Alias, falsi indirizzi e età misteriosa. Così delinquere diventa più facile

«Abitiamo al campo rom di via Monte Bisbino». Quando le acciuffarono dopo che avevano svaligiato la casa del sindaco Beppe Sala, le giovani nomadi non ebbero difficoltà a dare il loro indirizzo: uno degli insediamenti più noti e problematici di Milano.

Peccato che quando le Volanti andarono al campo per cercare la refurtiva, scoprirono che le ragazze lì non avevano mai messo piede. Capire dove vivessero davvero era praticamente impossibile. Solo una botta di fortuna, una telefonata triangolata in diretta con una complice, portò ad arrivare al loro vero domicilio: una bella villa, non una roulotte o una baracca, in cui erano imboscati borsette, gioielli, orologi, telefoni. I proventi di una intensa attività di svuotamento di abitazioni.

Ed è questo il film che va in onda tutte le volte in cui una indagine penale porta a scavare nell’universo del nomadismo: un universo a parte, dove dati banali – nomi, cognomi, anni e luoghi di nascita – si perdono nella vaghezza e svaniscono in sfilze di alias, di consonanti che vanno e vengono e fanno impazzire i computer. Individuare i colpevoli o anche i semplici sospettati diventa così una fatica di Sisifo. Ne sanno qualcosa gli investigatori della Mobile di Roma che l’anno scorso dovettero scavare nell’orrore della baraccopoli di via Salviati, dove tre sorelle rom erano state bruciate vive nel loro camper da altri rom: e ricostruire passo per passo la faida di odi e di affari tra gli Halilovic e i Seferovic, accoppiando a ogni nome e soprannome un nome certo, un ruolo, un posto di vita, richiese settimane.

Il problema è che fin dall’inizio, dalla nascita, sopratutto se avviene all’estero, i rom non vengono registrati. E se nascono in un ospedale pubblico italiano, quello è il loro primo e ultimo contatto col mondo dell’anagrafe. La prima conseguenza, in ordine di tempo, è un’evasione drammatica dell’obbligo scolastico. La seconda è l’ingresso nell’area della marginalità e della devianza di migliaia di giovani sostanzialmente non rintracciabili e non identificabili. Un dato cruciale come l’esatta data di nascita, che determina anche le soglie di imputabilità, è spesso aleatorio. Quando un vigile urbano a Milano venne travolto e ucciso da due rom, per capire se l’autore del delitto fosse davvero minorenne fu necessario del bello e del buono. E i carceri minorili di tutta Italia pullulano di detenuti di origine nomade la cui età effettiva è assai vaga.

Ma il vero problema, in assenza di un censimento della popolazione nomade, è la mancanza di un data base paragonabile a quello della popolazione italiana, da utilizzare per dare la caccia ai responsabili di reati. Le forze dell’ordine lo sanno, e rimediano a modo loro con blitz periodici che, con un pretesto qualunque, puntano a catalogare gli ospiti dei centri, per sapere dove andarli a beccare in caso di guai: è successo nei giorni scorsi sia a Merano che nel Bergamasco. Ma sono fotografie parziali e destinate a ingiallire presto, in assenza di un piano nazionale.

La nebbia è così fitta che a volte diventa difficile anche identificare i morti: come accadde per il ladro che nel 2015 venne ucciso da un benzinaio vicentino, e che rimase per un giorno intero senza nome. Ma il vero rompicapo è orientarsi nelle composizioni delle famiglie, nei rapporti tra clan che spesso degenerano in faide violente, come quella che nell’agosto scorso a Trescore Balneario portò due gruppi di rom a affrontarsi a revolverate in un parcheggio, e piovevano proiettili 9×21 come nel Far West; o quella che nei giorni scorsi a Firenze ha scatenato l’inseguimento costato la vita a un giovane uomo in motorino. In assenza di una anagrafe, orientarsi in queste dinamiche è quasi impossibile. E forse anche la celebre fuga di Igor il Russo sarebbe finita prima se i complici di cui godeva l’appoggio nei campi nomadi di Berra, a ridosso del Po, avessero avuto nome e cognome.

IL GIORNALE

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