La prova che attende la sinistra

L’annuncio implicito nella notizia della lunga telefonata di distensione, venerdì scorso, tra Romano Prodi e Matteo Renzi è che a sinistra del Pd nasceranno due raggruppamenti: uno di stampo ulivista che si alleerà con il fratello maggiore e uno, con gli scissionisti bersaniani, che resterà fuori dall’alleanza. Le cose dovrebbero andare così, pur se Piero Fassino, il tessitore di questa tela, ha lasciato intendere che non si darà per vinto se non dopo aver provato per qualche giorno ancora nell’estremo tentativo di portare anche questi ultimi dalla propria parte. Ma, diciamolo subito, saremmo sorpresi se all’ex sindaco di Torino riuscisse anche questa parte dell’impresa. E forse lo considereremmo un esito improprio. Vedere Renzi a braccetto con Bersani e D’Alema darebbe la stessa sensazione della «foto di Harare», quella in cui, nella capitale dello Zimbabwe, il novantatreenne presidente Robert Mugabe è apparso venerdì scorso rilassato in poltrona assieme al generale Costantino Chiwenga che lo aveva deposto il giorno precedente.

La «foto di Harare» (peraltro subito contraddetta ieri sera dal drammatico annuncio del presidente dello Zimbabwe in tv) non dava certo una sensazione di stabilità. Tutt’altro. E, allo stesso modo, non ne darebbe un’analoga rappresentazione della sinistra italiana. Renzi tra l’altro non è assimilabile (per ragioni anagrafiche) al presidente dello Zimbabwe. E Bersani non assomiglia a Chiwenga anche perché, tra l’altro, di autentiche intentone contro il suo successore non ne ha mai ordite. E se qualcuno dei suoi ha provato a imbastirne qualcuna, per un motivo o per l’altro non è poi riuscito a condurla neanche nell’anticamera del compimento.  L’ultima — stavolta però Bersani non era sospettabile di aver preso parte alla congiura, non fosse altro per il fatto di essere ormai uscito, assieme ai suoi, dal Pd — è di meno di un mese fa. Ma qui occorre dire che uno dei motivi (forse il principale) per cui dopo le elezioni siciliane del 5 novembre gli oppositori interni non hanno neanche provato a disarcionare il leader è che, ad analizzarli con attenzione, i risultati venuti fuori dalle urne erano stati più o meno gli stessi di cinque anni prima quando il partito — guidato all’epoca proprio da Bersani — godeva del vento nelle vele. La sinistra nel suo insieme, sia chiaro, alle regionali di Sicilia di inizio novembre ha perso. E il partito di Renzi è stato sconfitto. Ma, oggi il Pd, a sorpresa, ha preso nell’isola, come nel 2012, il 13 e mezzo per cento e circa duecentocinquantamila voti pur non potendosi più avvalere del consenso degli elettori che avevano seguito gli scissionisti. Andassero allo stesso modo le prossime elezioni politiche, dovesse cioè il Pd attestarsi attorno al 25,43% che nel 2013 premiò (per così dire) Bersani quando era al suo apogeo, il partito renziano dovrà considerarsi ammaccato sì ma non travolto. Stesso discorso che varrà per l’attuale legislatura e per gli ultimi tre presidenti del Consiglio: Enrico Letta, Matteo Renzi e Paolo Gentiloni.

Diversa dovrà essere la valutazione per il raggruppamento che nascerà a sinistra del Pd autorevolmente guidato — a quel che sembra — dai presidenti del Senato e della Camera (un unicum nella storia dell’Italia repubblicana), che si propone di marcare una evidente discontinuità con l’ultimo quinquennio. I presidenti delle Camere — sempre che uno o entrambi non si facciano da parte e decidano in extremis di seguire le più prudenti indicazioni di Romano Prodi — accetteranno implicitamente la teoria secondo cui milioni e milioni di elettori e di iscritti si sono allontanati dal partito più importante della sinistra italiana a causa delle scelte di governo degli anni 2013-2017 (segnatamente quelle riconducibili alla stagione di Renzi, prima tra tutte il Jobs act). Ne conseguirebbe che un partito che propone al Paese la cancellazione di quelle scelte governative guadagnerà pressoché automaticamente a sé i consensi perduti. Interessante prospettiva, anche a dispetto dei sondaggi che attualmente assegnano al tale formazione risultati modesti, di poco al di sopra della soglia di sbarramento, il 3%. È infatti presumibile che la parte più interessante (e capace di attrarre voti) di questa avventura della nuova sinistra debba ancora arrivare. Il segnale d’inizio sarà quando tale formazione annuncerà esplicitamente (come fece al momento del suo esordio, sei mesi fa) di puntare a un risultato abbondantemente al di sopra del 10%. E, accantonati i diverbi con il partito di provenienza, si presenterà come assai innovativa nelle proprie proposte, le quali non si limiteranno — immaginiamo — alla messa in discussione delle scelte che furono di Renzi. Dopodiché dovrà sforzarsi di non apparire un calderone in cui vanno a mescolarsi esponenti dei frantumati gruppi dell’ultrasinistra con ex parlamentari del Pd che non hanno trovato posto nelle liste del partito in cui fino a ieri militavano.

Quest’aspetto è molto importante e in ciò hanno ragione, a ogni evidenza, Tomaso Montanari e Anna Falcone, titolari dell’assemblea che fu del Brancaccio i quali, come ultimo monito (prima di sciogliersi), hanno esortato il raggruppamento che debutterà nell’ennesima convention del prossimo 3 dicembre, a darsi un’immagine oltremodo diversa da quella testé descritta. Un militante milanese legato a Montanari e Falcone, Alessandro Brambilla Pisoni, ha rivelato di aver appreso — per esperienza diretta — come i leader dei partitini della sinistra estrema si siano già divisi, pro quota, le future liste in vista del «processo costituente». Denunce analoghe sono state portate alla luce dal quotidiano «Il Fatto». Il capo di Mdp, Roberto Speranza, ha risposto che si tratta di «falsità». Anche Nicola Fratoianni di Sinistra italiana ha smentito. Quello di «Possibile», Pippo Civati, ha addirittura minacciato querele al quotidiano di Marco Travaglio.

Vedremo. Ma adesso sembrerebbe salutare che sia quelli rimasti dentro i confini dell’alleanza con il Pd — all’apparenza: Giuliano Pisapia, Emma Bonino, i verdi di Angelo Bonelli, i socialisti di Riccardo Nencini, i radicali di Riccardo Magi, gli europeisti di Benedetto Della Vedova — sia gli altri, di cui si è detto, restati fuori dal recinto ulivista, provino quantomeno a disintossicare il dibattito politico dalla nevrotica definizione di ciò che li divide e a dar vita a progetti capaci di conquistare sul campo un robusto consenso elettorale. A loro nessuno chiede una «foto di Harare». Bensì di fornire la prova, ognuno per la propria parte, che l’Italia fa ancora eccezione al quadro europeo di inesorabile declino della sinistra.

CORRIERE.IT

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