Le regioni e un’intesa necessaria

È già passato un mese dal referendum sull’autonomia che ha visto pronunciarsi in due distinte consultazioni gli elettori della Lombardia e del Veneto. Partecipazione e risultato sono stati difformi, a Est si è superato addirittura il quorum che gli organizzatori si erano auto-imposti mentre a Ovest l’affluenza è stata significativamente più bassa e ha visto aprirsi una notevole divaricazione tra la grande città e i territori. In sede di bilancio del voto è stato già sottolineato come questa distanza non fosse meramente statistica ma rimandasse a differenti culture e soprattutto dipendesse dal maggiore/minore grado di apertura internazionale delle rispettive comunità. Ma a questo punto la pur lodevole indagine sociologica deve lasciare il passo alla ricerca di soluzioni percorribili che sappiano far tesoro del clima di grande civiltà nel quale si è votato e che ci ha visto primeggiare su altri sventurati esempi europei.

Per una volta poi la politica non è rimasta con le mani in mano e il tempo passato dalla conta dei consensi a oggi è stato impiegato per costruire un negoziato nel quale ha fatto il suo ingresso un’altra regione, l’Emilia-Romagna, che pur manifestando indirizzi autonomisti non aveva però inteso organizzare un referendum popolare giudicandolo divisivo. Quali che siano state le scelte a monte oggi il governo ha avviato con la stessa Emilia-Romagna e la Lombardia un percorso che, incrociando le dita, ha tutti i numeri per rivelarsi virtuoso.

Ci sono le condizioni, infatti, da qui al termine dell’attività dell’esecutivo presieduto da Paolo Gentiloni per arrivare a due differenti intese che potrebbero consentire un passo in avanti nella cultura amministrativa italiana, coniugando devolution e responsabilizzazione degli enti regionali. Le procedure prevedono che accordi di questo genere — assimilati a quelli che vengono stipulati con le confessioni religiose — debbano essere sottoposti al vaglio del Parlamento nazionale ma in questo caso, per obiettivi motivi di tempo, stiamo parlando delle prossime assemblee e non di quelle in carica. Le Camere a quel punto potranno ratificare o meno le intese con Lombardia ed Emilia-Romagna, non modificarle.

E’ possibile però che il bilancio di questo percorso federalista di fine legislatura sia positivo senza fare i conti fino in fondo con le istanze del Veneto? La regione nella quale la passione autonomista è più largamente presente e condivisa anche da quei segmenti della società più abituati per il loro lavoro a confrontarsi con i mercati globali? Certo che no. E di conseguenza il governo dovrà far ricorso a tutta la capacità di mediazione per incrociare la sua rotta con quella del presidente del Veneto, Luca Zaia. Per onestà bisogna dire che il percorso si presenta tutt’altro che agevole. Le 23 materie di decentramento decisionale che Zaia propone, messe tutte assieme, rappresentano un macigno per la trattativa e in più il governo non potrebbe accogliere la richiesta veneta di trattenere sul territorio i 9/10 del prelievo fiscale. Esiste, infatti, in proposito un pronunciamento negativo della Corte Costituzionale che lega le mani al presidente del Consiglio.

Tocca dunque a Zaia, per certi versi, la prossima mossa. Può lasciare il segno contribuendo anche personalmente a far avanzare la cultura federalista in Italia o può scegliere di far saltare il tavolo del possibile negoziato. Nessuno può obbligarlo ad abiurare i suoi convincimenti più profondi, gli si chiede solo di utilizzare come bussola il suo collega di partito Roberto Maroni.

CORRIERE.IT

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