La sfida giovane al pessimismo

La Francia ha scelto il futuro, l’Europa, il mondo globale. E nella stessa notte ha fatto una scommessa coraggiosa al limite della temerarietà su un trentanovenne di bell’aspetto, che entra all’Eliseo senza mai essere stato eletto neppure in consiglio comunale. La seconda potenza europea ha affidato un assegno in bianco a un giovane che ha saputo andare contro lo spirito del tempo — il pessimismo, il populismo —, contro il vento della storia che dopo Brexit e Trump pareva spirare in tutt’altra direzione. Però Emmanuel Macron resta una grande incognita. Un aspirante Kennedy francese, fascinoso, che deve ancora dimostrare tutto, tranne abilità, ambizione, fortuna: qualità necessarie ma non sufficienti a governare un Paese dove quasi il 35% è talmente esasperato da votare Marine Le Pen. Ieri sera al Louvre, simbolo della cultura occidentale, nel centro di Parigi equidistante dalla Bastiglia rossa e dalla place de la Concorde dove festeggiò Sarkozy, si è radunata una folla giovane, multietnica, con i tricolori e qualche bandiera europea, che non aveva mai fatto politica sinora, che padroneggia i social, che si riconosce appieno in questo presidente senza partito, di pochi anni più grande. Nelle stesse ore, militanti delusi ma orgogliosi si stringevano attorno a Marine Le Pen, la voce roca, il volto esausto al termine di una campagna durata cinque anni. La figlia del fondatore ha portato il Front National al massimo storico, rintuzzando per ora la concorrenza della nipote; ma negli ultimi giorni non è riuscita a mostrarsi credibile per la presidenza della Repubblica. Un po’ per i suoi errori — troppo aggressiva nel dibattito —, un po’ perché l’establishment che lei detesta e che la detesta si è mobilitato a favore di Macron, dai sindacati agli industriali, dalle associazioni ai media.

Ora il presidente dovrà sottrarsi ai condizionamenti del sistema e agli appetiti dei politici tradizionali apparsi in tv molto sorridenti, per liberare appieno la propria energia, e mettere in moto il cambiamento che una parte dei suoi elettori gli chiede. C’è una Francia giovane, digitalizzata, colta, fiera dei suoi primati — il Paese con più turisti al mondo e con più neonati in Europa —, convinta del messaggio di Macron: la globalizzazione è propizia alla terra della cultura e del lusso, delle start-up e della moda, dell’industria aerospaziale e del saper vivere. È la Francia che tra un mese andrà a votare alle legislative i candidati del movimento che ha le stesse iniziali del leader, En Marche, per dargli una maggioranza in Parlamento e consentirgli di governare senza scendere a patti con i vecchi partiti. Ma c’è pure una Francia che si è fatta piacere Macron per evitare l’avvento del lepenismo, l’uscita dall’euro e l’ingresso in un avvenire pieno di incognite che somiglia molto al passato. È la Francia che seguirà il nuovo presidente con scetticismo, pronta a lasciarsi sedurre ma anche a stancarsi presto; che crede alla bella storia d’amore con Brigitte ma coltiva una riserva destinata a emergere alla prima delusione; e nell’attesa tornerà all’ovile dei partiti, più dai Repubblicani orfani di leader ma solidi sul territorio che dai socialisti allo sfascio.

C’è poi una Francia arrabbiata, da stasera più che mai all’opposizione. È la Francia delle banlieues povere, delle campagne sorvolate dai mercati globali, delle classi popolari che pagano il prezzo dell’immigrazione, dei tassisti in guerra con Uber, degli agricoltori rovinati dal crollo dei prezzi e dalla concorrenza dei Paesi emergenti e degli ogm. Le hanno dato voce Marine Le Pen e pure Jean-Luc Mélenchon, che non a caso si è rifiutato di unirsi al «fronte repubblicano». Per ora resta una Francia minoritaria (se non si considerano gli astensionisti e l’impressionante numero di schede bianche); ma non va affatto sottovalutata, anche perché un fallimento di Macron le darebbe ulteriore forza. Gli hacker forniranno altri dossier, veri o falsi, per esasperarne la credulità e la collera. E il terrorismo islamico ha come strategia rinfocolare le divisioni interne. Per governare queste fragilità e queste incertezze, la Francia ha scelto per amore o per calcolo il figlio delle élites, il laureato delle grandi scuole, il banchiere, l’erede di Hollande, il beniamino dei media: quasi un miracolo, propiziato dall’eliminazione di ex favoriti, ex primi ministri, ex presidenti. La grande domanda di novità finisce per premiare l’uomo che per due anni ha fatto la politica economica del detestato governo socialista. Per Macron non sarà sempre facile come nella festa parigina. Non sarà facile con Trump e con Putin, e neanche con Londra e con Berlino. Eppure questa del 7 maggio 2017 resterà una notte storica. Perché ha dimostrato che l’Europa in fondo esiste, crede in se stessa, passa la fiaccola alle nuove generazioni; e ha ancora una chance per evitare l’autodistruzione.

CORRIERE.IT

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