Graziano: “L’Italia sarà regista del piano di difesa nel cuore dell’Africa”

francesco grignetti
roma

Anche alla Nato ormai sono convinti che esiste un Fianco Sud, tanto è vero che nel febbraio scorso è nato un Comando specifico con sede a Napoli. Ma la difesa avanzata del Fianco Sud si è spostata in avanti. È arrivata al cuore dell’Africa. E ormai nei documenti militari si parla sempre più di Niger, Mali, Ciad, Burkina Faso. Per il generale Claudio Graziano, capo di Stato maggiore della Difesa dal 2015, non è una sorpresa. «Nel 1992 ero al comando di una missione in Mozambico. Poi sono stato in Afghanistan e in Libano. Ho vissuto davvero da vicino la trasformazione che ci ha portati fin qui dalla Guerra Fredda».

 Generale, parliamo allora di questo Fianco Sud che va molto oltre la crisi libica?

«Il cosiddetto Fianco Sud, oltre ad essere una minaccia multiforme che noi militari identifichiamo nel triangolo terrorismo-instabilità-migrazione, include una realtà molto vasta che va dalla Penisola arabica al Medio Oriente, al Corno d’Africa, all’Africa del Sahel. L’istituzione di questo nuovo Comando Nato, su cui il ministro Roberta Pinotti si è molto spesa nelle sedi internazionali, è un indubbio successo politico-diplomatico dell’Italia. Da lì si coordineranno meglio le operazioni in corso nell’area, sia Nato, sia europee. Ma ci sarà anche una sorta di cabina di regia per quella che è divenuta la nostra vocazione principale: il “capacity building”, la creazione di forze di sicurezza che sono un tassello importante per la stabilità».

 

Molti, di fronte al bollettino quotidiano degli sbarchi, si attendono interventi diretti dei militari.

«Guardi, per dirla chiaramente, il “capacity building” è un impegno di lungo termine, ma ineludibile. Attualmente noi italiani abbiamo 7000 militari schierati in 30 missioni all’estero. Ormai sono quasi tutti istruttori d’eccellenza: prepariamo forze convenzionali e forze speciali; i carabinieri addestrano in maniera eccellente forze di polizia locali. Anche l’addestramento degli uomini della Guardia costiera libica da parte della missione europea Sophia è positivo: sembrano avere la volontà di intervenire. Ma chiaramente quella libica è una situazione in progress».

 

Prospettive?

«Vi è indubbiamente nel Fianco Sud una certa debolezza delle organizzazioni statuali. Vi è una certa povertà. Vi sono pericolose reti criminali. Ed è interesse internazionale stabilizzare questi Paesi prima che le crisi precipitino. È evidente però che la stabilità economica ha una sua fondamentale importanza».

 

Eppure questa frontiera si va spostando in avanti. È notizia di pochi giorni fa che la Ue finanzierà con 50 milioni di euro una Forza congiunta per il controllo dell’area sub-sahariana. È immaginabile che nuovi istruttori italiani andranno da quelle parti?

«La fascia del Sahel, che è anche la fascia della povertà, è senza dubbio la nuova frontiera del Fianco Sud. Ma i militari possono essere solo una parte delle risposte. Il processo problematico dell’Africa, probabilmente per colpa dell’Europa, è nato molti anni fa. Che in Africa ci fosse un problema, lo sapevamo. Che ci siano milioni di persone potenzialmente in movimento, sappiamo anche questo. Finalmente però c’è una strutturazione. Precisiamo comunque che in Mali ci siamo già, visto che partecipiamo alla missione Eutm (European Union Training Mission, ndr) con 12 istruttori. E che abbiamo la leadership di un’altra missione Eutm di altrettanta importanza in Somalia, con 130 militari. Stiamo per assumere anche la guida della missione europea antipirateria Atalanta. E non dimentichiamo che siamo massicciamente presenti in Iraq con altri 1500 uomini, che stanno addestrando le forze da combattimento irachene».

 

E in Libia?

«Come è noto, curiamo i feriti di Misurata e la popolazione. Forniamo anche assistenza e istruzione al personale sanitario locale. Il che è anch’essa una forma di “capacity building”, cercando evidentemente anche di guadagnare consensi in un’area così delicata. Dopodiché assistiamo anche i feriti dell’altra parte: ce ne sono in cura sia al Celio sia all’ospedale militare di Milano… Sulla Libia posso dire che la crisi viene da lontano. Un po’ per effetto delle primavere arabe, un po’ per la peculiare situazione interna, che risente del tribalismo, era in crisi già il regime di Gheddafi. Poi venne la rivoluzione. E l’intervento Nato è stato successivo. Non faccio valutazioni politiche, ma è una situazione verso la quale l’Italia ha un oggettivo interesse specifico».

 

Generale, non la preoccupa il moltiplicarsi dei focolai?

«Il numero di queste crisi, e anche il loro andamento ciclico, ci fa pensare che dovremo convivere con una situazione di instabilità a lungo termine. La trasformazione che stiamo facendo delle forze armate, vedi il Libro Bianco, che speriamo di portare a compimento presto, prevede di avere delle forze armate capaci di operare in un lungo periodo».

 

Il cittadino comune però vede missioni militari che non si esauriscono mai.

«Capisco che ci si interroghi. In Libano ci stiamo dal 1976. Ma se i tempi del dialogo non sono ancora maturi, andare via da lì, come da tanti altri teatri, vedi anche il Kosovo, sarebbe pericoloso. Sono le parti che ci chiedono tempo. E non avrebbe senso lasciare aree dove le crisi comunque le controlli, per poi accorrere a tamponarle dall’esterno».

LA STAMPA

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