Attentato Barcellona: Julian, che è morto due volte

Il dolcissimo Julian purtroppo è morto. E per il circuito della Rete (quindi per tutti noi, ormai) è morto due volte. Il suo sguardo è diventato il più famoso del mondo per lunghe ore. Poco dopo l’attentato, la prima notizia: quel bambino di 7 anni, australiano e britannico, con un padre anglosassone e una madre di origine filippina rimasta ferita nell’attentato, era morto subito, strappato dalla mano della mamma con cui passeggiava.

Poi, un’altalena di voci: no, è vivo, è ricoverato, le sue condizioni sono gravi: no, non sono nemmeno gravi, ce la farà. La polizia che dice: non ci sono più dispersi. Sospiri di sollievo sui siti di tutto il mondo: caro Julian, indosserai ancora quel cappellino blu con la bandiera australiana e su quel tuo viso, in cui Occidente e Oriente si mescolano, tornerà il sorriso. Poi le foto collocate sui social dal nonno per aiutare possibili riconoscimenti, l’arrivo del padre portato subito in obitorio, dov’è rimasto a lungo, ma poi uno spostamento all’ospedale Vall d’Hebron. Alla fine, ieri pomeriggio, la conferma che nessuno avrebbe voluto avere: Julian è davvero morto. Una parola che non si dovrebbe mai pronunciare per un piccolo uomo di sette anni, in qualsiasi parte del pianeta si trovi.

In questa doppia morte mediatica si mescola un’altra storia, tragicamente, spaventosamente splendida. Una conferma che la realtà delle nostre vite quotidiane supera puntualmente ogni sforzo inventivo per immaginare romanzi o fiction. Pochi minuti dopo il massacro, un turista britannico, Harry Athwal, di Birmingham, 44, anni ha trovato la forza d’animo di assistere Julian negli ultimissimi istanti della sua vita. Ed ecco il racconto: Harry era al balcone di un ristorante sulla Rambla con i suoi amici, ha assistito al massacro e in pochi minuti ha visto i corpi a terra. Athwal ha detto al quotidiano Mirror: «È stato istintivo. Ho guardato su entrambi i lati e alla mia destra c’era quel bambino in mezzo alla strada. Sono corso dritto da lui. Era privo di sensi, aveva la gamba piegata e la testa piena di sangue… Ho cercato di prendergli il polso, ma già non c’era più. Ho pensato che se n’era andato, gli ho carezzato i capelli e l’ho riempito di lacrime e sono rimasto seduto accanto a lui, non volevo che restasse lì in mezzo alla strada… Sembrava mio figlio: è la loro età, circa sette-otto anni».Harry sta diventato in Gran Bretagna «un simbolo di coraggio umanità e aiuto alle vittime», come scriveva ieri El Mundo. Un capitolo che aggiunge pena e indicibile dolore alla tragedia di Julian: accanto a lui non c’era sua madre, ferita e incapace di muoversi. Però c’era uno sconosciuto che lo ha accarezzato, ha pianto mentre «se ne andava», non lo ha fatto sentire solo. Chissà se Julian ha avuto la possibilità di capire, di chiedersi cosa fosse accaduto e perché quell’uomo mai visto lo stesse coccolando come un padre disperato. L’ottimo Harry Athwal, con quel gesto, ha detto ciò che pensiamo tutti noi adulti: con Julian è morta anche una parte della speranza per il futuro, soprattutto quello dei nostri figli. Che si somigliano tutti, perché tutti hanno il diritto di crescere, scoprire il mondo e se stessi, progettare un avvenire. E non il buio della morte.

CORRIERE.IT

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