Le pericolose spine nel fianco della crescita
«Come son giuste le elezioni». Lo cantava, ironicamente, Giorgio Gaber tanti anni fa e dopo il mare magnum di domenica, vale la pena chiedersi se sia vero. Per gli investitori internazionali, è stato un voto inconcludente, nebbioso e pieno di dubbi. Per vederci più chiaro, un mio amico banchiere ha invocato la «Var della politica», che purtroppo non è stata ancora inventata. In assenza di aiuti tecnologici, bisogna capire se queste elezioni siano state «giuste» nell’aiutare a risolvere gli annosi problemi dell’economia italiana.
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La risposta è no, a prescindere da chi sarà primo ministro, e da quale coalizione gli starà dietro. Il successore di Gentiloni dovrà fare i conti con una congiuntura economica fragilissima, che verrà aggravata se i partiti «vincitori» manterranno le proprie promesse di abbassare le tasse e spendere denaro pubblico.
Le malattie dell’economia italiana sono essenzialmente tre: debito pubblico alle stelle, altissima disoccupazione e un sistema bancario in grave difficoltà. La combinazione di questi ingredienti ha prodotto una crescita economica flebile, inaffidabile e ben al di sotto della media europea.
È vero che, come ci ricordano i politici, l’anno scorso l’Italia ha raggiunto la più forte velocità di crociera dal 2010, grazie soprattutto alle esportazioni. Ma guardiamo il contesto: il prodotto interno lordo è cresciuto intorno all’1,5%, meglio delle lunghe recessioni del passato, ma molto distante dalla media della zona euro (2,5%).
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La verità è che il tessuto economico del Bel Paese si è rimpicciolito negli ultimi dieci anni, nonostante un periodo di «largesse» senza precedenti da parte della Banca centrale europea e un euro debole che spinge il Made in Italy.
La produzione economica italiana è 6% sotto il livello toccato prima della crisi finanziaria del 2008. La Germania, in quello stesso periodo, è cresciuta di più dell’11%, mentre la zona euro ha aggiunto più del 5,5% al suo Pil.
Il dramma politico delle prossime settimane (o mesi) si svolgerà di fronte a questo fondale di debolezza economica. Riusciranno i nostri eroi a governare il Paese in modo da ribaltare la situazione e aumentare crescita e benessere? Ne dubito.
Le ricette economiche offerte dai potenziali governanti non sembrano in grado di risolvere le tre cause profonde della crisi italiana.
Causa numero 1: il debito pubblico. L’indebitamento del nostro Paese è a 132% del Pil, secondo solo alla Grecia in Europa e quarto al mondo, meglio di Giappone, Grecia e Libano ma peggio di Capo Verde, Giamaica e Mozambico (con tutto il rispetto per questi Paesi).
Molte delle proposte fatte in campagna elettorale porterebbero quasi sicuramente ad un crescita nella montagna del debito. L’idea berlusconiana di una tassa fissa, per esempio, ha avuto successo con l’elettorato (chi non vuole pagare meno tasse?), ma ridurrebbe notevolmente le entrate fiscali, costringendo la pubblica amministrazione o a spendere meno (si può sempre sognare) o a indebitarsi ancora di più.
Lo stesso vale per la disoccupazione. È vero che è calata di circa un milione di posti di lavoro nel 2017 ma è sempre al di sopra del 10% come media nazionale e sappiamo tutti come al Sud sia tra il 12% e il 29% (la Germania è al 3,6%). Non solo: tre su cinque dei nuovi posti di lavoro creati negli ultimi anni sono part-time – una condizione che non aiuta né la stabilità economica né la coesione sociale.
E non è un caso che il numero di italiani a rischio di povertà sia cresciuto da tre milioni nel 2006 a 18 milioni dieci anni dopo, secondo Istat ed Eurostat.
Quando quasi un terzo della popolazione rischia di sprofondare nell’indigenza, le proposte dei 5 Stelle di istituire una specie di reddito base universale, o di spendere 17 miliardi di euro per rimborsare le famiglie per pannolini e affini, non sembrano né adeguate, né fiscalmente realizzabili.
E le banche? Povere banche. Sono sommerse da prestiti andati a male e non hanno voglia o mezzi per prestare soldi ad imprenditori o cittadini. E senza denaro, è difficile creare nuove società, assumere dipendenti o anche semplicemente investire in una casa.
Alla fine de «Le elezioni», il protagonista di Gaber ammira la matita del seggio e se la ruba. Al momento, l’Italia non si può permettere le matite e la classe politica non ha alcuna risposta.
Francesco Guerrera è il direttore di Dow Jones Media Group per l’Europa.
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