Renzi e i ministri “tecnici”, lo scontro è continuo: in autunno resa dei conti
MASSIMO GIANNINI
LO SPREAD a quota 211, il livello più alto degli ultimi tre anni, non è il miglior “benvenuto” al pacchetto Gentiloni- Padoan. Certo, i mercati fibrillano soprattutto per l’incertezza del voto francese del 23 aprile. Ma diciamolo con franchezza: il combinato disposto “Manovra aggiuntiva-Documento di economia e finanza- Piano nazionale delle riforme” non scalda i cuori. E neanche i cervelli. Quei testi (per quel poco che ancora ne conosciamo) raccontano un Paese sospeso tra due opposti.
UN POZZO che guarda il cielo. Il “pozzo” sono i deprimenti tamponi previsti dalla manovrina da 3,4 miliardi: la pioggerella di accise sugli alcolici e le sigarette, la spremutina di balzelli sul “gratta e vinci” e le lotterie, la rottamazione delle liti fiscali, l’inestimabile “lotta all’evasione” (nel senso che non se ne può stimare il gettito, anche se si quantifica sempre in cifre-monstre) e l’irrinunciabile “spending review” (nel senso che non si rinuncia mai a evocarla, anche se si traduce spesso in tagli semi-lineari).
Il “cielo” sono le mirabolanti ambizioni indicate dal Def e dal Pnr: il “cruciale abbattimento del cuneo fiscale per aumentare il reddito disponibile dei lavoratori”, il “taglio dei contributi sociali per le fasce più deboli (giovani e donne)”, i 3,2 miliardi per il “reddito di inclusione alle famiglie in povertà”, gli “ulteriori 2,8 miliardi per i rinnovi contrattuali del pubblico impiego” (come li ha fumosamente quantificati il ministro Padoan), il “tesoretto” da 47,5 miliardi (!) di investimenti disponibili fino al 2032 (come lo ha misteriosamente definito la Sottosegretaria Boschi).
In mezzo, c’è la dura realtà. Che gli stessi documenti del governo, tra le righe, non possono occultare. La realtà dice che quest’anno la crescita stimata sarà dell’1,1% (contro una previsione iniziale dell’1), ma per i due anni successivi riscenderà all’1%, (contro una previsione iniziale dell’1,3 nel 2018 e dell’1,2 del 2019). La realtà dice che quest’anno la pressione fiscale scenderà al 42,3% del Pil (contro il 42,9 del 2016), ma nei due anni successivi risalirà al 42,8%. Quindi: la ripresa resterà fiacca e le tasse non caleranno.
Un governo a fine legislatura, che non ha nulla da perdere, poteva e doveva osare di più. Il pacchetto Gentiloni-Padoan, alla fine, serve essenzialmente a due cose. Primo: “comprare benevolenza” a Bruxelles, dove la “manovrina di primavera” da 3,4 miliardi ci salverà dalla procedura d’infrazione. Secondo: “comprare tempo” a Roma, dove la “manovrona d’autunno” da 30 miliardi diventerà la madre di tutte le battaglie.
Una battaglia campale di cui già ora si vedono le schermaglie, e di cui lo stesso “decretone omnibus” dell’altro ieri (non a caso varato “salvo intese”, come si dice quando non c’è accordo sui testi) è un riflesso evidente e dolente. Manovrina, Def e Pnr sono il frutto di un braccio di ferro pericoloso (che ci accompagnerà fino alla Legge di Stabilità di settembre) tra la Politica e la Tecnica. Da una parte c’è Renzi. L’ex premier non molla, come dimostra la tornata di nomine nelle Spa partecipate dal Tesoro.
Anzi, dopo il voto nei circoli rafforza la sua presa sul Palazzo (Chigi e Nazareno) e la sua pretesa sull’Europa (“veto sul Fiscal Compact!”). Non vuole sentir parlare di nuove tasse (e qui ha ragione, perché di tasse da pagare ne abbiamo già troppe). Ma esige che ogni atto del nuovo governo presupponga la celebrazione solenne dei “successi” di quello vecchio (e qui ha torto, perché di successi da celebrare ce ne sono ben pochi).
Dall’altra parte ci sono Padoan e Calenda, che tentano una difficile resilienza. Padoan, trattato da “scolaretto”, cerca di non piegare del tutto l’aritmetica del bilancio pubblico alla retorica della narrazione renziana. Ma fa una fatica immonda, e i risultati finora sono stati modesti. Esempi: la manovrina rinunciataria dal lato dello sviluppo, le privatizzazioni bloccate e ridimensionate da 8 a 5 miliardi, la gestione pasticciata del dossier banche.
Calenda, trattato da “reietto”, cerca di sottrarsi al “fuoco amico” al quale sono esposti i provvedimenti che portano la sua firma. Ma fa uno sforzo immane, e anche in questo caso i risultati sono stentati. Esempi: la legge sulla concorrenza che aspetta da due anni e che è stata trasformata in un calvario dagli stessi colleghi ministri, e la norma anti-scorrerie, che doveva finire nel decretone di martedì ed è invece saltata.
Con una coda velenosissima, che dimostra a sua volta i colpi bassi che volano tra governo e partito. L’altro ieri sera dal Nazareno filtrava una velina, in pieno stile “Agenzia Stefani”, in cui si dava conto del fatto che la norma anti-scorrerie, che “il ministro dello Sviluppo voleva inserire nella manovrina”, è stata bloccata da Renzi, “attraverso Matteo Orfini e Ettore Rosato, perché sarebbe stata “pro-Mediaset”. Cioè sarebbe servita a Berlusconi a evitare la scalata di Vivendi.
Un’autentica “fake news”, visto che il testo del provvedimento prevede espressamente che “gli obblighi di cui al precedente comma si applicano esclusivamente agli acquisti di partecipazioni effettuati successivamente alla data di entrata in vigore del presente decreto”. Dunque, non essendo retroattiva, il Cavaliere non avrebbe potuto usarla comunque per fermare Bollorè.
Ma tanto è bastato per rappresentare Calenda (già accusato di flirtare con Forza Italia), come l’autore dell’ennesima “legge ad personam”. E’ solo l’ultimo incidente, l’ultimo, che testimonia di quanto sia aspro già ora lo scontro interno alla maggioranza. E di quanto sia complessa la mediazione per Gentiloni. Ieri mattina il premier ha telefonato a Calenda per dargli il suo sostegno, almeno in “privato”, perché “in pubblico” non se lo può permettere.
Ma si può andare avanti così, con un quadro politico sempre più sfarinato e un contesto economico sempre più complicato? E che succederà dopo il 30 aprile, quando Renzi verosimilmente si dichiarerà “trionfatore” alle primarie, fosse pure con un solo voto di vantaggio su Orlando e Emiliano? Lascerà la Legge di Stabilità a più alta intensità politica degli ultimi anni nelle mani degli odiati tecnici? O gliela vorrà dettare lui, col portafoglio generoso e l’occhio proteso alle urne del 2018? Urge una risposta.
Magari già dal primo maggio, cioè il giorno dopo la chiusura di quei “gazebo democratici” nei quali da troppo tempo sembra imprigionato l’intero Paese. Tocca a Renzi l’onore e l’onere di spiegare agli italiani se quello di Gentiloni è davvero il “governo amico”, o se invece (dopo l’apparente “riabilitazione” su Consip e l’imminente “re-incoronazione” nel Pd) non possa ancora scattare l’ora del fatidico #paolostaisereno.