La sinistra e i diritti degli amici
Adesso che si è consegnato alla giustizia del proprio Paese, nella sede di polizia di Curitiba, vale la pena di soffermarci a riflettere sulle modalità con le quali il settantaduenne Luiz Inacio Lula da Silva, ex operaio, sindacalista e infine Presidente del Brasile dal 2003 al 2011, si è reso disponibile a scontare la condanna a dodici anni di carcere (per corruzione e riciclaggio) inflittagli da due sentenze. Per cominciare, però, vanno messe in chiaro due o tre cose. La prima: non è venuta alla luce una prova definitiva e incontrovertibile del fatto che all’ex presidente sia stato regalato un superattico su tre piani con piscina, terrazza e strepitosa vista sul mare come vorrebbe il capo d’imputazione di Sergio Moro, titolare dell’inchiesta «Lava Jato» («autolavaggio», una «Mani pulite» in versione brasiliana. Esistono, però, un contratto d’acquisto firmato nel 2005 dalla moglie di Lula, Marisa Leticia, e ritrovato nella loro casa; fotografie che documentano sue ispezioni ai lavori di ristrutturazione dell’appartamento; testimonianze unanimi del portiere dello stabile, dei vicini, degli operai secondo i quali Lula e la moglie si comportavano, in tutto e per tutto, come se fossero i «padroni di casa». Ed esistono altresì molteplici indizi che, stando alle sentenze, dimostrano come anche i lavori di ristrutturazione del favoloso appartamento fossero a carico dei corruttori, riconducibili alla compagnia petrolifera Petrobras.
Secondo punto: il processo, a detta dei difensori di Lula, è stato molto più veloce di altri dallo stesso impianto. Terzo punto: il prossimo ottobre si terranno in Brasile le elezioni presidenziali e Lula, stando ai sondaggi, godrebbe di un vantaggio di circa venti punti sui suoi competitori. Talché può essere presa in considerazione l’ipotesi di un complotto per impedirgli di essere eletto. Cospirazione ordita dai suoi avversari politici e da non meglio identificati poteri economici. Questo almeno è quel che affermano i suoi sostenitori, prima tra tutti Dilma Rousseff, la donna che ne ha raccolto l’eredità, ha guidato il Brasile dopo di lui (2011-2016), ha provato a sottrarre Lula alla giustizia con un escamotage (nominandolo ministro) e alla fine, due anni fa, è stata anche lei travolta dal Parlamento con l’accusa di aver truccato i dati del deficit del bilancio pubblico. Per essere poi destituita.
Ma veniamo alle modalità con le quali Lula si è consegnato alla giustizia. Dapprima l’ex presidente si è rifugiato per alcuni giorni nella sede del «suo» sindacato a Sao Bernardo do Campo in attesa che quelli che lo sostengono si radunassero attorno all’edificio. Poi ha avviato una trattativa con le autorità, politica e giudiziaria, per ottenere un volo privato che lo portasse al luogo predisposto per la detenzione e una sistemazione carceraria più confortevole di quella prevista per gli altri detenuti. Faceva questo, sosteneva, per tranquillizzare i suoi seguaci e «prevenire i disordini» che avrebbero potuto verificarsi in caso di suo arresto «manu militari». Ottenute le due cose, Lula ha lasciato scadere, senza onorare l’impegno a consegnarsi, i termini ordinari per l’esecuzione della sentenza e ha ottenuto un giorno di permesso in più per la celebrazione, in sua presenza, di una funzione religiosa in ricordo della moglie, la Marisa Leticia di cui si è detto, scomparsa un anno fa. Tempo che gli è stato concesso sicché ha potuto aver luogo quella che Rocco Cotroneo su queste pagine ha descritto come «una cerimonia che assomigliava vagamente a una messa con preghiere e canzoni amate dall’ex primeira dama celebrata da don Angelico Sandalo Bernardino «già vescovo, compagno di strada del partito di Lula». E mentre il prete «parlava a vuoto» (proseguiva Cotroneo), l’ex presidente abbracciava le persone che salivano sul palco, salutava a pugno chiuso, leggeva ad alta voce i bigliettini che gli venivano consegnati. Finché prendeva lui stesso la parola e per un’ora abbondante arringava la folla contro gli orditori della congiura ai suoi danni: «Hanno voluto togliere di mezzo l’unico Presidente senza titolo scolastico, colui ha fatto di più per i poveri di questo paese», ha gridato. Finita la «messa», ha annunciato che avrebbe voluto assistere alla partita di calcio tra le squadre del Palmeiras e del Corinthians e qui sono stati i suoi stessi avvocati a fargli presente che sarebbe stato più saggio consegnarsi all’autorità. Cosa che lui ha fatto tra ali di folla che, senza essere scoraggiate, lo imploravano di «resistere», di «non consegnarsi». Nel frattempo il Movimento Sem Terra paralizzava, bruciando copertoni, trentasette autostrade in tutto il Paese e il suo leader, Joao Pedro Stedile annunciava che il loro beniamino «verrà liberato da grandi manifestazioni di massa».
Lula è un personaggio fuori dal comune, amatissimo dal «suo popolo» e chi conosce anche superficialmente l’America Latina non può stupirsi del modo con cui i suoi seguaci hanno ritenuto di testimoniargli affetto. Stupisce, semmai, che qui in Europa ciò che è accaduto sia stato trattato alla stregua di un episodio folkloristico, privo di qualsiasi implicazione politica. In Italia poi, la sinistra — nelle ore in cui era dilaniata sul tema se accettare o meno le profferte di Luigi Di Maio — per qualche ora ha sospeso le ostilità fratricide e si è «riunificata» per firmare un impegnativo manifesto pro Lula. In esso si poteva leggere che, non essendo «emerse a suo carico prove tali da dimostrare che egli si sia appropriato di risorse pubbliche o abbia ricattato imprese per ottenere benefici personali», era da biasimare il fatto che venisse incarcerato (pur se si riconosceva essere ciò avvenuto in osservanza di specifiche norme). A leggere tra le righe, un’esibizione di certezza — da parte dei firmatari — circa l’inconsistenza delle prove a carico di Lula e una implicita pesantissima accusa nei confronti dei magistrati brasiliani. Il documento esprimeva poi «grande preoccupazione e un vero e proprio allarme per il rischio che la competizione elettorale in un grande Paese come il Brasile venga distorta e avvelenata da azioni giudiziarie che potrebbero impedire impropriamente a uno dei protagonisti di prendervi parte liberamente». Praticamente quei magistrati o quantomeno le loro «azioni giudiziarie» venivano accusati di aver «avvelenato» la vita politica del Brasile in combutta, si presume, con i nemici del Partido dos Trabalhadores. Firmato, tra gli altri, da Romano Prodi, Massimo D’Alema, Piero Fassino, Susanna Camusso, Pier Luigi Bersani, Lia Quartapelle, Vasco Errani, Guglielmo Epifani. Ora, a nessuno dei sottoscrittori può essere sfuggita qualche assonanza tra quel che in quella loro pagina si scrive a favore di Lula e ciò che qui in Italia negli ultimi trent’anni è stato detto e scritto da avversari della sinistra a proposito di «competizioni elettorali» distorte per effetto di azioni giudiziarie. Siamo altresì certi che ognuno dei firmatari in passato ha sostenuto che le sentenze della magistratura — a meno che non siano state emesse da tribunali speciali di un qualche regime — vanno sempre e comunque rispettate. Anche quando si nutre qualche dubbio sul merito delle decisioni e sull’operato dei giudici. Cosa peraltro non infrequente tra gli imputati. Avranno sostenuto anche, Prodi e gli altri, che la solidarietà di appartenenza non dovrebbe modificare il giudizio, neanche nel caso in cui un atto giudiziario modifichi i termini della competizione politica (ciò che qui da noi è capitato più di una volta). E cosa è cambiato adesso? Quando tocca a uno dei «nostri» valgono criteri diversi? Quel manifesto, diciamolo, sarebbe stato un atto davvero rilevante se, invece che essere stato steso a favore di una personalità della propria «famiglia», fosse stato redatto per difendere i diritti di un politico del campo avverso. In questo caso, apporre quella firma, sarebbe stato un modo per dimostrare che, per gli autorevolissimi sottoscrittori, i principi valgono più di ogni spirito familistico di appartenenza. Sarà per un’altra volta.
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