Lega e M5S, dopo il contratto di governo quello di desistenza: non oscuriamoci i ministri
Mai rubarsi la scena, mai invadere le competenze degli altri. E se questo vale per i due leader della maggioranza al governo, a maggior ragione deve valere per i singoli ministri leghisti e pentastellati. Un esempio concreto di questo metodo concordato si è avuto giovedì scorso, quando Matteo Salvini è arrivato all’Assemblea generale della Confcommercio senza dire una parola e ha poi lasciato l’Auditorium di via della Conciliazione muto come un pesce, evitando taccuini e microfoni. Cosa insolita per il capo del Carroccio, che coglie tutte le occasioni per dire la sua. Invece l’altro ieri si è seduto in prima fila ad ascoltare l’intervento di Luigi Di Maio al debutto nella veste di super-ministro dello Sviluppo economico e del Lavoro, ha preso qualche appunto, ha applaudito e poi via.
Anche se una traccia della sua presenza tra gli operatori del commercio alla fine l’ha voluta lasciare sotto forma di tweet: «Qui a Confcommercio, con chi produce e resiste! Commercianti, partite Iva e imprese hanno bisogno di pace fiscale, flat tax, eliminazione di spesometri, redditometri, studi di settore e burocrazia, questo sarà il nostro impegno di governo». Insomma, non poteva passare del tutto sotto silenzio la sua presenza. Del resto, in quella sala c’era l’elettorato che è stato tradizionalmente fedele al centrodestra e ha sempre riservato standing ovation all’amico Silvio Berlusconi. Ora, a rappresentarli al governo è Salvini, anche con la difesa del Made in Italy attraverso il ministero dell’Agricoltura e del Turismo, affidato al leghista Gianmarco Centinaio. Ma gli applausi li ha lasciati a Di Maio, quando è stato l’alleato a parlare.
Quanto durerà l’accordo a non rubarsi la scena lo vedremo nel tempo. Intanto al fischio d’inizio gli ambiti d’influenza vanno tenuti ben separati: c’è un patto di desistenza tra i due diarchi del governo giallo-verde, un’intesa a non sovrapporsi, a non farsi ombra, a non esporsi su questioni e vicende che coinvolgono e coinvolgeranno sempre di più i rispettivi ministeri. Non è un caso che Salvini abbia voluto la responsabilità del Viminale per cavalcare il suo cavallo di battaglia, che è sempre stato lo stop all’immigrazione e la sicurezza. E che Di Maio si sia intestato i dicasteri da cui passerà l’elaborazione del reddito di cittadinanza. Ci sarebbe un patto pure su come dovranno funzionare i meccanismi in tutti gli altri ministeri.
I sottosegretari espressione di un partito non avranno competenze tali da disturbare il manovratore, ovvero il ministro dell’altro partito. Gli stessi viceministri avranno deleghe non sovrapponibili al responsabile di quel dicastero. Quasi compartimenti stagni.
Sconfinamenti invece sono autorizzati nei ministeri a guida tecnica: all’Economia, agli Affari Esteri, alla Difesa. A via XX Settembre in particolare i collaboratori di Giovanni Tria dovranno essere molto presenti e avere competenze decisive per realizzare la flat tax sulla quale punta molto la Lega. Sarà necessario un viceministro ferrato in materia finanziaria, in grado di indirizzare le mosse del professore. E molti segnali fanno capire che Tria non avrebbe intenzione di ridurre la pressione fiscale facendo ricorso a qualunque mezzo, compreso l’extra gettito. Ma il problema di come saranno capaci di muoversi i ministri tecnici non riguarda solo l’Economia.
In quelle stanze saranno necessari dei guardiani del «contratto» sottoscritto da Salvini e Di Maio. Quel contratto ai quali tutti dovranno attenersi per evitare deragliamenti. Compreso il presidente del Consiglio Giuseppe Conte che magari, cammin facendo, sentirà la necessità di «emanciparsi» dai due leader della maggioranza, scontentando le basi elettorali della Lega e del Movimento 5 Stelle.
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