Andare al voto in un paese indeciso
I deputati che il 6 settembre riprenderanno alla Camera l’esame della legge elettorale hanno sulle loro spalle una responsabilità pesante: forse più pesante di quanto immaginano. In qualunque sistema politico, infatti, la legge elettorale è un tassello della massima importanza, ma in Italia questa importanza è ancor più accresciuta dalle deficienze della seconda parte della nostra Costituzione (ahimè non ancora evidenti agli occhi di tutti) la quale fa sì che da noi chi ha la massima responsabilità di governo si trovi in una posizione di congenita debolezza, perlopiù privo dell’autonomia, dell’autorità e della forza necessarie a dirigere il Paese. Il presidente del Consiglio italiano, tanto per cominciare, può governare solo accettando un virtuale condominio di fatto con il presidente della Repubblica. Il quale però, è inutile ricordarlo, è costituzionalmente molto più forte di lui (dura in carica sette anni, è inamovibile e, nonostante troppo spesso lo si dimentichi, ha perfino il potere di autorizzare o meno la presentazione alle Camere dei progetti di legge del governo nonostante che questo possa vantare dalla sua, bisogna credere, quella bazzecola che è l’investitura del voto popolare.
Per non dire di molte altre prerogative ancora). Secondo la nostra Costituzione il presidente della Repubblica può addirittura egli solo sciogliere le Camere — e cioè disporre di una formidabile arma politica di influenza — senza neppure sentire (dico sentire) il capo del governo in carica.
A norma dell’articolo 88, infatti, il presidente della Repubblica ha tale obbligo solo nei confronti dei presidenti della Camera e del Senato). Ho scritto «capo del governo», ma sappiamo bene che è un’espressione sbagliata. In Italia, infatti, non c’è nessun vero capo del governo. A norma della Costituzione c’è solo un presidente del Consiglio dei ministri. Ministri rispetto ai quali egli è per l’appunto, esclusivamente un primus inter pares. Tanto è vero che circa la loro scelta egli ha solo un potere di proposta, la nomina essendo invece anche questa di competenza del capo dello Stato. E naturalmente, così come egli non ha il potere di nominarli non ha neppure il potere di licenziarli. Ciò che peraltro è del tutto congruo con il dettato della Costituzione, il quale indica che il governo è composto collegialmente, in certo senso tutti sullo stesso piano, dal suddetto presidente del Consiglio e dai suddetti ministri. Nei confronti dei quali il primo — viene detto — ha solo il compito di «mantenere un’unità d’indirizzo», «promuovendo e coordinando» la loro attività: i ministri non sono i suoi collaboratori, insomma, sono i suoi colleghi. Il rappresentante del potere esecutivo italiano, dunque, non è un vero premier: è a un dipresso qualcosa come il segretario generale di un Consiglio d’amministrazione.
L’intrinseca debolezza della figura del presidente del Consiglio significa non solo, come ho detto, la debolezza complessiva dell’azione amministrativa di governo. Significa non solo la congenita fiacchezza che si riscontra da noi del comando politico, della sua autorevolezza pubblica e della sua immagine, sempre circondate dei peggiori sospetti di volontà d’usurpazione autoritaria. La debolezza della figura del presidente del Consiglio si riflette in qualcosa di più profondo: nel fatto che per logica conseguenza l’intero sistema politico italiano non è orientato in alcun modo alla produzione di leadership autentiche, a far emergere figure di capi orientati al coraggio e alla risolutezza, bensì a premiare il tipo del mediatore, del negoziatore di compromessi, del conciliatore di opposti. In Italia chi è più apprezzato (specie dai suoi colleghi e dalla cultura ufficiale, bisogna aggiungere) non è l’uomo politico di cui sia dato di ricordare decisioni importanti e coraggiose ma quello più capace di mettere tutti d’accordo: magari nel non far nulla e nel rimandare tutto. L’altro, quello di cui invece bisogna diffidare, è sempre il «decisionista».
Dio sa quanto tutto questo sia costato al Paese. Quanto questa impostazione politica generale, discendendo per li rami ai livelli inferiori e a quelli amministrativi sia diventata scarico di responsabilità, frantumazione delle competenze, «concertazioni» infinite, necessità inesauribile di «pareri», tempi biblici per l’approvazione e per l’esecuzione di qualsiasi cosa. Ogni giorno che passa questa farragine soffocante all’insegna del «non decidere, non fare» sta diventando per l’Italia una zavorra via via più pesante e più dannosa che ci fa perdere posizioni, aggrava tutti i nostri problemi, ci rende un Paese in cui lavorare, intraprendere, ricercare, studiare, vivere, è un’impresa sempre più faticosa e frustrante. E mentre di conseguenza nell’opinione pubblica monta la rabbia per un sistema politico-istituzionale pronto a scaricare sul comune cittadino tutte le sue insufficienze e i relativi costi. Una rabbia che non ci mette nulla, come si sa, a divenire disprezzo per la politica in generale e per tutti quelli che vi hanno a che fare. Quando non rischia di divenire anche qualcos’altro: la richiesta più o meno consapevole di un «governo forte». «Forte» comunque.
Ma che c’entra la nuova legge elettorale con tutto questo? C’entra perché una nuova legge elettorale può almeno in parte rimediare alla questione centrale — vale a dire alla debolezza del potere di governo e della figura del presidente del Consiglio —. Può farlo cercando di attribuire a quest’ultimo una maggioranza parlamentare che si riconosca nella sua guida e il più possibile autosufficiente: cioè innanzi tutto non condizionata dalla necessità delle coalizioni. Ad esempio grazie a una legge elettorale proporzionale con una soglia di sbarramento significativa e un premio di maggioranza non alla coalizione bensì alla lista; o, a mio parere ancora meglio, adottando il collegio uninominale maggioritario a doppio turno sul modello francese. L’importante è che non ci si faccia intimidire da chi contro il tipo di proposte ora dette ancora oggi agita demagogicamente la necessità di «garantire che siano gli elettori a decidere»: come se ai tempi della prima Repubblica e della proporzionale pura, ad esempio, fossero stati gli elettori democristiani a decidere, chessò, nel 1962 di allearsi con i socialisti, o come se nel ’78 fossero stati quelli comunisti a decidere di entrare nella maggioranza del governo Andreotti. In realtà bisognerebbe finalmente convincersi che le elezioni (e quindi anche le leggi elettorali) dovrebbero servire a far decidere agli elettori non già da chi vogliono essere rappresentati, bensì soprattutto da chi vogliono essere governati. E dunque dovrebbero servire soprattutto a eleggere e a mandare a casa i governi.
CORRIERE.IT
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This entry was posted on lunedì, Agosto 21st, 2017 at 08:58 and is filed under Editoriali - Opinioni. You can follow any responses to this entry through the RSS 2.0 feed. You can skip to the end and leave a response. Pinging is currently not allowed.