I sospetti che agitano i rapporti tra gli alleati

Com’è andato il viaggio del presidente degli Stati Uniti in Europa? In altri tempi un simile quesito sarebbe stato considerato provocatorio. Cos’altro poteva essere, un simile viaggio, se non la convinta e unitaria conferma di una alleanza indispensabile, la ratifica di valori comuni, la celebrazione di interessi condivisi? L’essenziale è rimasto valido anche nella visita di Donald Trump, beninteso. Ma accanto a un legame transatlantico che in linea di principio nessuno vuole mettere in discussione, questa volta gli squilli di tromba non sono riusciti a nascondere, tra il capo della Casa Bianca e i suoi interlocutori europei, un sentimento insidioso e reciproco che rimane a mezz’aria in attesa delle verifiche della storia: il sospetto. Non siamo ai tempi di George W. Bush, quando l’intervento armato in Iraq spaccò gli europei in due schieramenti contrapposti. Oggi le linee di demarcazione, in Europa come a Washington, risultano mal disegnate, vengono considerate incerte o provvisorie, proiettano insomma quel clima di instabilità che moltiplica i timori e impedisce le strategie, o le indebolisce con danno di tutte le parti in causa. Questa prima parte della presidenza di Donald Trump non è forse stata caratterizzata da continui giri di valzer sui temi più disparati? E il capo della Casa Bianca non è forse incalzato tanto sul piano interno quanto su quello internazionale da un «fattore Russia» che promette di non dargli tregua?

Quanto all’Europa, se Emmanuel Macron non ce l’avesse fatta Trump avrebbe trovato ad attenderlo una Ue in decomposizione, e comunque la vittoria di Macron alle presidenziali francesi non va oltre le promesse, non garantisce una vera intesa con Berlino dopo le elezioni tedesche, non si traduce se non molto lentamente nella costruzione di quelle «diverse velocità» che nel 2018 dovranno essere reali, e non più soltanto progetti.

Non c’è posto per l’arroganza o per le battute sprezzanti: l’incontro tra Donald Trump e gli alleati europei è stato in realtà un incontro tra due debolezze, che sperano di uscire dalla loro attuale condizione ma che non hanno, al momento, alcuna certezza di riuscirci.

A Roma, a Bruxelles, a Taormina il progresso essenziale tra il presidente Usa e gli europei è stato quello di parlarsi, di trovarsi d’accordo e anche (più discretamente) di dissentire come si dovrebbe fare tra alleati. Si partiva da brutte premesse, dal Trump che esaltava la Brexit e ne prevedeva altre, dalla Nato considerata «obsoleta», dall’America creditrice di somme per la sicurezza non pagate da alcuni europei, dalla simpatia verso Marine Le Pen. E l’Europa, da parte sua, non era parsa in grado di «prendere in mano il suo destino» come chiedeva Angela Merkel, non aveva preso iniziative o fatto proposte per alleviare la confusione regnante a Washington, non era stata «soggetto internazionale» né aveva colto l’occasione per crescere. Poi Trump ha cominciato a moderare (non troppo) il linguaggio e alcune posizioni, gli europei hanno moltiplicato se non le iniziative almeno i contatti, dissensi e interessi di fondo hanno ritrovato un equilibrio che pareva seriamente a rischio, e una grande base condivisa, la lotta al terrorismo, ha fatto il resto. Trump ha portato in Europa il seguito del discorso che aveva appena fatto in Arabia Saudita, ha invitato gli europei come aveva fatto con i sunniti a coinvolgersi maggiormente nella lotta all’Isis e all’estremismo in generale, ha individuato nel terrorismo, all’indomani della strage di Manchester, un trampolino sul quale, almeno nella forma, tutti l’avrebbero seguito. E così è stato, ma non senza compromessi e spigoli che rimangono.

Sulla difesa dell’ambiente, Macron si è fatto portavoce di un disaccordo transatlantico molto sentito. Restano vivi i timori — rafforzati dalla difficile redazione di un testo comune e dalla estemporanea requisitoria di Trump contro le esportazioni tedesche — sulla piega che potrebbe prendere il commercio internazionale all’ombra del dogma protezionista dell’America first. Ma la Nato, superando le riserve tedesche e francesi, è diventata parte della coalizione anti Isis che agisce in Iraq e in Siria (senza tuttavia impegnare l’Alleanza in ruoli di combattimento). E Donald Trump ha potuto fare la sua requisitoria contro la grande maggioranza degli alleati che non raggiungono nelle spese per la difesa il due per cento del Pil, accumulando «debiti» verso i contribuenti americani. L’argomento è assai più complesso e discutibile di quanto Trump voglia riconoscere, ma il presidente non poteva perdere una occasione utile a fini di politica interna. Sorprendente, semmai, viene considerato dagli alleati (soprattutto dagli europei orientali preoccupati della Russia) il mancato riferimento all’articolo 5 del Trattato, quello che stabilisce l’obbligo della mutua difesa in caso di attacco esterno. Non lo ha detto perché è ovvio, ha poi spiegato Rex Tillerson. Sarà. E la volontà di isolare l’Iran, che gli europei non condividono? E le questioni che Trump considera di spettanza europea (con ragione) come l’immigrazione? E l’America che esita a impegnarsi in Libia (ma i primi a non farlo adeguatamente sono gli europei)? E i nuovi addestratori militari in Afghanistan (sin qui soltanto Londra ha detto sì)? E la continua doccia scozzese nei rapporti tra Usa e Russia (con l’Europa che sta alla finestra disorientata e comunque gelosa)? Serviranno tante novità e tanti viaggi, se l’Atlantico non vorrà più essere stretto tra due debolezze.

CORRIERE.IT

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