e di volontà politiche. Ma è una tentazione che rischia di perdersi in qualche palude pericolosa

In primo luogo perché anche il termine «programma» è invecchiato quasi quanto «riforma». In secondo luogo perché i programmi si riducono spesso ad elenchi di parole programmatiche, avvertite ormai dai più come stanche ed inerti. In terzo luogo perché i cittadini non amano più i grandi quadri di sintesi del presente e di previsioni di futuro, perché ne vedono i rischi di retorica intenzionalità a lungo termine, mentre avvertono la diffusa esigenza di interventi specifici. E infine perché non disponiamo di una generale interpretazione politica del periodo che stiamo attraversando, cui obbligatoriamente ogni programma deve ispirarsi.

Chi ha visto e scritto i tanti, troppi piani del passato (per la ricostruzione post-bellica, per il riscatto del Mezzogiorno, per la crescita del sistema scolastico, per lo sviluppo dell’agricoltura, per il sostegno alla competitività dell’industria, ecc.) sa che ognuno di essi poggiava su una valutazione politica della dinamica socioeconomica del periodo in cui venivano redatti e pubblicati.

Come si declina oggi quel riferimento? Un po’ tutti, da sinistra a destra e viceversa, sembrano affascinati dal riferimento alla centralità della lotta alla povertà e alle crescenti diseguaglianze sociali; così tutti si lanciano a definire la platea dei potenziali destinatari di tale lotta: selezionandone i livelli e i territori; inventando formule mediaticamente prensili (salario o lavoro di cittadinanza); stendendo tabelle e infografiche per far capire cosa si intende fare; mettendo a fuoco le risorse finanziarie e le strutture organizzative necessarie.

Ma, forse perché il riferimento di base è di fatto troppo ambiguo (cosa è oggi in Italia la povertà, dove sono le diseguaglianze sociali?), rischiamo che si moltiplichino solo le contrapposizioni tattiche, le polemiche e le parole.

Così non passeranno verosimilmente due mesi che le parole in circuito saranno troppe, direttamente proporzionali alle incertezze tecniche e alle polemiche politiche. Ed allora tutto potrebbe scadere ad un altro pacchetto di bonus grandi, medi o piccoli che siano. Con ciò il disegno programmatico si ridurrebbe ad un insieme di provvidenze e perderebbe ogni profondità di visione politica, restando un esercizio valido solo per i ricordi di chi lo ha scritto (ne ho anch’io e alcuni mi sono anche cari).

Meglio allora cambiare esercizio, silenziando l’ansia da «programma» e dando invece spazio ad una logica di «agenda» scadenzata nel breve periodo, articolata per specifici scopi, che quindi lavori sull’esistente più che sulle intenzioni.

In fondo, se c’è un’urgenza in Italia, è quella di far funzionare la macchina istituzionale, che oggi è inceppata, non riesce a fare giustizia fra potere e cittadini e non riesce neppure ad applicare quel po’ di intenzionalità riformista espressa negli ultimi decenni.

Resteremo così nel concreto dei processi in atto, nella più o meno chiara consapevolezza che oggi in Italia non servono pensieri, parole e programmi per mettere ordine nella realtà; perché probabilmente è vero il contrario, che è la realtà che alla lunga viene a mettere ordine alle parole, ai pensieri, ai programmi.

CORRIERE.IT

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