Sette giorni dopo il voto Due non giocatori (Salvini e Di Maio) sulla sponda del fiume
La sfida a due
Il polverone sollevato dalla battaglia elettorale non si è ancora diradato. Nella nebbia, sette giorni dopo, si intravedono un fiume, due guerrieri seduti sulle sponde opposte, un eroe steso al suolo circondato dalla sua guardia pretoria, un anziano generale disarcionato che tenta di radunare le truppe sbandate. In alto, su un colle, un uomo osserva la scena. I due guerrieri sono i cosiddetti «vincitori». Di Maio e Salvini. Sono su sponde opposte perché non possono allearsi per formare un governo. Se lo facessero, uno dei due dovrebbe rinunciare o alla flat fax, perdendo la faccia al Nord, o al reddito di cittadinanza, perdendola al Sud. Possono però allearsi per impedire che chiunque altro faccia un governo. E chissà se non l’hanno già stretto, tra di loro, un accordo del genere; se non sia in realtà questo l’obiettivo delle loro prime mosse, che sembrano fatte apposta per non muovere niente, Di Maio è salito su un predellino rivendicando Palazzo Chigi e Salvini ha addirittura chiesto i voti del Pd per andarci. Così non ci arrivano. Per loro non vale lo schema che seguirono Moro e Berlinguer nel 1976, alleandosi. E non solo perché non ne hanno il respiro storico, o la levatura. Si sentono e sono i capi di un nuovo bipolarismo, di una Terza Repubblica, in cui intendono alternarsi al governo e all’opposizione, senza più i vecchi leader tra le scatole. Ma sanno che la transizione è ancora incompiuta, che il primo colpo non è bastato, dunque non gli dispiacerebbe un secondo colpo, a uno per spolpare ciò che resta del Pd e all’altro per assorbire Forza Italia. Sono gli unici, tra tutti i reduci dello scontro elettorale, a potersene augurare un altro a breve. E infatti stanno fermi. Sulla sponda del fiume. Ad aspettare.
Il tempo
Ecco perché stavolta si va lenti. Lentissimi. Del governo si comincerà a parlare davvero al Quirinale dopo Pasqua. Dunque è difficile una soluzione prima di maggio, se mai ne troveremo una. La politica italiana è tornata alle movenze da palombaro. Conviene a chi non vuole giocare al tavolo delle alleanze, come i due guerrieri di cui sopra.
Ma conviene anche a chi vuole giocare per riprendersi un ruolo che per ora gli è precluso. I secondi, che chiameremo i «giocatori», sperano che le scadenze del bilancio, la pressione dei mercati, l’allarme dell’Europa, costringano dopo qualche mese almeno uno dei «non-giocatori» ad accettare un qualcosa, un governo di tutti e di nessuno, un governo delle astensioni, un governo del presidente. A proposito, occhio alla Libia. L’accordo raggiunto da Gentiloni per fermare le partenze è appeso a un filo, andrebbe rinegoziato in caso di nuovo esecutivo, e ad aprile il mare torna navigabile. Sulle schede avevamo una pletora di candidati premier e rischia di finire con un governo balneare. Il Rosatellum doveva garantire che i Cinquestelle non raggiungessero la maggioranza dei seggi, e c’è riuscito. Ma contava sul piano B della Grande coalizione, e lì ha fallito. Gentiloni e Tajani tornano in panchina, il primo restituito alla ordinaria amministrazione, il secondo al Parlamento europeo.
L’eroe a terra
È Renzi, come nella vignetta dell’Economist, steso dal populismo. Sconfitto, dimissionario, ma non certo ritiratosi a vita privata (nonostante la foto della racchetta da tennis postata sui social). Ha deciso di stare tra i non-giocatori, e prima di lasciare ha dettato la linea: il Pd dirà no a tutto, e se ne andrà all’opposizione. Però se non nasce un governo non c’è neanche l’opposizione. Se il Pd avesse interesse a un secondo voto, la sua tattica si capirebbe. Ma quanto a lungo il partito che ha definito Lega e M5S un pericolo mortale per l’Italia può auspicare un governo Lega-Cinquestelle, come ha fatto Rosato? Perciò molti pensano che in questa grande surplace della politica italiana i primi a cedere saranno proprio loro, i dem, sfiancati e divisi. Quasi tutte le soluzioni per un futuro governo contano su questo breakdown. Se domani Renzi confermerà le dimissioni in direzione, tra qualche settimana l’assemblea nazionale eleggerà un segretario (in pole Graziano Del Rio) e poi comincerà il lungo percorso verso le primarie. Nessuno può dunque dire oggi che cosa farà il Pd, neanche che cosa ne sarà. Anche per questo tutti aspettano.
Il generale disarcionato
«Un cavallo, il mio regno per un cavallo», sembra dire Berlusconi come un Riccardo III, vagando sul campo dove per un quarto di secolo ha dominato. Per la prima volta nella sua storia politica ha davvero perso le elezioni. È stato scavalcato da Salvini, e ora deve essere leale al patto stretto con lui, chi arriva prima è il candidato premier del centrodestra. Ma la voglia di saltare su un nuovo cavallo e tornare alla pugna è stata resa evidente dalla sua adesione immediata all’appello al senso di responsabilità del capo dello Stato. «Farò di tutto — ha detto — nel dialogo con tutti gli interlocutori, pur di fare uscire l’Italia dallo stallo e dare un governo al Paese». Per la ragione opposta ai due vincitori, anche lui ha bisogno di tempo per rimettersi in sella, ma ha in casa Gianni Letta che in questo è più bravo di Fabio Massimo il Temporeggiatore. La sua idea, o speranza, è che, esauriti i tentativi dell’uno (Di Maio) e dell’altro (Salvini), sia la Lega stessa a proporre un diverso nome per la premiership che possa avere il voto dei futuri dem derenzizzati. Insomma: lo schema larghe intese allargato a Salvini. Così tornerebbe centrale. L’alternativa è essere fagocitato dalla Lega al secondo turno elettorale. Dunque non ha alternativa.
Il Colle
L’uomo con i capelli bianchi che osserva dall’altura su cui sventolano la bandiera italiana e quella europea, non gioca per definizione. È un arbitro. L’esito della battaglia non è chiaro, perciò anche lui non può che aspettare, vedere se i contendenti metteranno davanti ai propri vessilli quello dell’interesse nazionale, cosa che ha già invitato a fare, e scenderanno a patti. Per quanto i predecessori abbiano usato a fisarmonica i poteri del presidente, talvolta ampliandola al massimo, da ex giudice costituzionale lui è molto ligio al dettato della Carta: sono i partiti che devono trovare una maggioranza, in una repubblica parlamentare. Ma, in caso di fallimento, non mi stupirei se ci stupisse. A un certo punto, falliti tentativi ed esplorazioni, può mandare un premier da lui incaricato davanti alle Camere per vedere se trova una maggioranza. Se la trova, sarà un governo di scopone, cioè con uno scopo così grosso che possa giustificare il sì di tutti (per esempio una nuova legge elettorale; anche se con questi risultati non c’è legge, neanche quelle del passato, che tenga). E se invece non ci riesce, resta in carica per portarci di nuovo al voto. Nell’un caso e nell’altro, questa lunga transizione ha una scadenza già segnata sul calendario: la prossima primavera ci sono le Europee, che riaprono la partita continentale, anche quella del dopo Draghi. Se proprio si deve tornare alle urne, insomma, potrebbe apparire più sicuro farlo subito, a fine settembre, o al massimo a febbraio.
Il Palazzo
Prima del governo viene il Parlamento. Chi saranno i presidenti di Senato e Camera, senza i quali i giochi non possono nemmeno cominciare? Gli schemi possibili sono due. Il primo vede il centrodestra decidere che, siccome il candidato premier è Salvini, il presidente del Senato spetta a Forza Italia. Tra gli azzurri di gente che può prendere i voti dei senatori democratici a scrutinio segreto ce n’è. Per semplicità diciamo Romani. A quel punto potrebbe avvenire lo stesso alla Camera, a parti rovesciate, portando sullo scranno più alto di Montecitorio qualcuno del Pd che ha votato un azzurro al Senato. Diciamo un Franceschini. L’altro schema è che la Lega non ci sta a fare lo sgambetto ai Cinquestelle e dunque si divide le presidenze con Di Maio, diciamo un Calderoli al Senato e una pentastellata al posto della Boldrini. Se però Salvini adotta questo schema rompe troppo presto la pseudo-coalizione con Berlusconi. Forse non gli conviene.
Il campo di battaglia
Preoccupano le condizioni della popolazione civile. Soprattutto la nuova, profonda divaricazione che il voto sembra aver scavato tra Nord e Sud. Gli elettori da Pescara in giù hanno rimesso sul tavolo la questione meridionale votando in massa per i Cinquestelle e il ragazzo di Pomigliano che li guida. Anche se non l’hanno fatto per l’assegno ma per far fuori una classe dirigente, anche se non fanno la fila ai Caf in cerca del modulo per il reddito di cittadinanza, la gente ora si aspetta qualcosa. Ma nel Nord leghista c’è chi rilancia l’antica accusa: quelli del Sud vogliono vivere di assistenza con le troppe tasse che paghiamo noi, dov’è la flat tax? Forse il prezzo più caro delle tante promesse fatte in campagna elettorale può essere questo: il riaprirsi di una ferita, una frattura nel Paese.
CORRIERE.IT
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