Di Maio tradisce anche i pm pur di salvare il governo

Hanno fatto a pezzi anche l’ultimo feticcio: i magistrati. Ormai si fa fatica a seguire i cambiamenti del Movimento Cinque Stelle, Luigi Di Maio sembra un acrobata impegnato in imprevedibili evoluzioni al trapezio.

Del resto, il patriarca Gianroberto Casaleggio teorizzava l’ircocervo grillino come una creatura in grado di muoversi a seconda degli umori della «rete». Quindi se l’alleato Matteo Salvini è il beniamino delle folle, meglio difenderlo. E dimenticarsi del vecchio amore per le toghe.

Il capo politico è stato chiaro: «La magistratura ha tutti gli strumenti per trovare quei soldi, qualora ci siano – ha spiegato a La Repubblica interpellato sull’ordine di sequestrare i fondi della Lega -. Salvini ha detto che sono stati spesi. Io non ho nessun imbarazzo perché questa storia riguarda i tempi in cui la Lega era guidata da Umberto Bossi».

Poi ha aggiunto, riscoprendosi giustizialista a corrente alternata: «Perché non mi chiedete dell’inchiesta sul governatore della Basilicata Pittella?». In un’altra intervista, a Sky Tg24, Di Maio ha poi rilanciato un tema caro ai grillini, il taglio delle pensioni d’oro: «Questa settimana in commissione Lavoro al Senato calendarizzeremo la proposta di legge: chi prende una pensione sopra i 4-5mila euro netti e non ha versato i contributi avrà una pensione per quanti contributi ha versato».

Il giorno prima dell’intervista di Di Maio a Repubblica, era stato Jacopo Morrone, sottosegretario leghista alla Giustizia, a dichiarare guerra aperta, durante un incontro con alcuni giovani magistrati: «Voi sapete a che partito appartengo, cioè la Lega, e mi auguro che la magistratura si liberi dalle correnti. Mi auguro in particolare che si liberi da quelle di sinistra». Scoppia il caos. Molte toghe rampanti abbandonano la sala, Morrone rincara la dose: «Il mio partito ha una questione aperta con questi magistrati». Intervengono, sdegnati, il Csm e l’Associazione Nazionale Magistrati. Chiedono provvedimenti da parte del ministro Bonafede. Lo stesso Guardasigilli che il giorno prima, per levarsi d’impaccio, aveva detto: «Le sentenze vanno rispettate, non evochiamo scenari da Seconda Repubblica».

Di Maio, invece, si è dato al garantismo più spinto: «La questione delle correnti nella magistratura è stata affrontata da tutti. L’opposizione, che ora si scandalizza, parlava della necessità di superarle». Poi traccia il programma futuro: «Bisogna fare in modo che le scelte del Csm siano legate agli obiettivi della giustizia e non a interessi di corrente». Ormai ebbro del nuovo verbo, aggiunge: «I magistrati che entrano in politica non possono tornare a fare i giudici». Bene, bravo, bis. Il capo del M5s si è dimenticato pure del «contratto», a forti tinte manettare. Nel patto di governo si prevede una riforma e un riordino del sistema: basta all’abrogazione e alla depenalizzazione dei reati, stop alla non punibilità per particolare tenuità del fatto, via i provvedimenti «svuota carceri». E ancora «inasprimento delle pene» per un po’ tutti i reati, riforma della prescrizione, revisione del rito abbreviato. Se le carceri sono sovraffollate? La soluzione pentaleghista è quella di costruirne di nuove, così come bisogna «potenziare lo strumento delle intercettazioni» e far infiltrare «agenti provocatori» negli uffici pubblici.

Una volta arrivati al governo, però, gli stellati sembrano essersi dimenticati di alcune tra le menti ispiratrici del loro programma sulla giustizia. Piercamillo Davigo, a rischio per la sua elezione come membro togato del Csm, è sparito dai radar della politica. Nino Di Matteo, pm della presunta «trattativa» Stato-Mafia, già fan dei grillini, resta silente e a bocca asciutta. Si parlava di lui come ministro della Giustizia o degli Interni in quota M5s, poi ha sperato in un posto al sole nel dicastero di Via Arenula guidato da Bonafede, ma niente. Sfumato sia l’incarico a capo della Direzione della Giustizia Penale, sia al Dap (Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria). E anche Il Fatto Quotidiano si è allineato. Salvini non è un «delinquente», ma è solo «ridotto sul lastrico».

IL GIORNALE

 

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