Le solite trappole del fisco

Il Fisco ragiona sempre in modo tutto suo, bisogna dirlo. Anche questo sistema delle clausole di salvaguardia sembra diventato un meccanismo di tasse con l’elastico, un sistema di quasi-tasse. Si arriva al punto, sul bordo dell’aumento automatico, e poi i governi cercano (e talvolta trovano), ma sempre all’ultimo momento, la formula per disinnescare il rincaro. Disinnescare, non cancellare. Anche questa volta, se non ci saranno altri interventi, l’Iva aumenterà dal 2019.

Da gennaio poteva scattare l’aumento delle due aliquote dell’Imposta sul valore aggiunto, del 10 e del 22%. Una revisione scongiurata con la legge di Bilancio, ma soprattutto perché i 15,7 miliardi di gettito che servivano sono stati trovati altrove. Ma ecco il punto: è stata solo modificata la data dell’aumento, c’è un anno di tempo in più. Queste clausole sono una specie di assicurazione che l’Italia offre all’Unione Europea, di salvaguardia appunto. Suonano così: se non riusciamo a mantenere gli impegni, allora più tasse. E a ben guardare la formula del rinvio va avanti ormai da sei anni. Il primo ad adottare il metodo fu il governo guidato da Silvio Berlusconi che nel 2011, alle prese con la prima crisi del debito sovrano, rispose con questa intuizione fiscal-amministrativa ai vincoli europei. Poi tutti i governi successivi si sono alternati nel tentativo di disinnescarla o di servirsene. Ma siamo sicuri che questo sia un modo efficace di salvaguardare i conti pubblici e la politica fiscale?

E soprattutto siamo sicuri che questo sia il modo migliore per tenere in considerazione i diritti dei contribuenti? Certo, a scorrere la manovra, sono molti i provvedimenti che cercano di assecondare il tentativo di ripresa in atto. Dalle assunzioni ai terrazzi. Lette in controluce, per la verità, alcune misure hanno il sapore di scelte che arrivano a pochi mesi dal voto. Una volta si chiamavano mance elettorali. Una delle parole più frequenti, non a caso, è «bonus». Però su questo sarà decisivo il cammino parlamentare. La lunga notte degli emendamenti, degli scambi in commissione e poi il maxi-emendamento sul quale tutti i governi fin qui arrivano a porre la fiducia. Certo, far fronte ad una spesa per interessi che ogni anno impone di trovare quasi 70 miliardi di euro, con un’Europa che solo a fatica ci ha concesso qualche margine di flessibilità, non è arte facile. Ma sul fronte delle tasse la riflessione dovrebbe farsi più profonda.

La scelta di affidarsi in passato alle clausole di salvaguardia poteva apparire obbligata, ma forse non lo era. Uno dei tentativi di compensare l’aumento automatico (seppure congelato) potrebbe ripassare attraverso la via maestra del programma di riduzione della spesa inutile, e qui la sensazione è che il percorso sia di molto rallentato. Stesso copione per le privatizzazioni, unico sistema che ha consentito nei primi anni Novanta di far scendere il rapporto tra debito pubblico e Prodotto interno lordo sotto la fatidica soglia del 100% (mentre ora siamo intorno al 132%).

La macchina delle dismissioni ha subìto un graduale ripensamento nei fatti, e sarà molto rilevante vedere in quanto tempo il Monte dei Paschi di Siena, diventato del Tesoro per effetto del salvataggio, tornerà sul mercato. E se lo Stato rallenta, gli enti periferici fanno proprio finta di niente: le privatizzazioni regionali o comunali sono praticamente inesistenti. Come dire: quella clausola di salvaguardia rappresenta una sorta di formula magica che consente di assicurarsi il via libera dell’Unione Europea senza però tener conto del fatto che lasciare aperta l’opzione dell’aumento delle tasse, non può esser l’unica strada di gestione del deficit. E soprattutto non può essere un alibi da fari ricadere sui contribuenti. C’è di positivo che almeno si è persa la cattiva abitudine dell’aumento retroattivo delle imposte. In questo caso si tratterebbe, se non interverranno misure in grado di cancellarlo, di un aumento fin troppo annunciato.

CORRIERE.IT

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