Cosa unisce Verdini, Ingroia e le “sante” Br

C’è stato un tempo non lontano in cui Denis Verdini, all’epoca coordinatore di Forza Italia, era dipinto come il male assoluto a capo di una associazione segreta – la P3 – e Antonio Ingroia, allora pm siciliano a caccia di politici (soprattutto di centrodestra), il bene assoluto, moralizzatore di un Paese marcio.

Verdini venne travolto dal ciclone giudiziario e mediatico. Ingroia, sostenuto dalla compagnia de Il Fatto Quotidiano di Marco Travaglio (sul quale ancora oggi pontifica di etica pubblica e privata), tentò di capitalizzare la sua fama buttandosi in politica: fondò un partito Rivoluzione Civile ma fece un buco nell’acqua che lo costrinse a ritirarsi dalla magistratura.

Ieri il primo, Verdini, è stato assolto dall’accusa ridicola di essere un mestatore complottista membro di una setta segreta e al secondo, Ingroia, sono stati sequestrati centocinquantamila euro con l’accusa di peculato: come manager di una società pubblica siciliana suo nuovo lavoro avrebbe dissipato soldi in alberghi di lusso e autoaumenti di stipendio non giustificabili.

Entrambi i casi (Ingroia santo e Verdini mascalzone) condizionarono pesantemente il naturale evolversi della democrazia e oggi scopriamo che si trattò di due falsi. Troppo tardi per rimediare ai danni personali e politici. Questo accade quando i giornalisti non tutti ma troppi prendono per oro colato le accuse delle procure, trasformando tesi strampalate in verdetti definitivi. Per noi de il Giornale le due notizie di ieri sono una amara consolazione degli insulti che ci prendemmo per essere andati, all’epoca dei fatti, controcorrente. Amara perché comunque la nostra categoria non può chiamarsi fuori dallo sfascio di questo Paese. Come accade in queste ore per l’anniversario 40 anni del rapimento di Aldo Moro e della strage della sua scorta. Non ce la fanno proprio i colleghi «democratici» di giornali e tv a trattare i brigatisti per quello che sono, cioè assassini vigliacchi. Li trattano con rispetto, porgono il microfono come se stessero intervistando un opinionista. Non è timidezza, è che provengono dalla stessa sciagurata storia politica e culturale sessantottina. Qualcuno prese il mitra, altri la penna. «Compagni che sbagliano» li definirono i pennaioli, ma pur sempre compagni. Il tempo passa ma la penna continua a fare danni: Verdini e le vittime morali di Ingroia ne sanno qualcosa.

IL GIORNALE

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